19.4.18

Il fabbro Bakunin (Pino Cacucci)


Da qualche tempo abbiamo notato un risveglio di interesse per i testi dell'anarchismo da parte dell'editoria più varia, e senza scervellarci troppo sui motivi (effetto traino del vortice librario su Che Guevara e, di conseguenza, ricerca di altri «eroi» puri e irriducibili? Schifo generalizzato per il politicantame istituzionale? Bisogno di fornire basi teoriche al proprio istinto antiautoritario? eccetera eccetera...) credo sia comunque un fenomeno salutare la divulgazione al di là dei ristretti circuiti militanti. La Feltrinelli, dopo ventiquattro anni, riporta in libreria Stato e Anarchia di Michail Aleksandrovic Bakunin, (Feltrinelli, pp. 255 L. 13.000) nella stessa traduzione dal russo che ne fecero i compagni Nicole Vincileoni e Giovanni Corradini. Un motivo di particolare interesse è l'introduzione di Maurizio Maggiani, scrittore quarantacinquenne che nel suo più recente romanzo Il coraggio del pettirosso ha raccontato la saga di personaggi libertari che, come i pettirossi, «arrancano di sghimbescio ma alla fine hanno ragione del re degli uccelli, il signor falchetto con tutte le sue gazze».
In buona parte delle suggestive cinque pagine introduttive, Maggiani ricorda un «Bakunin» del suo paese (Castelnuovo Magra), soprannome del fabbro Egidio, figura di vecchio anarchico che «aveva combattuto contro tutti i tiranni dall'Ottocento in poi e aveva conosciuto tutte le galere, in Italia e all'estero». Egidio vulgo Bakunin è un arguto espediente letterario per descrivere, attraverso ricordi divertiti ma anche velati di rimpianto, la diversità degli anarchici rispetto a quanti «fanno politica» senza però vivere coerentemente secondo gli ideali propugnati; il fabbro Egidio morì ultranovantenne, e ai suoi funerali andarono tutti trasformandoli in una grande festa (con tanto di banda di ottoni da Carrara), perché da vivo aveva saputo guadagnarsi il loro rispetto; ricreando l'aura mitica del «profeta e maestro di libertà» Michail Bakunin, lo scrittore riscatta la memoria di quell'Egidio «ometto così piccolino» simbolo di tanti libertari che hanno lasciato una traccia indelebile in chi li ha conosciuti, pur conducendo un'esistenza dimessa, schiva, quasi silenziosa (persino dalla sua officina di fabbro, non provenivano clangori ma «suoni tintinnanti e argentini», perché Egidio lavorava di fino anche con il martello in pugno...).
Gosudarstvennost'i Anarchija fu scritto nel 1873, stampato in russo a Zurigo da un gruppo di esuli (alcuni rocambolescamente evasi dalle prigioni zariste) e pubblicato senza il nome dell'autore, riuscendo a diffondersi clandestinamente in Russia soprattutto tra gli studenti. Influenzò profondamente la gioventù rivoluzionaria di fine secolo, nonostante l'avversione di Marx, che aveva letto puntigliosamente il testo annotando nell'ultima pagina un semplice quanto saccente «No, mio caro». E la prefazione di Maggiani si conclude proprio con «Come no, mio caro, come no». Recentemente, il vicecomandante Marcos, ricordando i primi anni sulle montagne del Chiapas, ha detto: «Leggevo testi sul materialismo storico, e intanto perdevo il contatto con il lato magico della vita». Gli indios zapatisti, tradizionalmente e istintivamente libertari, gli avrebbero insegnato la «magia» che è parte dell'esistenza, quella che nella nostra lingua fa anche rima con utopia. E utopia non significa «irrealizzabile», bensì qualcosa «che non si è ancora realizzato».
L'estinzione dello stato risulta dunque un'utopia, ma per noi, qui, cioè in questa Europa di fine millennio. Altrove, come per esempio in una vasta zona del sud est messicano, lo Stato costituisce una minaccia esterna da tenere a bada, da respingere con la mobilitazione in armi e con la sensibilizzazione diffusa non solo al di là del territorio liberato, ma anche a livello internazionale. Laggiù, non hanno avuto bisogno dei supporti teorici di Marx, e neppure di quelli di Bakunin. Però, guarda caso, in un recente comunicato dell'Ezln, in cui si salutavano i partecipanti all'incontro per l'umanità e contro il neoliberismo, venivano citati Ricardo e Enrique Flores Magón, che nella Rivoluzione messicana seminarono l'ideale dell'anarchismo auspicando l'estinzione dello stato. Nell'opera di Bakunin, si legge tra l'altro: «Dicono (i marxisti) che questo giogo dello stato, questa dittatura, è una misura transitoria necessaria per poter raggiungere l'emancipazione integrale del popolo (...). E così, per emancipare le masse popolari, si dovrà prima di tutto soggiogarle». A rischiarare questo fine millennio neoliberista - dove lo stato si affievolisce solo per lasciare campo libero a banchieri, speculatori di borsa e multinazionali neoschiaviste, per poi mettere a loro disposizione l'apparato repressivo ovunque ne abbiano bisogno - ci sono quegli uomini e donne irriducibili, che continuano a considerare lo stato e le sue emanazioni come antitesi della libertà e della stessa sopravvivenza. L'anarchia saranno ancora lontani dal realizzarla, ma nessuno può più propinargli la favola nefasta di una «dittatura necessaria e transitoria» per raggiungere lo scopo.

A-rivista anarchica anno 26 nr. 228giugno 1996

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