13.4.18

Mi ricordo... L'Ora di De Mauro (Vincenzo Vasile)


Nell'agosto del 2004, in una serie intitolata “Mi ricordo”, pubblico non pochi interessanti articoli su eventi dell'Italia recente oramai passati dalla cronaca alla storia, costruiti sul filo della memoria personale. Tra di essi questo di Vincenzo Vasile che ricostruisce la figura del giornalista Mauro De Mauro, la sua tragica e misteriosa scomparsa, le indagini e i depistaggi dopo il suo rapimento. Lo scenario è la Palermo degli anni 60 e primissimi Settanta, quella in cui ho trascorso anch'io alcuni anni intensi e “bellissimi”, almeno nel ricordo, e c'è uno spazio speciale per l'altra Palermo, per “L'Ora”, per il movimento studentesco: in alcuni passaggi la mia memoria si sovrappone a quella di Vasile. Ma l'articolo, pieno di figure e di fatti, scritto con una forte capacità di evocazione e di scavo, è, secondo me, - per chiunque abbia un minimo di interesse per le storie palermitane di quegli anni - di lettura assai utile oltre che piacevolissima.
Ho ripreso da “l'Unità” anche il box in sintesi che riassume il percorso di vita di Mauro De Mauro.

IN SINTESI
Mauro De Mauro, giornalista de «L'Ora», il 16 settembre 1970 scompare nel nulla. Sta per rientrare nella sua abitazione di via delle Magnolie a Palermo, quando viene visto da una delle figlie: tre uomini salgono sulla sua Bmw che si allontana. Non farà più ritorno.
Nativo di Foggia, in Puglia, volontario nella Decima Mas, De Mauro aveva iniziato la sua carriera giornalistica durante la Repubblica Sociale Italiana. Catturato a Milano nei giorni della liberazione, fu imprigionato a Coltano. Nel 1948 venne processato a Bologna per presunti reati commessi durante la guerra civile, ma venne assolto per insufficienza di prove. In seguito la corte di Cassazione lo prosciolse completamente, invalidando direttamente la prima assoluzione.
Trasferitosi a Palermo, nel 1959 divenne redattore del celebre quotidiano «L'Ora», per il quale condusse, nell'arco di un decennio, numerose inchieste sul fenomeno mafioso. Poco prima di essere sequestrato, ebbe l'incarico dal regista Francesco Rosi di compiere alcune ricerche sugli ultimi giorni di vita del presidente dell'Eni Enrico Mattei, a cui il regista dedicò poi il film con Gian Maria Volontè.

Era un tipo strano. La sua faccia apparve in mezzo al telegiornale (a quei tempi uno solo, in bianco e nero). Era il 18 settembre 1970, stavo in albergo a Pesaro. Una faccia che conoscevo. Il bozzo sul naso. La cicatrice sulla fronte. Quella specie di ghigno, che forse era un sorriso. E a quel punto D. disse con voce febbrile: «Vicè, guarda..., Mauro De Mauro, il giornalista del L'Ora, il papà di Junia, ma che è successo?».
Il conduttore stava leggendo: «I familiari e i colleghi del giornalista del quotidiano palermitano della sera L'Ora, Mauro De Mauro hanno lanciato un appello: da due giorni non è tornato a casa.». Junia a Palermo non la trovammo, stava in Questura ad aspettare. E quando parlammo erano silenzi e sospiri. Stringeva il cuore pensare che la più brillante delle ragazze del «movimento» vivesse un tale dramma. Noi proseguimmo, sbalestrati, la nostra vacanza culturale: il Festival del Nuovo Cinema, il primo film del cileno Miguel Littin, e Salomè di Carmelo Bene, un'ostica «personale» di Garrel. Erano passati due anni dal Sessantotto, e già si discuteva del «riflusso», Lino Micciché spiegava che può essere politico anche un film apolitico, ogni tanto pioveva.
De Mauro era un tipo strano. La redazione del L'Ora era un enorme, unico stanzone. Il suo posto avvolto in una nuvola di fumo, nel cassetto la bottiglia, come nei film americani. Si occupava prevalentemente di morti ammazzati, l'argomento non ci interessava granché.
«Lo sai come s'è rotto il naso e la gamba quel De Mauro? I partigiani se lo sono messi sotto, gli hanno fatto pagare le torture di quando era nella Decima Mas». «No, fu un incidente d'auto». «Sì, ma sbatté contro un tronco che avevano messo in mezzo quelli della brigata Garibaldi».
«E adesso scrive sul giornale dei comunisti. ». «Ma dai, quelli del L'Ora sono come una repubblica autonoma, è gente strana, senza tessera. Il Pci mette i soldi, e basta.». «Guarda che De Mauro scrive come un dio, e l'altra volta ha pubblicato una pagina splendida sui morti del luglio Sessanta». «Sì, ma l'avrai visto che si scorda di dire che erano manifestazioni antifasciste. presenta la cosa come una rivolta di disperati». «A Palermo fu anche questo l'8 luglio ‘60, un'insurrezione senza obiettivi: ha ragione De Mauro». «Il fatto è che voi a Palermo siete proprio strani.». «Vabbè, ma io quel mestiere lì, il giornalista, non lo farei mai: improvvisazione, pressappochismo, strani giri. ».
Vediamo: De Mauro quando sparì aveva quarantanove anni, e mi sembrava un vecchio, non solo perché di anni ne avevo ventuno, ma perché quel suo mezzo secolo, a pensarci bene, l'aveva attraversato con la furia di un bisonte. Non sapevamo tante cose: che era stato sospettato e processato come l'unico italiano che avesse sparato alle Fosse Ardeatine, e che era stato assolto. Non sapevamo che aveva militato nelle Ss, in quelle tedesche, o in quelle italiane, come adesso leggo in un libro dello storico Massimiliano Griner (uno che in quei giorni del '70 stava nascendo). Sapevamo su per giù che nel '48, dopo l'evasione da un «campo» per collaborazionisti, De Mauro era approdato a Palermo, con una carta d'identità che portava un altro nome.
Andavamo all'Università. Il mio corso di Filosofia partì con quaranta «matricole», come una grossa classe di liceo. Ci conoscevamo tutti. In Filosofia c'era Junia (la figlia di Mauro) che si chiamava così in onore al principe nero Junio Valerio Borghese, e l'altra sorella, Franca, che stava a Medicina, come secondo nome faceva Valeria. A Lettere moderne c'era «un compagno bravo», uno di Cinisi, il paesone accanto al «nuovo» aeroporto di Punta Raisi. Si chiamava Peppino Impastato. E L'Ora aveva pubblicato le notizie delle manifestazioni antimafia contro gli espropri per realizzare le piste, organizzate dal gruppo di Peppino con alcuni militanti del Pci. Peppino – venendo a studiare a Paler-mo - s'era iscritto a Lotta Continua. L'Ora non stava a sottilizzare, raccolse la denuncia di Impastato, figlio di mafiosi, che fece il nome del capomafia Tano Badalamenti tra coloro che avevano brigato per la scelta speculativa dell'ubicazione di quelle piste. Questa, lo so, sembra una digressione, ma tanti fili si annodano: per esempio don Tano era in cima alla lista dei mafiosi citati da De Mauro in una di quelle inchieste che costarono al giornale una bomba mafiosa in rotativa. Poi De Mauro, versatile, aveva anche scritto il pezzo di «colore» a Punta Raisi sul primo Dc 8 Alitalia atterrato nel nuovo scalo.
De Mauro aveva 49 anni, era stato nella Decima Mas e poi era tornato a Palermo con un'altra identità... e aveva cominciato con L'Ora.
Ai tempi della nostra «Bella (?) gioventù» sembrava un ben strano giornalista. Di uno strano giornale. Di una strana città, che - anche se ci nasci e poi te ne allontani - rimane il tuo «altrove». La prima volta l'avevo visto – nei primi anni Sessanta – un pomeriggio in redazione, che dettava per telefono a uno stenografo un lungo «pezzo» su una faida mafiosa. La voce roca. «Sta leggendo?». «Macchè, va a braccio». Cioè: senza l'ausilio di alcun testo scritto. Punteggiatura e capoversi, date giorno mese e anno, nome cognome età, congiuntivi e condizionali a posto, frasi scattanti, un miracolo di mestiere, dettato in pillole per telefono al giornale più innovatore, il Giorno, del presidente dell'Eni Enrico Mattei, di cui De Mauro era anche il corrispondente siciliano.
A L'Ora, nel palazzotto di piazzetta Napoli, i ragazzi di sinistra trovavano un porto di mare abbastanza accogliente. Il direttore, quel vulcano d'uomo di Vittorio Nisticò, s'era inventato, tra le altre, una «pagina della scuola»: portavamo notizie, scrivevamo lunghe «articolesse» che, massacrate da forbici spietate, vedevano qualche volta la luce. E L'Ora pubblicava anche lo stenografico dei dibattiti al Centro di cultura, presieduto dal sociologo-profeta Danilo Dolci, e anche lì a sedici anni davo una mano. Un po' narcisi, la chiamavamo «l'altra Palermo»: porzione di città non necessariamente «di sinistra», ma molto curiosa di letture, di film, di quadri, di dibattiti, la porzione di città che trovava spazio solo nel giornale della sera.
Quello, plumbeo e paludato, del mattino semplicemente taceva. Non esistevamo.
Così quel giorno sentii De Mauro che borbottava qualcosa riguardo al mio intervento a un dibattito con Leonardo Sciascia. Con l'attenuante dell'adolescenza, avevo mosso al suo Giorno della civetta, appena uscito, un'accusa ideologica, sbagliata: non aver valorizzato la battaglia contadina contro la mafia, per mitizzare, invece, il protagonista, un capitano dei carabinieri. E Sciascia, paziente, mi aveva risposto che esistono in Sicilia dove meno te li aspetti, quindi anche nelle istituzioni, «uomini di tenace concetto» che vogliono il rinnovamento. E che la sinistra fa male a non ascoltarli. Più rude, De Mauro mi diede - meritatamente - del cretino.
Quel timbro cavernoso l'avrei ascoltato in «viva voce» qualche anno più tardi a un telefono della Questura. Al dirigente della Squadra Mobile il giornalista palermitano che era più di casa tra gli «sbirri» e che era noto per essere amico personale del ministro dell'Interno, Franco Restivo, urlava: «Liberate quei ragazzi». Tra quei venti «ragazzi» c'eravamo io e sua figlia Junia, beccati dalla polizia a volantinare un invito alla diserzione scritto in inglese maccheronico per i marines statunitensi sbarcati dalla portaerei «Nimitz» attraccata in porto, in piena «escalation» del Vietnam. Peace, Love, No war. Denunciati per aver violato mezzo codice penale, fummo «liberati» da quella voce, roca, autorevole. Qualche anno più tardi, la stessa voce impastata stonò accanto a me Bandiera rossa che trionferà, un minuto prima che con ardore giovanile io «ordinassi la carica» contro un picchetto di polizia sulla scalinata monumentale del Teatro Massimo per la «prima» della stagione del 1969, bagnata dal sangue dei braccianti di Avola. La fanciulla del West fu contestata da noi dell'«altra Palermo», che stavolta il giornale amico della sera non trattò troppo bene, perché liberammo una decina di sorci in mezzo alle gambe delle signore e riverniciammo una Jaguar.
Ma ho netto il ricordo di De Mauro che se ne stava in groppa a uno dei due grandi leoni del «Massimo» (precisamente quello scolpito nel tufo a inizio secolo dal nonno di Francesco Rutelli), e brandiva una bottiglia di whisky. Con l'aria di divertirsi molto in mezzo a una nuvola di pietre e di bottiglie di vernice. E siccome i fili dei ricordi fanno strambi scherzi, si deve anche dire che quella stessa notte il «movimento» si spostò dal Teatro Massimo alla Facoltà di Giurisprudenza, che quegli allocchi deicattolici (Sergio D'Antoni, Gigi Cocilovo, Vito Riggio) avevano avuto l'idea «trasversale» di «occupare» con voto bipartisan assieme ai fascisti (Pier Luigi Concutelli, Ciccio Mangiameli). I quali li avevano, subito dopo, ingloriosamente cacciati, per issare sul portone dell'Università «centrale» un labaro della Repubblica sociale. Così ci portammo dietro anche Mauro De Mauro, quella notte a «liberare» l'Università dagli «eredi» della Repubblica di Salò, nelle cui file Mauro alla loro età aveva combattuto. Ci si perde in questo gioco di specchi, in cui molti, troppi, e per ragioni le più diverse hanno fatto una brutta fine: l'ex fascista De Mauro ucciso non si sa da chi, il fascista Concutelli all'ergastolo responsabile di un lago di sangue, il fascista Mangiameli ucciso da altri fascisti, il comunista Impastato, figlio di mafioso, fatto a pezzi dalla mafia.
Di De Mauro si è scritto tutto, e si sa niente. È in corso l'ennesima inchiesta. Trentaquattro anni dopo. L'ultima a vederlo vivo, l'altra figlia, Franca, ricorda che sulla Bmw accanto al marciapiede di casa in viale delle Magnolie c'erano tre persone. Con suo papà erano salite a bordo, e una voce disse «amunì», che significa «andiamo». Chi si mise alla guida partì a strappi, non doveva essere pratico. De Mauro li conosceva. Si fidava? Un giornalista investigativo si fida di tutti e non si fida di nessuno. Ma c'è un momento in cui oltrepassa come un confine. E quando quella frontiera viene varcata, la fonte fidata può diventare un Giuda. E il Giuda un boja.
Piombarono a Palermo decine di giornalisti, la strana vita dello strano giornalista fu passata al setaccio, nel ventilatore venne messo a frullare molto veleno, sport locale preferito. Fu un grande, tragico spettacolo. Con polizia e carabinieri l'una contro gli altri armati che raccomandavano ai testimoni di nascondere le prove a quegli altri lì, e dicevano ai giornalisti del L'Ora e ai familiari di non fidarsi (non fidarsi del corpo di polizia concorrente, della famiglia, del giornale). Nel mio personale Spoon River palermitano sale così l'ombra di altri fantasmi: il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, il commissario della Squadra Mobile Boris Giuliano, il comandante della Legione dell'Arma, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Tutti e tre indagarono su De Mauro. Anche loro massacrati dalla mafia tra il 1979 e il 1982. Ma queste, si dirà, sono altre storie. A quell'epoca ancora sui giornali non ci scrivevo, ma li leggevo, avidamente. E leggevamo della pista dei Cc: De Mauro indagava sul traffico mafioso della droga, aveva scoperto qualcosa, per questo era stato messo a tacere. Semplice, pressoché banale, nessuna prova. E leggevamo della contro-pista della polizia: stava indagando per conto del regista Francesco Rosi sugli ultimi due giorni di vita del presidente dell'Eni, Enrico Mattei, per questo l'hanno eliminato. Pista suggestiva, non a caso tutto parte da una sceneggiatura cinematografica, nessuna prova. Un incastro di misteri, anzi una «matrioska», qualcuno titolò, ammiccando al giornale «comunista» per cui lavorava quel balzano, estroverso, mi-sterioso, ex-fascista. Dosi di veleno saranno destinate anche al suo giornale.
Proprio per questa strada, un giorno - era sempre il 1970 - la mia vita di «dirigente del movimento studentesco» tornò a incrociarsi a sorpresa con quel delitto. Bisogna sapere che l'università di Palermo era piena di studenti greci, metà spie dei colonnelli, metà resistenti esuli. Da noi studiava anche il fratello di Alekos Panagulis, Statis, e da Palermo una mattina partì - dopo decine di riunioni e una sottoscrizione - una barca a vela che doveva sfidare i gendarmi dell'isola-prigione dove languiva l'eroe-poeta, figlio di colonnello, disertore dopo il golpe dei colonnelli di Atene. L'equipaggio perse, però, ancor prima la sfida con le onde.
Questa del naufragio è un'altra storia. Ma quel che intreccia il caso De Mauro con la vita di molti studenti di sinistra palermitani è un episodio connesso all'ambiente dei greci. Lo definisco nell'esatta maniera di 34 anni fa: una provocazione. Eccolo: circolava tra noi un ex-dirigente di Ordine nuovo, che ritenevamo (e tuttora ritengo) sinceramente maturato a idee democratiche (ora è un affermato professionista). Si scoprì che, però - in nome della «controinformazione» sulle attività del giornale dei «revisionisti» del Pci - stava dando più di una mano a «un poliziotto dell'Interpol di origine siciliana che veniva da lontano, forse da Milano» il quale indagava sul seguente romanzaccio: uno dei greci in contatto con noi, frequentatore del L'Ora, avrebbe compiuto a maggio un attentato politico: l'accoltellamento dell'onorevole Angelo Nicosia, deputato missino dell'Antimafia. Il quale stava preparando - ecco la terza, effimera pista su De Mauro - un rapporto sulla speculazione edilizia e la mafia, coinvolgendo un finanziere soprannominato dai giornali «mister X», che la polizia aveva larvatamente indicato nei giorni precedenti come il bersaglio grosso della «pista-Mattei». Si faceva capire che i trascorsi rapporti di costui con L'Ora e con la sinistra gettavano ombre sul rapporto di De Mauro con il suo stesso giornale, fino a trascinare quest'ultimo, il Pci e gli antifascisti greci sul banco degli imputati per la sparizione di De Mauro.
Complicato, come un rompicapo, men che meno di uno straccio di prova, solo balle. Perquisizioni, interrogatori, uno psicodramma nella federazione del Pci, (dove noi della Fgci eravamo una specie di gruppo extraparlamentare camuffato), chiuso dalla radiazione del giovane«studente-investigatore». Atto dovuto, che rimase poi agli atti della città-tritacarne come la prova provata del nostro «stalinismo» (mentre eravamo tutto - troztskisti, castristi, guevaristi, confusionari - ma non avevamo l'età per rimpiangere Baffone). Lacrime, urla. Rapporti umani nella spazzatura. E sul piano delle indagini, altro tempo perso. La sensazione era questa: tempo perso, misteri da archiviare. Non sapevamo molte cose. Che la «pista dei greci» era il frutto di una precisa direttiva dei servizi segreti i cui vertici s'erano riuniti a Palermo nella saletta riservata di una villa settecentesca. Le indagini dovevano essere «stoppate», deviate, inquinate, fu l'ordine di scuderia, come troveremo scritto - nientemeno: a Pavia, ormai nel 2002 – in un'altro faldone giudiziario, quello relativo alla morte di Mattei. Soprattutto ci sfuggiva che quel 1970, quando De Mauro svanì nel nulla, fu l'anno del golpe. Per l'appunto, ilgolpe Borghese. Fallito. Ma golpe. Non sapevamo, ancora, che a quel golpe, mafia e massoneria avevano dato la loro adesione, il supporto organizzativo: uno dei Rimi - vecchia conoscenza di De Mauro - in trasferta a Roma la notte di «To-ra, Tora»; Buscetta che portava Totò Greco a Catania a perorare la causa del colpo di Stato presso Lucianeddu Liggio, capo carismatico dei corleonesi. Buscetta aveva rivelato le stesse cose, intanto, a Falcone, una specie di prova del nove giudiziaria.
Ora Buscetta, e Falcone, e Liggio non ci sono più. Non c'è più Mauro De Mauro, che era l'unico ad avere in quel settembre 1970 tutte le carte per fare quello scoop «in diretta» e sventare le trame dei suoi ex-camerati: secondo me l'hanno ucciso per questo. Non c'è più Junia, che aveva male al cuore. Non c'è più neanche D., che le telefonò quella sera da Pesaro per confortarla. Di tutto questo non sapevamo il perché. L'avrei capito, io cronista, proprio dalla voce di Liggio, che si vantò di aver respinto le profferte golpiste sedici anni dopo nell'aula del maxiprocesso a Palermo: «Salvai il culetto della democrazia». I giornali titolarono che Liggio vaneggiava su un golpe da operetta. E «misero» malissimo la notizia, perché proprio quella sera Gheddafi sparò un missilotto contro Lampedusa. Ma i giornalisti «fanno un mestiere del c.., che non farei mai», dissi quella sera di settembre a D., che mi sospirò (con la sua voce più seria, come quella di una professoressa, che non fece in tempo a diventare): «Adesso ci tocca di tornare a Palermo».

“l'Unità”, 5 Agosto 2004

Nessun commento:

statistiche