19.4.18

Crisi finanziarie. Il grande crack di Firenze (Gianluca Briguglia)

Prato, Chiesa di San Francesco, Banchieri toscani

Non sarà certamente il primo grande crack della storia della finanza, ma le spettacolari bancarotte dei banchieri fiorentini e dello stesso Comune di Firenze, negli anni ’40 del Trecento, marcarono profondamente l’immaginario dei contemporanei e condussero a un riordino di assetti e a soluzioni interessanti e creative.
È nel 1345 che la decisione di Edoardo III d’Inghilterra di annullare il debito che aveva contratto con i Bardi e i Peruzzi per finanziare una guerra fallimentare porta a conseguenze drammatiche. Già da qualche anno il modello finanziario di prestito ai sovrani sembrava essere entrato in una fase pericolosa, ma è con quella decisione inglese che rapidamente falliscono non solo le famiglie dei grandissimi prestatori, ma tutta la rete di finanziatori, di cui Bardi e Peruzzi sono i capifila e i garanti. Come in un effetto domino conseguente e inarrestabile, non solo le famiglie di mercanti-banchieri perdono l’enorme quantità di denaro investito, ma vengono anche accusati di malversazioni e sospesi o esclusi da mercati e reti europee. Insieme a loro tutta una filiera di piccoli investitori finanziari affonda in una crisi potenzialmente letale.
Ma non basta, perché questi eventi si intrecciano e potenziano un’altra crisi finanziaria, quella del Comune di Firenze, che nello stesso giro di mesi dichiara la propria impossibilità a pagare i prestiti concessi dai cittadini, cioè i propri titoli pubblici. O meglio, stabilisce che non potrà pagare il valore nominale dei titoli, ma si impegna a pagare un interesse annuo perpetuo del 5% calcolato su quel valore.
Lorenzo Tanzin, professore di Storia medievale all’università di Cagliari, in un libro agile e godibile (1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza, Salerno, Roma), parte da questi due eventi per rintracciare la storia di quella crisi di sistema e le soluzioni messe in opera per farvi fronte. Ne risulta anche un bello spaccato della società trecentesca fiorentina e toscana, delle sue dinamiche finanziarie e del suo respiro internazionale.
Il fallimento dei mercanti-banchieri, dei prestatori finanziari, è anche conseguenza di un gioco sottile e pericoloso, fatto di relazioni politiche internazionali ambigue, della ricerca del massimo profitto, di una struttura del prestito che di fatto non conosce la responsabilità limitata e a volte entra nell’area dell’azzardo. Il Comune si trova a gestire queste procedure di fallimento tentando soluzioni condivise e durevoli, come la ristrutturazione concordata del debito, che però non sempre sembrano praticabili. Quando da ogni punto d’Europa compaiono creditori delle grandi compagnie o addirittura regnanti o istituzioni pubbliche estere, riuscire a gestire la crisi diventa difficile, ma è anche un impegno di ordine politico e strategico, perché la caduta della fiducia produrrebbe ripercussioni incalcolabili sulla tenuta stessa della città, provocando perdite di mercati e addirittura rappresaglie sui fiorentini all’estero.
Come se questa situazione non fosse bastata, lo stato delle finanze pubbliche della città si era già degradato negli anni che precedono il crack dei privati, e il debito pubblico fiorentino assume proporzioni insostenibili, tanto che il debito viene indicato contabilmente con un nome che ne rivela la massa e cioè “il Monte”. Due tipi di debito pubblico – ci mostra Tanzini con dovizia di dettagli e chiarendone agevolmente le caratteristiche tecniche – si accumulano. Da un lato abbiamo somme prestate in modo forzoso, come imposizioni che sono soggette però a una forma particolare di restituzione, cioè alla corresponsione di un interesse (ma non del capitale). Dall’altro lato abbiamo prestiti volontari, di breve termine, che costituiscono un vero e proprio mercato in cui la città negozia interessi e modi della restituzione. Il default di Firenze del 1345 dichiara, come abbiamo visto, la non restituzione dei crediti, ma li trasforma in una rendita del 5 per cento. Comincia per il Comune una battaglia contabile, simbolica e politica per preservare la fiducia nella città di tutte le componenti del sistema. Un passo simbolico di grande importanza è la realizzazione dell’imponente registro pubblico di tutti i creditori del Comune: l’istituzione comunale non cancella la memoria del proprio debito, ma anzi la rende pubblica, come segno di una volontà di soluzioni. È l’autorità pubblica il tesoro comune, sembra voler dire quel registro, e la sua credibilità va difesa. A questa dichiarazione simbolica se ne aggiunge una molto tecnica e concreta: chi avesse tentato di abolire l’interesse annuo del 5% avrebbe dovuto pagare una multa di 2mila fiorini, metà della quale non al Comune, ma alla Camera apostolica, cioè al papa. In questo modo si vincolava la parola del Comune a un’autorità esterna, che tanto più è efficace quanto più avrebbe ben volentieri incassato le ammende (e ne avrebbe avute tutte le capacità e l’autorità).
Dunque calcolando la massa delle proprie entrate attraverso le tasse, non provocando panico tra creditori e investitori, avendo ristrutturato il debito, Firenze riteneva di poter gestire “il Monte” (e forse abbassarne un po’ la cima).
Furono allo stesso tempo escogitate alcune forme piuttosto “creative” di approvvigionamento al credito. I cittadini creditori del Comune erano infatti incoraggiati a prestare altro denaro in cambio dello scongelamento del valore nominale del loro credito pregresso. In pratica, chi avesse avuto un credito lo avrebbe avuto indietro integralmente – ciò che la legge del 1345 proibiva, avendolo trasformato in un interesse annuo -, se avesse prestato altro denaro (anche questo restituibile totalmente). Per dirla tutta, si era creato un mercato del debito: il valore nominale del proprio titolo poteva infatti essere venduto a terzi, che l’acquistava a prezzo enormemente ridotto garantendosi solo il pagamento dell’interesse. Ma ora poteva reinvestirlo nel Comune prestando altro denaro, ma riguadagnando tutto il credito nominale del titolo e dunque con un enorme profitto.
Insomma il sistema tiene, non solo quello pubblico, ma anche quello privato, perché i mercanti-banchieri avevano da tempo consolidato i loro prodotti e processi manifatturieri; le loro reti internazionali, dopo un primo sbandamento, si erano ricostituite e la loro capacità di raccogliere e investire denaro era di nuovo richiesta.
Neppure la grande peste, quella del 1348-49, che pure è uno shock e riduce drammaticamente la popolazione, affonda il sistema, perché paradossalmente la diminuzione di manodopera fa aumentare i salari e innesca meccanismi produttivi e di consumo che assecondano, pur nel dramma come in una sorta di dopoguerra, la ripresa della città. Non sarà sempre così e l’equilibrio si romperà di nuovo, nel 1378, con la rivolta dei salariati esclusi da tutto, i Ciompi.

“Il Sole 24 ore – Domenica”, 8 aprile 2018

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