19.4.18

“Ho incontrato il partito a vent'anni”. Intervista a Giorgio Amendola (Eugenio Scalfari, marzo 1976)

Amendola negli anni 70 del Novecento

Giorgio Amendola sta al quinto piano nel palazzo del partito, in via delle Botteghe Oscure. Berlinguer e gli altri membri della segreteria stanno al secondo. Ma lui vive più distaccatamente. Ha 69 anni, non sono molti, parecchi però per chi ha avuto una vita come la sua. È membro della direzione e rappresenta il partito al parlamento europeo, una carica cui tiene molto perché molto crede nella vocazione europeistica del comunismo italiano. E’ presidente del Cespe, il centro studi economici del Pci.
Aveva tutti i numeri per esser lui il leader dopo il ritiro di Longo. Invece è un leader in pensione e lo sa. Anzi lo ostenta: «Ho scoperto nuovi modi di lavoro, nuovi piaceri. Leggo di più. E soprattutto scrivo. Scrivo libri. Adesso ne ho preparati due, che escono quasi insieme, l’Intervista sull’antifascismo e Una scelta di vita ».

Come mai, Amendola, una «retraite» così precoce? È il segno d’una sconfitta politica? La tua linea è stata battuta?
«No, niente di tutto questo. No, non si può parlare di “retraite”. Ho sempre molto lavoro da fare, ma si può lavorare in modi diversi. E non si può parlare di sconfitta personale perché nel Pci non c’è mai stata una linea che si potesse intitolare al nome d’una persona. È sempre stata la linea d’un gruppo, la linea “generale”, Anche ai tempi di Togliatti. Il fatto è che per dirigere un partito come il nostro ci vogliono uomini giovani e forti, e, naturalmente capaci. È un rinnovamento necessario. Così sono venuti avanti Berlinguer, Bufalini, Chiaromonte, Napolitano e gli altri. Oggi la direzione del partito è nelle mani di quarantenni e di cinquantenni senza che ci sia stata alcuna soluzione di continuità. Ed il compagno Enrico Berlinguer, come segretario generale, ha affermato tutta la sua autorità in campo nazionale ed in campo internazionale ».

Eravamo centomila
Però si parlò ad un certo momento d’una linea amendoliana, in contrapposto ad una linea ingraiana...
«Sì, se ne parlò. Niente di strano: avevamo delle idee, Ingrao ed io, che talvolta differivano sull’interpretazione dei fatti e delle prospettive. E non solo Ingrao ed io. Ma poi tutto convergeva nel dibattito e nelle decisioni collegiali. Personalmente ho sempre cercato d’impedire che attorno alla mia persona si polarizzasse una linea. Ma di vero non c’è mai stato niente: fantasie e illazioni di chi vedeva le cose dal di fuori e pensava d’applicare a noi gli schemi validi per altri partiti ».

Com’è oggi il partito? E com’era quando tu rincontrasti? È cambiato molto da allora?
«Ah certo, è cambiato. Ma non direi molto. Io l’ho incontrato, come dici tu, cinquant’anni fa. Al principio, nel ’21 e nel ’22, saranno stati centomila, per quei tempi erano una grande forza, ma erano anche una grande famiglia. Seguirono gli anni più duri, l’esilio, la prigione, la clandestinità, l’asprezza della lotta interna e internazionale. Ma vedi, c’è sta ta una grande continuità e al tempo stesso un grande rinnovamento. Il partito comunista italiano è cresciuto insieme al paese. Siamo, credo, la forza politica che ha maggior seguito tra i giovani, quella il cui gruppo dirigente è anagraficamente il più nuovo, ma siamo anche il partito nel quale due uomini come Longo e Terracini, cioè due “fondatori”, si battono ancora in prima linea. Credo che il maggior contributo che abbiamo dato al paese sia di aver creato un tipo di italiano nuovo. Nel paese di Guicciardini, dove tutto fa centro sul “particulare”, noi abbiamo contribuito a spostare l’impegno sul "collettivo”. La forza del partito comunista è tutta lì. I nostri compagni sono gente che rinuncia alle vacanze per preparare la festa dell’Unità, dove un professore o un medico servono a tavola o vendono i libri al banco degli Editori Riuniti. È una piccola rivoluzione culturale che facciamo ogni anno. Forse gli osservatori esterni non hanno capito pienamente il significato di queste occasioni, la buttano un po’ sulla kermesse propagandistica. Sì, c’è anche quella, è naturale, siamo un partito di massa. Ma sotto c’è un’operazione assai più seria, anche se fa storcere il naso agli intellettuali guicciardiniani che ancora abbondano in Italia ».

Tu dici: abbiamo spostato l'impegno dal particolare al collettivo. E sei convinto che questa sia un’operazione positiva e modernissima. Forse è stata positiva e modernissima. Ma da qualche tempo è abbastanza scavalcata. Ci sono altre esigenze che si stanno affermando. E non mi pare che i giovani siano così presi dal messaggio comunista come accadde per esempio a quelli che avevano vent’anni nel ’45.
« No, non sono d’accordo. Anzi, proprio da un paio d’anni in qua c’è un recupero fortissimo tra i giovani da parte nostra ».

Se c’è un recupero è segno che ave vate perso terreno. Hai letto l'articolo di Alberoni su « la fine del leninismo »? Sulla funzione dei «movimenti» e sul loro rifluire nelle Grandi Istituzioni, tra le quali oggi la spicco il Pci? Che effetto ti fa esse re uno dei capi storici d’una Grande Istituzione? Che effetto può fare ad un rivoluzionario?
«Piantala col "capo storico”. Ed a me non pare che il partito comunista italiano possa esser definito una Grande Istituzione, non nel senso in cui ne parla Alberoni, almeno. La Grande Istituzione, se capisco bene, è una forza nella quale il momento dell’autorità prevale sui fermenti e sulla presenza delle masse. Da questo punto di vista la Chiesa di oggi è certamente una Grande Isti tuzione, noi no. Per noi il contatto con le masse è continuo, attivo. Ed è proprio questo contatto con le masse che ci colloca in un processo storico e definisce il nostro rapporto con i gruppi estremi che si dicono di avanguardia. Noi vogliamo e dobbiamo marciare in avanti, la nostra funzione è quella d’un rinnovamento continuo in politica, in economia, nei rapporti di classe, nel costume; ma non dobbiamo mai perdere il contatto con le masse. Di qui la nostra prudenza, il nostro gradualismo. Ci muoviamo con lentezza? ci rimprovera qualcuno. Rispondo cche ci muoviamo col passo giusto per non perdere il contatto con le masse. La nostra è una funzione continua e preziosa di orientamento».

Compromesso storico
Se quanto dici è vero, dovreste però preoccuparvi anche quando rischiate di perdere il contatto con le avanguardie.
«È vero. Infatti ce ne preoccupiamo ».

Tu, mi pare, meno di altri tuoi compagni. Sei stato e sei il più duro verso i gruppi che stanno alla sinistra del Pci.
« Bisogna vedere se stanno veramentc alla nostra sinistra, come credono e come io nego. In ogni modo non perdere il contatto non significa civettare. Ho sempre disprezzato chi corteggia gli estremismi per non sembrar scavalcato dalla moda dei tempi. Coi gruppi estremisti bisogna fare i conti, e a volte sono conti duri ma necessari. Certo neanche con loro bisogna perdere il contatto perché sono portatori di fermenti e di sollecitazioni. Ma la loro funzione, sempre che sia esercitata correttamente, è diversa dalla nostra ».

Che vuol dire «sempre che sia esercitata correttamente»?
«Vuol dire che a volte non si tratta di gruppi politici ma di gruppi ammalati d’infantilismo o, peggio, di veri e propri provocatori. Possono essere estremamente dannosi ad una seria politica di sinistra. In quei casi vanno isolati e battuti senza riguardi ».

Come consideri il femminismo? Che tipo d’avanguardia è? Stimolante? Pericolosa? Va considerata come una forza con la quale fare i conti? Va isolata e battuta?
«Il femminismo. È un fenomeno assai complesso ed è assai difficile dar giudizi sommari. Pensar d’isolare il movimento femminista è una sciocchezza: esso è certamente portatore di esigenze importanti, di valori nuovi e progressivi. Ma le forme spesso sono sbagliate. Io per esempio non esito a dire che sono contrario alla libertà d'aborto indiscriminata, che tra l’altro premierebbe l’irresponsabilità maschile nel fare l’amore. Poi paga la donna ».

Vedi, Amendola, non è questo. Il movimento femminista sostiene che queste questioni le decide la donna, non tu.
«Nessuna questione che riguarda la famiglia dev’essere decisa individualmente, donna o maschio che sia il soggetto. Occorre sempre che la decisione sia frutto di una volontà comune, nella responsabilità comune della donna e dell’uomo in un quadro collettivo».
Un comizio di Amendola negli anni 50 del Novecento
...Un quadro che, però, è maschile, dicono le femministe e perciò le mette comunque in posizione subordinata. Ma lo so che per certi aspetti tu sei molto tradizionale. Non hai detto che trovi valori positivi nella politica della vecchia destra storica italiana, quella di Spaventa?
«Sì, l’ho detto. E lo dico. Era una classe dirigente borghese e conservatrice, cioè nemica di tutto ciò in cui credo e per cui mi sono battuto per tutta una vita: però se la paragono con la classe che ci ha governato in questi anni, riconosco che era migliore ».

Ma con questa classe dirigente così spregevole voi volete fare il compromesso storico. Cioè un accordo permanente di potere. E tu, Amendola, sembri il più impaziente di tutti i tuoi compagni. Tu sei quello, almeno così pare, che vorrebbe bruciare le tappe, trovi che non si procede abbastanza in fretta. Perché? Come spieghi un giudizio così negativo sulla classe dirigente attuale e una disponibilità compromissoria così spinta?
«È vero, sono impaziente. È inutile dire a te, credo, che la mia impazienza è un’impazienza politica. Vedo le difficoltà, vedo lo spessore degli ostacoli e penso che questo sia il momento di esercitare il massimo possibile di pressione per superarli. La ragione? Mai come oggi sono esistite le condizioni per richiedere un mutamento di direzione politica, ma mai come oggi la situazione generale del paese è stata tanto grave. Forse pochi si rendono conto della gravità di quanto accade ».

E tu speravi che il mutamento di direzione politica potesse avvenire in tempi di bonaccia?
«Non ho mai creduto che potesse avvenire in tempi di bonaccia. Ma ora il mutamento è maturo. Se non avviene entro un tempo breve la situazione da matura diventerà putrida. Questa è la ragione della mia impazienza ».

Hai detto che vedi lo spessore degli ostacoli. Quali sono secondo te gli ostacoli più gravi che ancora si frappongono ad un mutamento di direzione politica? Quelli di carattere internazionale?
«So benissimo che l’establishment americano è tenacemente contrario a un mutamento della direzione politica in Italia. Questa non è una novità. La vera novità consiste nel fatto che dagli Stati Uniti cominciano a venire voci diverse, più attente, molto interessate ad un possibile ingresso del partito comunista nella direzione dello Stato. Non parlo soltanto di voci dell’America del dissenso, ma anche di personalità autorevoli nel mondo della cultura, del giornalismo, dell’università e perfino dell’industria e della finanza. La diffidenza nei nostri confronti è sempre meno convinta. Spesso cede il posto ad una apertura di fiducia. Nei paesi della Comunità europea questa apertura di credito verso di noi ha già assunto forme importanti, specialmente nella Germania federale e in Gran Bretagna. Della Francia, dopo i risultati elettorali recenti, è superfluo parlare perché lì si profila già un mutamento di direzione politica radicale».

Stati Uniti e Vaticano.
È dunque possibile concludere che l’ostacolo internazionale non è il più grave?
«Non direi questo. L'ostacolo internazionale esiste, ma la mia convinzione è che, come sempre, gli stranieri intervengono nei nostri affari se sono chiamati».

E il Vaticano? La gerarchia ecclesiastica?
«Anche per la Chiesa vale lo stesso discorso che ho fatto per l’America; in misura anche maggiore. Negli ambienti vaticani ci sono ancora forti resistenze contro di noi, ma il clima di scomunica mi sembra passato e d'altra parte i nostri contatti sono frequenti con una parte del clero e anche della Curia. No, non mi pare che questo sia un ostacolo insormontabile».

Allora il mondo imprenditoriale. Vengono di lì le resistenze?
«Voglio esser molto chiaro. Da tutto quello che vedo e sento, dalle notizie che ci arrivano, dai contatti che abbiamo, la sensazione conclusiva è che la barriera di ostilità preconcetta, di chiusura totale verso di noi si stia sfaldando, che varchi importanti si siano aperti, e ciò vale per quanto riguarda le grandi potenze dell’occidente, le gerarchie della Chiesa e anche il mondo italiano dell’industria. Quando dico che alcuni varchi si stanno aprendo, questa osservazione non va ampliata al di là de suo letterale significato. L’ostilità, la diffidenza, i pregiudizi rimangono ma non hanno più la ottusità e la globalità di prima. Nel mondo degli imprenditori piccoli per esempio, l’avvicinamento a noi è visibile e crescente. Si verifica soprattutto attorno alle regioni e ai comuni che noi amministriamo. Quanto agli industriali di maggiori dimensioni, con essi accade addirittura che spesso siano loro a cercarci. Forse si sono accorti che siamo uno dei pochi interlocutori seri e validi. Ma in quei casi bisogna stare molto attenti ed essere molto diffidenti. Occorre che gli uomini che detengono il potere economico si rendano conto che col partito comunista non hanno nessuna speranza di poter continuare il vecchio gioco gattopardesco. In Italia uno dei punti centrali del sistema di potere è la struttura bancaria e finanziaria. Senza demagogie e senza superficialità, noi siamo fermamente convinti che se non si incide nel potere bancario e finanziario non si trasforma in senso democratico e socialista la struttura del paese. Quanti sono i grandi imprenditori disposti a seguirci su questa strada? I legami tra grande industria e alta banca sono innumerevoli, i legami tra profitto e rendita sono fittissimi. Sperare in una semplificazione schematica, puntare su una separazione tra interessi legittimi e progressivi dell’impresa e interessi parassitari del capitale finanziario e immobiliare è alquanto infantile. Comunque non voglio esser pessimista ad oltranza. Dico solo che dobbiamo esser diffidenti, non farci incantare. Sappiamo che ci sono ostacoli che non è facile superare ».

Il potere da battere
A sentire te, Amendola, avete già vinto: l’America si sta in parte ricredendo su di voi, la Chiesa ancora di più, i piccoli imprenditori si avvicinano a voi, i grandi addirittura vi corteggiano. La classe operaia, la gioventù, i democratici convinti guardano al Pci come alla sola carta buona in un mazzo di carte truccate o perdenti. Qual è allora l’ostacolo che si frappone a quello che tu chiami un profondo mutamento della direzione politica e che, più chiaramente, si deve chiamare l’arrivo dei comunisti al governo del paese?
«Ecco il punto. Qual è l’ostacolo? L'ostacolo è politico. Ed è ancora difficilissimo da superare. L’ostacolo è all’interno del vertice politico della Democrazia cristiana, arroccato intorno al potere con tutte le sue forze. Il gruppo dirigente della Dc sa che se perde il potere verrà fuori ancora più nettamente di quanto già non sia avvenuto il quadro entro il quale hanno operato per oltre venti anni, il grado di complicità a volte terribili e sempre gravi, verrà fuori la questione morale. È incredibile come vent’anni di malgoverno abbiano reso insensibili i gruppi di potere alla questione morale. Il male ha finito per contagiare anche vasti strati di opinione pubblica. La sensibilità alla questione morale è scarsa in una parte importante dell’opinione pubblica e in quasi tutta la classe dirigente. Perciò il vecchio gruppo dirigente si batterà fino in fondo per impedire una svolta politica. Solo pochi avvertono la necessità di una svolta ma le armi che gli altri possiedono sono ancora molto forti. In termini di strumenti operativi, di complicità, di clientele. Questo è il vero nodo da sciogliere. È questo gruppo che mobilita a sua difesa le potenze straniere, la gerarchia ecclesiastica, una parte dei ceti medi improduttivi, il capitalismo finanziario. Questo è il blocco di potere da battere, il cui perno sta all’interno del gruppo dirigente democristiano. La lotta in seno al congresso de sarà perciò decisiva ».

Tu parli di vertice democristiano. Ma il partito democristiano? Quello come lo valuti? Che conto ne fai?
«Nella Dc ci sono forze popolari e democratiche importanti. Quando parlo della De mi viene sempre in mente quello che Giustino Fortunato diceva del Parlamento dei suoi tempi. "Nel Parlamento”, diceva ”ci sono un 10 per cento di deputati che sono tra le persone più corrotte che io abbia conosciuto, c’è un altro 10 per cento che sono tra le più oneste e poi c’è un 80 per cento che sono esattamente come tutti gli altri italiani”. Ecco: per la Democrazia cristiana si può fare lo stesso discorso».

Vuoi dire che con la grande maggioranza della Dc si può collaborare?
«Si può e si deve. Io ho rispetto per le forze popolari e cattoliche rappresentate dalla Dc e per molti dei suoi dirigenti che ne esprimono le aspirazioni ».

A quanto valuti la forza naturale della Dc?
«Un 30 per cento circa, quando fosse disinflazionata dalle clientele e dagli apporti estranei alla sua natura democratica e cattolica. È una forza con la quale si debbono fare i conti ».

Che vuol dire fare i conti?
«Vuol dire discutere con la massima franchezza un programma che abbia un denominatore comune e solo dopo aver accertato qual è il programma, solo allora discutere d’un governo da fare insieme al Psi ed alle altre forze di sinistra. Tutto ciò dipende dal rinnovamento della De. È chiaro infatti che altro è governare a Napoli con una giunta di minoranza, altro è il governo nazionale ».

E i socialisti? Qual è la tua opinione sul partito socialista e sulla sua funzione nei prossimi anni?
«Tu vuoi farmi dare giudizi su tutto e tutti, non è il mio costume».

Ma te ne ho chiesti anche sul tuo partito...
«È vero».

D’altra parte tu sei considerato ormai uno dei capi storici della sinistra italiana, non ti sto chiedendo giudizi arroganti, ma testimonianze d’una esperienza di vita.
«Basta col "capo storico”. Non voglio essere imbalsamato. In ogni modo credo che anche i socialisti debbono compiere una seria opera di rinnovamento. Alcuni di loro si sono arrabbiati con me perché ho affermato che anche il Psi deve affrontare problemi di ordine morale, di costume, di militanti, ecc. ».

Hai sentito le spiegazioni date da De Martino al congresso su questo punto?
«Le ho sentite, ma non mi hanno pienamente convinto. Ci vuole un taglio netto col passato. Il Psi, per la sua tradizione, dovrebbe dare un contributo al risanamento del paese ».

Un giudizio sul Psi
Come giudichi il comportamento della commissione inquirente del Parlamento?
«Inammissibile».

Torniamo ai socialisti.
« Io non credo che i socialisti, qualora si realizzasse quella che per comodità possiamo chiamare la "grande coalizione” vedrebbero mortificato il loro ruolo. Tutt'altro. So che molti compagni del Psi hanno questo timore, e per sfuggirlo finiscono per arrampicarsi sugli specchi: inventano posizioni politiche artificiali, talvolta sembrano collocarsi alla nostra sinistra, tal altra sono più zelanti di quanto non lo si sia noi stessi nel sostenere le nostre ragioni. Insomma, a volte la politica socialista somiglia troppo alla fuga in avanti. Ma se invece presidiassero con continuità le i posizioni che sono proprie del socialismo italiano, il loro spazio in una società in piena trasformazione sarebbe sicuramente destinato a crescere. Questa è la mia convinzione ».
Luglio 1964. Amendola con  Togliatti e Natoli
Fosti proprio tu a parlare qualche anno fa d’una ipotesi di partito unico dei lavoratori...
«Sì. è vero...».

Ti sembra ancora un’ipotesi su cui lavorare?
«Direi di no, oggi non è attuale, in prospettiva remota, perché no? Ha ragione Nenni quando ha detto a te che non ha abbandonato la speranza. Neppur io l’ho abbandonata, ma oggi i compiti e gli obbiettivi sono altri».

E l’Unione Sovietica? Non ti sembra, Amendola, che sia venuto il momento di parlar chiaro su questo tema?
«E ti pare che non stiamo parlando chiaro? Il tuo giornale ha scritto che Berlinguer ha rotto a Mosca. Credo che sia sbagliato parlare di rottura, nel senso che noi non abbiamo nessuna ragione di effettuare drammatiche lacerazioni con un paese che per molti anni ha rappresentato un polo di riferimento per noi come per tutti i partiti comunisti e che continua obbiettivamente, ad essere un punto di riferimento per le grandi battaglie per la pace e contro l'imperialismo. Certo la situazione è cambiata e molto. Quello che noi non siamo disposti a sopportare è una qualsiasi interferenza, dai compagni sovietici come da qualsiasi altro. Non è una novità questa nostra linea di autonomia: matura da molti anni ma sono d’accordo che negli ultimi tempi c’è stato un salto di qualità».

Questa posizione ha un prezzo.
« Quale? ».

Che nel momento in cui voi rivendicate l’autonomia del partito comunista italiano dovete riconoscere l’altrettanto piena autonomia di ciascuno degli altri partiti comunisti, a cominciare dal Pcus. Ma in questo modo, rinserrando i partiti comunisti nelle varie vie nazionali, vi precludete la possibilità di incidere su quelli che possono essere gli errori o addirittura le colpe che altri partiti comunisti possono commettere. Ognuno in casa propria fa quello che vuole: e che fine fa allora l’internazionalismo e la possibilità che ciascuno influisca sull’altro?
«Nessuno è buon giudice in casa altrui. Per il momento comunque noi crediamo che l’autonomia sia un bene maggiore del prezzo eventuale che bisogna pagare per ottenerla».

Dimensione europea
Mi rendo conto che uscendo da un lungo periodo di subordinazione al partito-guida e allo Stato-guida tu abbia ragione. Ma hai capito benissimo a che cosa alludo. Nessuno è buon giudice in casa altrui, tu dici ed è vero, salvo quando si tratti della violazione di principi di democrazia socialista che coinvolgono tutti. Questo è il punto dolente sul quale siete chiamati a rispondere, e su questo la tesi delle vie nazionali non basta.
«Ho capito benissimo qual è il problema che mi poni e la risposta è questa: se ragioniamo in termini teorici la discussione sulla democrazia socialista è apertissima ed è nostra intenzione contribuirvi con il massimo impegno. Ho visto che Ingrao ha affrontato ampiamente il tema proprio sul vostro giornale. E’ un tema grosso, richiede il nostro impegno e non soltanto il nostro. Se poi ragioniamo in termini politici allora voglio dire due cose: 1) l'antisovietismo in Italia lo fanno già in tanti, alcuni rozzamente, altri con più acutezza; non mi pare che si senta il bisogno che anche noi entriamo nel coro; 2) quando le violazioni della democrazia socialista, in Urss come dovunque, sono palesi e gravi, noi non stiamo affatto zitti. Tutt’altro. Infine aggiungo una terza considerazione: quando un partito comunista forte come il nostro e con le radici che il nostro ha nel popolo e nella classe operaia è una scuola viva e fresca di costume democratico, questo è il modo più valido per indicare che cosa è la democrazia socialista anche a quei partiti comunisti ed a quei paesi comunisti che ne avessero bisogno, molto più di dichiarazioni verbali e articoli sui giornali ».

Tu credi molto alla via italiana del Pci?
«Sì, ci credo molto. Ma dobbiamo abituarci a ragionare anche su una dimensione europea, se vogliamo venire a capo dei nostri problemi».

Ma in Europa occidentale i partiti comunisti tranne quello italiano e quello francese sono quasi inesistenti?
«Vuoi dire nell’Europa comunitaria, ma quei confini sono ormai superati, c'è il problema della Spagna; comunque il quadro europeo ripropone il problema dei rapporti tra comunisti e socialisti. Ecco un tema che ha con sé l’avvenire».

“la Repubblica”, 14 marzo 1976

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