4.4.18

Ignoto a se stesso. Le lettere di Poe: la tristezza “inesplicabile” di un figlio d’attori (Franco Pezzini)


Trent’anni fa, 1987, Bompiani editava il catalogo di una mostra tenuta a Torino su progetto di Leonardo Sciascia, che univa fotografia e letteratura attraverso il tema del ritratto fotografico. E in copertina Ignoto a me stesso. Ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges poneva proprio una delle più celebri icone di Poe, il dagherrotipo un po’ danneggiato di Marcus Root (1848/49, dunque dell’ultimissimo scorcio di vita del soggetto) oggi conservato all’Eastman Houses’s International Museum of Photography, Rochester, New York. Poe vi compare con la mano sinistra infilata nel panciotto, nella posa un po’ rigida di tante foto del tempo; ma ad attrarre è ovviamente il volto. “La forma (…) era ovale, un ovale i cui contorni sembravano, di un tratto, scivolare verso il mento dalla linea molto classica, ma soprattutto, quando sorrideva, davvero molto avvenente”, ricorda con simpatia un contemporaneo, il medico e scrittore Thomas Holley Chivers (“at the same time one of the best and one of the worst poets in America”, a maliziosa detta di Poe), però qui il volto è serio, quasi duro. “A proposito di teste – la mia è stata esaminata da diversi frenologi – i quali hanno tutti parlato di me in un modo stravagante che mi vergogno di riportare”, scrive sornione Poe stesso in una lettera all’amico scrittore Frederick W. Thomas (27 ottobre 1841).
In realtà nella foto cogliamo soltanto una fronte alta e capelli ribelli: e a colpire è piuttosto qualcos’altro. Se infatti l’ovale del viso sembra sfuggire, quasi l’obiettivo non riuscisse a fermarlo, la messa a fuoco è sugli occhi che attraggono magneticamente. Occhi che fissano il fotografo nel suo gabinetto di metà Ottocento ma, dietro di lui, fissano noi a distanza di un secolo e mezzo: come a scrutarci dentro – pensiamo ai rovelli psichici di cui i racconti di Poe offrono descrizione e rivelazione, fino ai limiti ultimi dell’imbarazzante – o a pretendere di rispecchiarci, in uno di quei giochi di doppi e di provocazioni identitarie che tanto lo ossessionano. Se poi a questo punto ci prendessimo la briga di andare a esaminare altri ritratti (la raccolta definitiva è quella curata da Michael J. Deas, The Portraits and Daguerreotypes of Edgar Allan Poe, University of Virginia 1989, oggi a disposizione anche sul prezioso sito della Edgar Allan Poe Society of Baltimore) ci accorgeremmo di come sia una costante che quel viso cambi e sfugga, mentre a restar fermi, lucidi e febbrili sono sempre gli occhi.
La foto della mostra progettata da Sciascia recava anche una citazione dai Marginalia di Poe: “Se qualche ambizioso avesse una fantasia da rivoluzionare, con uno sforzo, il mondo universale del pensiero umano, dell’opinione umana e del sentimento umano, l’occasione è sua, la strada verso la gloria immortale giace dritta, aperta, sgombra davanti a lui. Tutto quello che ha da fare è di scrivere e di pubblicare un piccolissimo libro. Il titolo dovrebbe esser semplice, alcune parole semplici: ‘Il mio cuore messo a nudo’. Ma questo piccolissimo libro dev’essere fedele al titolo”. Come a dire che veramente a nudo il cuore non lo mettiamo mai, o – se si preferisce – che il nostro volto è sempre sfuggente, cangiante come in questi ritratti, mascherato: qualcosa che per Poe figlio di attori e in qualche modo attore lui stesso, tutta la vita, rappresenta una spudorata evidenza.

Monumentale raccolta
Tale preambolo non sembra inutile di fronte alla monumentale raccolta delle Lettere di Poe, ottimamente curata da Barbara Lanati per i tipi il Saggiatore (pp. 757, € 48, Milano 2017). Il corpus dell’epistolario corre per 332 testi di varia lunghezza, dal 1824 (il nostro, quindicenne, sottoscrive una richiesta dei Giovani Volontari di Richmond al governatore della Virginia per poter trattenere in custodia le armi loro affidate durante il trionfale passaggio dell’anziano La Fayette negli States) al 1849, con tre lettere composte una ventina di giorni prima della tragica e misteriosa morte. Un volume di grande importanza per migliorare la conoscenza in Italia di un autore evergreen ma in genere assoggettato all’ipoteca dei luoghi comuni, restituendogli così in certo modo carne e sangue; per la possibilità di gettare uno sguardo, almeno idealmente, tra scrivania e cassetti del suo laboratorio, e per così dire sul making of di opere celeberrime; per la stessa opportunità di cogliere da quest’ottica viva lo spaccato di un intero mondo americano della prima metà dell’Ottocento in cui il nostro nasce, si forma (a parte una breve parentesi in Gran Bretagna) e si afferma via via, e di cui la curatrice offre a margine notazioni essenziali. Un volume insomma prezioso per capire Poe. Anche se poi davanti a queste pagine – e ciò ne rappresenta in fondo un ulteriore motivo di fascino – il recensore è tenuto a ricalibrare tutte le affermazioni appena espresse.
Anzitutto perché di questo mondo americano noi cogliamo uno spaccato molto settoriale. Vano cercare nelle lettere riflessioni sulla questione abolizionista o sulle guerre coeve contro i nativi americani, sulla politica o le scelte amministrative, sui profili dei presidenti o le vicende elettorali: gli interessi di Poe sono altri, e l’amministrazione (alle cui posizioni si allinea senza problemi) sembra toccarlo soltanto per un possibile impiego pubblico che risolverebbe cronici problemi di sussistenza. Qui troviamo invece un grande affresco sull’editoria di un’epoca e il ruolo vivacissimo delle riviste, per quanto destinate spesso a vita breve, o talora ad abortire nonostante frenetici preparativi, come il “Penn Magazine” – poi “The Stylus” – vagheggiato da Poe; sulla politica culturale, le questioni del copyright e la nascita faticosa di una letteratura americana in cui Edgar cerca sgomitando di trovare un ruolo, con idee molto precise e ambizioni grandiose; sulla vitalità della poesia, coltivata da innumerevoli autori e su cui egli (che nasce poeta, prima che novellista, e anche nelle prose insuffla spesso fiati poetici) reca consigli, lodi o censure. Un mondo di cacciatori d’autografi e di lettere continue, ma anche di plichi postali in continuo transito per mandare in visione agli amici qualcosa che poi dovranno rinviare indietro (i postali dei film western della nostra infanzia mostrano qui un peso nuovo); un mondo di polemiche al calor bianco tra le colonne dei giornali e le lettere di risposta da pubblicare o meno, usate come pugnali per regolamenti di conti professionali o sentimentali. La Lettera rubata del celebre racconto riceve da questo contesto di plichi trasmessi, dispersi, magari persino rivenduti di nascosto, connotati persino più vividi e materiali. D’altra parte Poe parla con competenza di pagine, qualità di carta, caratteri, colonne, margini, rilegature, copertine, tecniche di stampa e ovviamente prezzi: e chiunque abbia svolto la professione del redattore, in particolare di riviste, trova in questo cronico sognatore un approccio di concretezza e un richiamo alla dignità di un lavoro che fa inorgoglire. Mentre i recensori che oggi si interrogano sul senso di un proprio ruolo incontrano in lui un patrono d’eccezione.

Il laboratorio d’autore
Ma ai distinguo sull’affresco storico si affiancano quelli sul suo laboratorio d’autore. In qualche lettera Poe effettivamente parla dei propri testi narrativi o poetici (il senso del cripticissimo Al Aaraaf, le soddisfazioni per Morella e Ligeia, i successi del Corvo…), per sottolineare quali ritenga migliori, puntualizzare aspetti tematici, promuovere pubblicazioni; ma sulla massa dell’epistolario si tratta in fondo di casi non frequenti. Poe del resto ha altri canali per la riflessione critica, sia come saggista che (appunto) come attivissimo recensore. L’epistolario insomma, per quanto utile a comprendere singoli aspetti dell’opera del Poe autore, tocca la materia dell’(auto)esegesi solo saltuariamente; mentre il nesso è in genere indiretto, di stagione in stagione, attraverso i giochi di emozioni, le spudoratezze, le depressioni e gli istrionismi sottostanti prosa e poesia, e che finiscono col rendere questo corpus epistolare una vera e propria opera letteraria a sé.
Il che traghetta d’altra parte alla questione successiva, che è però insieme la stessa da cui siamo partiti: i distinguo cioè su carne e sangue di un autore, sulla sua autenticità di pensieri ed emozioni come avvertibili in queste pagine. L’epistolario può definirsi, secondo la formula da lui ipotizzata, “Il mio cuore messo a nudo”? Certamente no, o almeno non nel modo più ovvio. Dalle lettere concilianti o sdegnate scritte da ragazzo al padre adottivo John Allan fino a quelle indirizzate – tra ambiguità ed enfasi – alle donne dell’estrema stagione da vedovo, ma in realtà per tutto il lungo corso dei suoi scambi, il volto che emerge come nelle foto è appunto quello sfuggente, cangiante di maschera in maschera tra disvelamenti e autofiction, drammi autentici e teatro, fantasie affabulatorie (che a volte assomigliano tanto a menzogne patenti) e verità sghembe, dolorose. Un’ambizione che trascolora nella ricerca d’amore, un continuo appellarsi ai più vari interlocutori proclamando l’unicità di quel loro legame ai fini di raccogliere denaro o aiuti, un macchinare tra il tortuoso e il candido sistemi di difesa dagli attacchi di un mondo che non gli perdona gli eccessi alcolici – peraltro spesso negati, con una spudoratezza che flirta con l’autoconvinzione – e a cui lui non le manda a dire: dove lo scarto ambiguo tra ciò che sappiamo dalla biografia e ciò che Poe lascia intendere all’interlocutore del momento obbliga a porci continue domande. Domande che forse, con la fantasia del “cuore messo a nudo”, pone in realtà già a se stesso.
Qualunque pretesa d’indagare i testi di Poe e i relativi fantasmi come proiezioni cliniche è destinata a fallire di fronte al sofisticato, beffardo e controllatissimo lavoro autorale che li giustifica; ma una cautela almeno simile pretende questo epistolario, dove certamente incontriamo l’uomo Poe in frustrazioni e impennate, sussieghi e sofferenze, ma sempre con lo scarto di tratti che sfuggono. Ci restano quegli occhi incredibili, che guardano al futuro. “La mia vita è capriccio – impulso – passione – brama di solitudine – disprezzo delle cose del presente e febbrile desiderio del futuro”, scrive a James R. Lowell, 2 luglio 1844. E a Nathaniel P. Willis, 30 dicembre 1846: “La verità è che ho moltissime cose da fare, e ho deciso di non morire finché non le avrò fatte tutte”. Poi ad Annie L. Richmond, post 5 maggio 1849, “La mia tristezza è inesplicabile e questo mi rende ancora più triste. Ho molti cupi presagi, nulla mi rallegra o mi conforta. La mia vita sembra sprecata – il futuro appare come un vuoto desolato. Ma continuerò a lottare ‘contro ogni speranza’”. Muore pochi mesi dopo, il 7 ottobre, ma in effetti continua con quegli occhi a scrutarci dentro.

L'Indice dei libri del mese, gennaio 2018

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