18.4.18

La storia orale nel mondo digitale: intervista a Alessandro Portelli (Daniele Bova)

Alessandro Portelli

L’importanza della memoria. Viviamo un periodo di cambiamenti epocali e le nostre categorie interpretative sembrano fare acqua. La ricerca di una chiave di lettura che sveli le strutture profonde e apparentemente sconosciute del presente chiama in causa la storia, da sempre grimaldello per scardinare i meccanismi più opachi della realtà: “Anche se l’atteggiamento di trattare la storia come qualcosa di secondario, ornamentale, è ancora molto diffuso. Perché la storia parla del passato e quindi non ci riguarda nel presente: e oggi c’è una forte spinta all’utilitarismo, all’uso immediato delle cose. In tutti i campi”.
A parlare è Alessandro Portelli, uno dei massimi teorici della storia orale. Lo incontriamo in una soleggiata mattina di fine luglio, nel terrazzo che dà sul suo giardino, col frinire di cicale quasi a sovrastare le nostre parole.

Genova 2001
Per provare a capire cosa farcene oggi del “peso della storia”, e soprattutto di quale modo di fare storia potremmo aver bisogno nell’immediato futuro, partiamo dai fatti di Genova del 2001, di cui pochi giorni fa è ricorso il quindicesimo anniversario. Alessandro Portelli ha scritto un saggio nel 2007, Generations at Genova (contenuto nella raccolta Storie Orali) che, attraverso una serie di testimonianze dirette di chi ha vissuto quell’esperienza, ricostruisce le vicende di quei tumultuosi giorni. “Genova è il primo grande evento di massa dell’epoca dei cellulari – ci dice Portelli -, il primo evento di massa delle tecnologie digitali. Al tempo, è stato l’evento più accuratamente documentato dalla storia dell’umanità: c’erano tante telecamere e macchine fotografiche quanto persone. A me per esempio ha colpito il film di Francesca Comencini, Carlo Giuliani Ragazzo, in cui sostanzialmente riusciamo a seguire Carlo Giuliani dal momento in cui esce di casa fino a Piazza Alimonda.
Questa modalità di fare storia è molto “presentista”: ha una funzione importante dal punto di vista giudiziario, di ricostruzione dettagliata degli eventi. Quello che invece fa la storia orale è un’operazione più centrata sulla “messa in prospettiva”. Il progetto al quale abbiamo dato vita (che poi è il seguito di un mio vecchio progetto sulla Pantera) consisteva nel focalizzarsi sul vissuto di alcuni studenti alla prima esperienza con le manifestazioni. Fecero interviste alla gente che era lì: l’idea era quella di vedere che tipo di impatto profondo avessero questi eventi; non si trattava di ricostruire, per esempio, se Carlo Giuliani avesse o meno un estintore, ma di indagare quali trasformazioni questa esperienza comportava nel vissuto personale, profondo, della gente che vi prese parte. Per molti è stata la scoperta della violenza dello Stato. Mi è rimasta impressa la testimonianza di questa ragazza che mi disse: ‘Io avevo i girasoli in testa, tu perché mi manganelli che io ho i girasoli in testa? Non lo capisci che sono innocua?”.
Partendo da questo approccio di testimonianze dirette è stato possibile illuminare una nuova prospettiva degli eventi: una narrazione che per emergere ha avuto bisogno di tempo. “Abbiamo scoperto le ripercussioni che quei fatti hanno avuto sulle persone a distanza di anni – continua Alessandro Portelli – in molti hanno generato una precisa e radicata memoria, il cui contenuto è quello di ‘non poter contare su nessuno’. Dal momento in cui la politica e il sindacato se ne sono tirati fuori, gran parte dei racconti che ho ascoltato su Genova si riferiscono a persone che dicono ‘siamo disarmati, abbandonati’. Per alcuni questo ha contribuito a mettere fine alla loro esperienza politica, per altri è stato un incentivo a continuare. La stessa polarizzazione l’avevo verificata su un altro studio che avevo condotto anni prima su Valle Giulia: la scoperta delle cariche della polizia ingenerò in coloro che vissero quella situazione una sorta di spaesamento, esemplificato nella domanda, ‘ma come, non sono nemmeno operaio e tu mi carichi?’

La storia orale nel mondo digitale
La storia orale in epoca digitale, quindi. Un approccio che privilegia l’incontro diretto, il dialogo, la componente diacronica, il racconto in prima persona, in un contesto in cui i rapporti sono spesso mediati, che si sviluppa nell’orizzonte temporale del qui e ora, che tende a fagocitare passato e futuro in una costante bulimia di presente. Chiediamo ad Alessandro Portelli se oltre a integrare con una pluralità di punti di vista “soggettivi” la narrazione storica dominante, l’approccio al racconto orale possa rivendicare affidabilità scientifica.
“Dipende da che significato vuoi dare al termine scientifico – ci dice – se vogliamo applicare alle scienze umane i principi delle scienze naturali incontreremmo senz’altro dei problemi. Con la storia orale bisogna fare i conti col fatto che gli eventi avvengono a un altro livello, a un livello immateriale, di credenze, convinzioni, emozioni che determinano il senso di quello che è successo. Più che l’evento esteriore, andiamo a scandagliare cosa questo comporti a lungo andare nella vita degli ‘attori’ della storia, e soprattutto in che modo queste persone riescano a costruire un discorso intorno a quei fatti, a mettere in parole le loro esperienze. Una cosa molto interessante di questo approccio è, per esempio, accorgersi di quando i discorsi sono sbagliati, perché allora entra in gioco l’immaginario, il desiderio, la costruzione di senso: e bisogna giocare sullo scarto, sul dislivello che si viene a creare tra come è andatala realmente la situazione e come questa viene raccontata. Quindi si mette in moto un meccanismo che ti permette di costruire delle ipotesi plausibili (non delle certezze) su cosa gli eventi significhino per le persone che vi hanno partecipato. Sul perché vengono raccontati: in fondo, se uno le cose se le ricorda è perché per lui hanno un significato particolare. Se le cose te le scordi vuol dire che o sono insignificanti oppure che significano troppo…”
Oltre a far leva sulla capacità di lettura della psicanalisi, su modalità che rimandano a un modus operandi antropologico, sulla continua attenzione “metalinguistica” rispetto al significato di ciò che viene raccontato, la storia orale pare basarsi su un modello più democratico rispetto a quello della storia “classica”. Portelli sembra in parte concordare su questo aspetto: “In merito alla questione dell’interdisciplinarità, c’è da dire che per fortuna abbiamo 130 anni di psicanalisi alle spalle: senza pensare che intervistare qualcuno voglia dire psicanalizzarlo, sappiamo benissimo che i sogni sono carichi di senso, così come le fantasie e i lapsus, e quindi anche se un sogno non è affidabile come fonte storica “oggettiva” è fondamentale lo stesso. Per quel che riguarda la maggiore democraticità, sono abbastanza d’accordo. Perché dai ascolto a una quantità di persone che di norma non vengono ascoltate; non è che gli dai propriamente voce: le persone la voce ce l’hanno. Semplicemente le rendi udibili: perché di solito nessuno le sta a sentire. Poi immetti questa esperienza all’interno di una narrazione storica complessiva”.

Terrorismo islamico
Una grande questione dei nostri tempi è quella di trovare una chiave interpretativa che chiarisca il fenomeno dei cosiddetti attentati islamici. In particolare determinare il senso specifico della matrice islamica di questi attacchi: in che modo i terroristi sono affiliati all’IS? In che senso possiamo pensare che siano delle schegge impazzite? Come possiamo integrare alle nostre interpretazioni la lettura che li dipinge come frutto di una deriva psicotica, strettamente legata al mondo occidentale? “È difficile. Avresti bisogno di ascoltare loro – riflette Alessandro Portelli – e in questo contesto i soggetti da intervistare o sono morti, o sono sotto le lenti del sistema giudiziario. Inoltre per il lavoro storico c’è bisogno di prospettiva, di vedere come quello che accade si condensa nel tempo. Disporre delle testimonianze a caldo, anche di chi è stato vittima di attentati, può essere utile per confrontare quel che la gente racconta un anno dopo o sei mesi dopo. Detto ciò, a me ha colpito molto la storia di questa donna che a Monaco sosteneva che l’attentatore gridasse ‘Allah Akbar’. Se l’è inventato, perché è quello che uno si aspetta in una situazione del genere: un atto terroristico collegato alla presenza di un musulmano. È un errore profondamente rivelatore, che illumina non un fatto realmente accaduto, ma le dinamiche del profondo: esiste cioè un senso comune per cui se c’è un atto di violenza viene automatico iscriverlo all’ideologia islamica. Ora, in quel caso non era così, in altri casi sì; ma viene da chiedersi: perché nessuno chiama terrorista il killer che ha ucciso 19 persone in Giappone? Semplicemente perché non è islamico. Questo dipende da una costruzione che ci siamo fatti per cui ci dimentichiamo che la maggior parte delle vittime di violenza armata negli Stati Uniti, per esempio, sono cadute in stragi commesse da cittadini bianchi e cristiani: infatti nemmeno quelli li chiamiamo terroristi. Mi sembra che in questo preciso momento storico l’opinione pubblica sia imprigionata in un doppio vincolo: da una parte le sirene di un soggetto molto informe, chiamiamolo pure ISIS, che si ricollega all’estremismo islamico e che continua a rivendicare attentati; dall’altra un discorso mediatico che semplifica tutto, perché semplificare è molto più facile”.

Presidenziali Usa

Sul “fronte occidentale” le acque non sono sicuramente più calme. Gli Stati Uniti ribollono come una pentola a pressione, presi in un’escalation di violenza interna, tra polizia dal grilletto facile e rappresaglie degli afroamericani. Inoltre la contesa presidenziale proietta l’ombra minacciosa di Donald Trump, e la nomination di Hilary Clinton non riesce assolutamente a fugare presagi poco rassicuranti. Alessandro Portelli si è sempre occupato di America e alla fine della nostra intervista gli chiediamo, parafrasando il titolo di un famoso film di Robert Altman, come vede l’America Oggi: “È un paese armato e ossequioso di una ideologia delle armi. Questo comporta che il poliziotto che si trova di fronte a qualcuno si aspetta che questo qualcuno sia armato, anche quando non lo è. Tanto è vero che le uccisioni di afroamericani ad opera della polizia sono spesso ai danni di gente disarmata: la convinzione che tu abbia un’arma incide, fa sì che aumenti la paura. Le forze dell’ordine poi hanno armi da guerra, addirittura carri armati, e non hanno un addestramento adeguato: c’è incapacità a gestire le crisi. A tutto ciò bisogna aggiungere i preconcetti secolari sugli afroamericani. Da poco c’è stato l’episodio di un individuo fermato per alta velocità: sbattuto per terra, preso a calci, gli è andata bene che non lo hanno ammazzato. Il caso di Baton Rouge ha a che fare con una persona fermata per una luce di posizione non funzionante. C’è questa terribile frase ironica negli States, ‘Driving while black’, come dire ‘Driving while drunk’, cioè invece che ‘portare la macchina in stato di ebrezza’, ‘portare la macchina in stato di afroamericanità’: condizione riconosciuta, sarcasticamente, come pericolosa…
Sul piano dell’impatto elettorale, Donald Trump gioca su queste drammatiche vicende. Ma riguardo a tale aspetto vedo debole anche la Clinton, così come lo era Bernie Sanders, formatosi in un contesto degli States in cui la presenza degli afroamericani è trascurabile. Devo dire che trovo paradossale anche il grande sostegno afroamericano alla Clinton, quando è stato suo marito a creare le norme di polizia per cui attualmente negli USA ci sono 3 milioni di afroamericani in carcere”.
Il sole di mezzogiorno non è un deterrente per le cicale, il cui canto si impasta ora con gli urletti divertiti di bambini. “E l’eredita dell’amministrazione Obama?”, buttiamo lì poco prima di alzarci dal tavolo dell’intervista: “Non c’è nessuna eredità, perché Clinton rappresenta il contrario di Obama, e Trump non ne parliamo nemmeno”. Alessandro Portelli fa una pausa, guarda oltre il parapetto del terrazzo e aggiunge con un mezzo sorriso: “Diciamo così: non la vedo proprio rosea”.

“l'Unità”, 30 luglio 2016

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