17.4.18

Liberté sécurité hostilité. Il filosofo Michaël Foessel sulla Francia, l'Europa e gli ideali perduti (Gigi Riva)


Dunque, professor Michaël Foessel, lei non è più europeista?
«Come potrei non esserlo? Non sono per “quel” tipo di Europa, ma ho lavorato su Kant e il cosmopolitismo e mi affascina sempre l’idea politica non legata all’etnia o alla nazione ma transnazionale. Voglio essere cittadino europeo con identità plurale, mi piace pensare a una forma di democrazia che vada oltre gli Stati-nazione».

Anche perché, per biografia, lei, oltre che francese, si sente anche un po’ tedesco.
«Esatto, passo diversi mesi in Germania. Ho 43 anni, appartengo a quella generazione cresciuta con frontiere che non sono muri e mi ci sono abituato, mi trovo bene. Mi spiacerebbe rinunciarvi».

Michaël Foessel è considerato tra i filosfoi più brillanti della sua generazione. Ma non fa della sua materia una disciplina astratta. Scrive abitualmente su temi d’attualità per “Libération”. Per le sue opinioni viene collocato a sinistra, un “démocrate radicale” (autodefinizione). Nel 2013 ha ereditato da Alain Finkielkraut la cattedra di filosofia all’ “École polytecnique”. Collabora con la rivista “Esprit”. Dirige la collana “L’ordre philosophique” per l’editore Seuil. Lunedì 16 aprile alle 18,30 sarà a Roma, all’ambasciata di Francia, per l’esordio dei “Dialoghi del Farnese” con il collega italiano Maurizio Ferraris. In questa intervista con “L’Espresso” affronta i temi cruciali del nostro tempo: populismo, democrazia, migrazioni. E libertà, naturalmente. Tema che nella sua terra si lega strettamente alle leggi varate dopo i terribili attentati dello Stato islamico. Partiamo proprio da qui. 

Lei, professor Foessel, si professa inquieto per la “banalità securitaria” che è una cifra della contemporaneità. E ha individuato un “legame strutturale tra il neoliberismo e lo Stato securitario”. Ce lo spiega?
«Da quando le persone sono esposte a rischi sociali sono spinte a chiedere soprattutto sicurezza in un mondo diventato incerto. È una tendenza in atto da almeno tre decenni nelle democrazie occidentali. Prevale la convinzione che la funzione principale, se non esclusiva, delle istituzioni sia dare sicurezza. Sicurezza alimentare, sicurezza chimica, sicurezza della salute. Qualunque cosa si traduce in sicurezza».

Dunque è una postura che ha origine ben prima degli attacchi islamisti.
«Sì. Certo il terrorismo ha rimesso al primo posto la sicurezza contro questa violenza cieca. E la società civile si affida allo Stato per essere protetta».

Lei fa una differenza tra “sûreté” e “sécurité”, termini che in italiano suonano simili.
«Nella tradizione dei Lumi, nei liberali come Montesquieu, la “sûreté” è la sicurezza per i cittadini di essere al riparo delle intrusioni dello Stato nella vita privata. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo si sostiene lo stesso concetto. Oggi la “sûreté” ci è negata a causa della sorveglianza ossessiva cui siamo sottoposti, al controllo delle telecomunicazioni eccetera. La “sécurité” riguarda invece il rapporto dei cittadini tra di loro. Con le leggi antiterrorismo varate in Francia o negli Stati Uniti si è sacrificata la “sûreté” alla “sécurité”, si è ampliato il potere dell’amministrazione e dello Stato».

Da questa sua analisi è lampante la conclusione: siamo meno liberi.
«Molto meno. In Francia le leggi varate sulla sicurezza pubblica, la riforma del codice penale e altre, sono andate tutte nella stessa direzione».

Secondo lei, le leggi speciali sono la sola risposta possibile al terrorismo?
«Non sono un politico. Ce la presentano come unica soluzione. Però non ha funzionato, non ha garantito il termine degli attentati. Quelle leggi finiscono per avere un impatto su tutti i cittadini anche se non sono terroristi. E colpiscono diverse categorie di persone, i militanti ecologisti, i militanti radicali».

Tuttavia è la stragrande maggioranza dei cittadini a esigere più sicurezza.
«È vero e contemporaneamente è falso. Esiste la domanda, ma non è quella prioritaria. Vengono prima altri bisogni, il lavoro, la salute. La sicurezza è l’ideale che resta quando sono caduti gli altri».

In aeroporto, tanto per fare un esempio, siamo più sollevati se vediamo controlli accurati.
«Perché è una domanda legata al rischio che esiste. Ma bisogna chiedersi come mai l’opinione pubblica accetta e reclama misure che mettono in discussione i diritti fondamentali, come quello di asilo. La mia ipotesi è che siamo nella società del rischio e non potendo chiedere altre protezioni (come contro la disoccupazione) ci spostiamo verso la domanda securitaria e ci rallegriamo per i militari nelle strade».

In definitiva lei vede in crisi i valori sui quali è nata l’Europa.
«Dopo la Seconda guerra mondiale l’Europa si è fondata su due valori fondamentali come la pace e il consolidamento dei diritti umani. Il secondo aspetto, ma anche il primo in verità, è a rischio. La stessa evoluzione recente delle democrazie non procede nel senso favorevole all’Europa. I movimenti populisti e autoritari hanno successo perché sfruttano le promesse non mantenute dell’Europa».

E mettono in pericolo l’esistenza stessa della democrazia.
«Se la democrazia si riduce ad elezioni più o meno trasparenti no. Se intendiamo invece la democrazia come un modo di produrre libertà politica e promozione dell’uguaglianza delle condizioni, come diceva Tocqueville, allora sì siamo in pericolo. La deriva antidemocratica è evidente ed è già largamente presente in Polonia, nell’Ungheria di Orbán che ha vinto le elezioni domenica scorsa».

Abbiamo un problema con la democrazia. E anche con gli Stati nazionali. Avrebbero dovuto cedere quote di sovranità all’Europa e invece il nazionalismo, soprattutto a Est, pare più forte di prima. «Evidente che sia così. Le divisioni ormai non si producono più sul paradigma destra-sinistra. La linea di frattura è tra la “mondializzazione felice” e la ripresa di nozioni nazionaliste-stataliste. Si torna allo Stato come sistema di protezione dell’individuo senza che questo significhi un beneficio per la democrazia. Manca una terza chance, ora: quella di restare fedeli all’ideale federale europeo senza abbandonarlo solamente a una concezione tecnocratico-finanziaria».

E torniamo alla sua critica sulla gestione della Grecia.
«Che non riguarda, attenzione, solo Bruxelles. Ma anche l’atteggiamento di alcuni governi del Continente».

Il banco di prova per capire se l’Europa avrà un futuro o meno, sostengono in molti, è come risolverà la crisi dei migranti.
«L’Europa non ha mantenuto sul tema le promesse di cittadinanza del mondo perché il diritto d’asilo viene negato e l’egoismo nazionale ha vinto. Per riconciliarsi con l’intuizione europea bisognerebbe, ad esempio, che Bruxelles fosse più dura con Orbán».

Nemmeno la Francia sta dando grande prova di sé. L’incursione a Bardonecchia dei suoi doganieri per controllare alcuni profughi ha choccato chi, come noi italiani, è abituato a considerarvi all’avanguardia, la patria dei diritti dell’uomo.
«La realtà è che eravamo all’avanguardia dell’estrema destra. Voi avete scoperto da relativamente pochi anni la Lega Nord. Noi il Front National lo conosciamo da 40 anni, ha radicalizzato la politica francese, e sui temi come l’immigrazione abbiamo concesso molto all’opinione pubblica più vociante. La Francia non ha fatto su se stessa il lavoro storico compiuto dalla Germania. Continuiamo a prendere misure discutibili sulle libertà e ci presentiamo come il Paese dei diritti dell’uomo. Conserviamo la memoria dei momenti felici e ci dimentichiamo del resto».

Si riferisce a Vichy?
«A Vichy, alla colonizzazione. In Francia c’è una sorta di deificazione della République, però continuiamo a far regredire lo Stato di diritto».

Ma l’episodio di Bardonecchia l’ha colpita o no?
«La Francia ha agito in modo stravagante. Non ha rispettato le frontiere per proteggere meglio le proprie. Mah. È un modo di volere la fine dello spirito europeo che reclamerebbe solidarietà. Quando un Paese come l’Italia è in difficoltà, subisce un attacco dal populismo tale da mettere più o meno in pericolo la democrazia, si fa un colpo di mano. Invece non bisognava abbandonare l’opinione pubblica italiana ai suoi demoni. È chiaro, per riprendere il concetto, che sui migranti l’Europa si gioca quel po’ che le resta come credito. Ma le sue istituzioni, in tutto ciò che riguarda l’economia, sono neutre. Neutre sulla Catalogna, neutre sull’immigrazione. Quando si tratta di politica, tutto passa sotto i suoi radar. L’ideale europeo resiste non a livello di istituzione ma di società civile. In Francia la gente manifesta la sua solidarietà sulle Alpi, alla frontiera italiana, molti cittadini ancora si dicono europei».

Il fantasma che si aggira oggi per il Continente è quello del ritorno degli anni ’30. Anche lei se ne è occupato.
«Un approccio storico ci dovrebbe far concludere che le differenze sono molte. Il consenso verso la democrazia è più forte oggi di allora. Eppure già 20 anni fa il filosofo Gérard Granel avvertiva che “gli anni ’30 sono davanti a noi”. Intendeva dire che, se le cause che hanno prodotto fascismo e nazismo sono passate, le condizioni che le hanno rese possibili sono sempre attuali. Dunque bisogna essere attenti e valutare le similitudini. Quello che si dice sull’Islam oggi comincia pericolosamente ad assomigliare a quanto si diceva di altri popoli negli anni ’30. Non voglio dire che siamo alla vigilia di un nuovo fascismo ma nemmeno che è un fenomeno accidentale, terminato. Il mondo moderno è quello della democrazia, ma anche quello dei totalitarismi».

La paura della diversità alimenta una guerra tra gli ultimi (gli immigrati) e i penultimi (gli europei impoveriti).
«In periodo di crisi è più facile prendersela con qualcuno che riflettere sulle cause. Certo l’immigrazione massiccia non ha aiutato. E manca la visione portata dalla sinistra negli anni ’30, prima di essere battuta, e che unificava le classi sociali popolari. Oggi sovente sono i movimenti populisti di destra a essere presenti nelle classi popolari. E, scusi, ma i 5 stelle sono di destra o di sinistra?».

Non lo abbiamo capito nemmeno noi in Italia.
«Allora mi consolo. So che hanno una piattaforma che si chiama Rousseau… Comunque populisti e contro le élite, mi pare chiaro».

L’impoverimento di molte classi sociali e persino del ceto medio è l’altro effetto, oltre a quello della richiesta di sicurezza, del neoliberismo?
«Sì. A partire da Reagan e dalla Thatcher lo Stato è diventato un agente del mercato e applica le stesse regole del mercato alla sua funzione pubblica attraverso i manager. Così mette gli individui in perenne concorrenza tra di loro, in perenne lotta per la sopravvivenza. Così creando riflessi di sfiducia e calcolo verso gli altri. La caratteristica della società è il calcolo permanente. Quanto mi costa mettere in prigione qualcuno? E se lo lascio libero ciò che farà fuori mi costa di più? Ecco perché nella società del calcolo il disoccupato guarda il migrante come un concorrente e non come qualcuno con cui c’è qualcosa da condividere».

Ha vinto Hobbes.
«Ha vinto l’Hobbes dello stato di natura, dell’uomo lupo per l’uomo. Ma Hobbes pensava che bisogna rimediare alla conflittualità, il potere deve intervenire sul mercato per limitarlo. Mentre oggi si considera che lo stato di natura è il mercato stesso».

In questo “mercato” la Catalogna come molte altre regioni ricche vogliono la secessione dai governi centrali per non mantenere le aree più povere.
«Succede perché è in crisi il paradigma della redistribuzione, il desiderio di uguaglianza. I catalani non vogliono aiutare l’Estremadura, i lombardi quei mafiosi dei siciliani... Eppure io non credo che gli individui siano così egoisti e ritorti su se stessi».

La sinistra è morta in questa assoluta assenza di solidarietà?
«È molto malata a livello istituzionale, come la democrazia, come anche la destra storica. Per certi versi è comprensibile dopo che è affondato il modello comunista e se la passa male pure quello socialdemocratico. Però la sinistra continua a esistere nella società, in modi di vivere solidali. E alcuni suoi temi sono ripresi da movimenti come i 5 stelle».

Infine. Lei ha scritto che il gesto di Arnaud Beltrame, il gendarme che a Trebes, nel sud della Francia, si è sostituito a un ostaggio durante l’attacco jihadista a un supermercato e che poi ha trovato la morte non può essere un modello. Sembra riecheggiare il Brecht di “sventurato il Paese che ha bisogno di eroi”.
«È stato sicuramente un atto di eroismo, un gesto personale di libertà assoluta. Ma proprio perché un gesto individuale, non può essere proposto come modello politico».

L'Espresso, 15 aprile 2018

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