18.3.18

Servono più migranti per salvare le nostre valli (Pietro Pruneddu)


Recupero un ampio stralcio di un articolo vecchio di due anni, ma sempre attuale – a me pare – nonostante il diffondersi e il crescere della xenofobia. Concretamente mostra che esiste la possibilità, con l'immaginazione e l'iniziativa politica, di governare in una sua parte significativa l'immigrazione e di renderla - più che un problema (o un dramma) - una risorsa. (S.L.L.)

Dani non aveva mai visto la neve. Una vita di spostamenti l’ha catapultato dall’Africa equatoriale alle cime imbiancate del Trentino. In fuga dalla povertà e dalle guerre, ha trovato tra i boschi di abeti e pini la sua nuova heimat, una seconda piccola patria. Dani, protagonista del film La prima neve di Andrea Segre, è un personaggio inventato ma decisamente reale. Gli immigrati stanno riscrivendo la demografia delle montagne italiane, abbandonate in massa dagli autoctoni, e si stanno rivelando come il più efficace vaccino contro la desertificazione e la scomparsa di intere comunità.

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Uno straniero su cinque in Italia vive e lavora nelle zone montane. Circa 890 mila persone (sul totale di poco più di 5 milioni che abitano nel Paese) hanno scelto di stabilirsi nelle aree interne, che rappresentano il 60% del territorio nazionale e circa 4 mila Comuni. Secondo i dati elaborati dalla Fondazione montagne Italia, gli stranieri nelle aree montane rappresentano il 6,23% della popolazione, una quota inferiore alla media nazionale, pari all’8,25%.
La distribuzione è molto disomogenea. A livello quantitativo la Lombardia è la regione con più stranieri nei Comuni montani, circa 103 mila persone, ma se si considera l’incidenza sui residenti i picchi si registrano in Umbria (10,45%), Marche (10,12%), Emilia-Romagna (9,94%) e Trentino (9,11%). Tra le province spicca Grosseto, nei cui Comuni montani c’è una media di immigrati del 13,33%.
Lo squilibrio è dato dalla bassissima penetrazione degli stranieri nelle montagne del Sud: l’incidenza in Sardegna, Basilicata e Puglia si attesta a meno del 3% della popolazione. Il Meridione che soffre di uno spopolamento cronico – oltre 450 mila giovani se ne sono andati negli ultimi 10 anni – ha anche un tasso di immigrazione molto inferiore al resto d’Italia.
I dati nazionali dicono che, tra il 1951 e il 2001, sono 2.283 i Comuni italiani che hanno perso “potenziale insediativo”, ovvero la capacità di attrarre nuovi abitanti. Di questi, 1.678 sono montani. Se la tenuta complessiva della popolazione nelle aree interne sta reggendo è solo grazie agli immigrati. Mentre il tasso di natalità complessivo in montagna non raggiunge l’8 per mille, tra gli stranieri supera il 14. Ma nonostante il boom, questi numeri sono destinati a mutare ancora.
Enrico Borghi, deputato Pd e presidente nazionale dell’Uncem (Unione dei Comuni e degli Enti montani), è convinto che se si incentivasse l’integrazione con azioni concrete, gli immigrati potrebbero rivelarsi una straordinaria risorsa per questi territori in costante spopolamento. Il ragionamento di base è semplice: se la percentuale di stranieri in montagna crescesse in linea con la media nazionale, ci sarebbero circa 280 mila persone in più da impiegare nella cura dei luoghi, nell’ospitalità e nei lavori agricoli.
«L’assorbimento di stranieri nei territori montani è inferiore del 2% rispetto alle aree metropolitane», spiega Borghi a “pagina99£. «I dati dicono che siamo ben lontani dall’idea di invasione. Ci sono ottimi esempi di integrazione: gli immigrati stanno rimpiazzando la manodopera autoctona che non svolge più determinati mestieri. Si sono integrati nelle filiere agroalimentari, come i sikh nell’Appennino emiliano che si occupano della produzione di parmigiano reggiano. Sono fondamentali nelle manutenzioni ambientali e l’afflusso demografico ha permesso di mantenere o ripristinare servizi alla comunità, per esempio le scuole tenute aperte grazie all’arrivo dei figli di immigrati».

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Borghi è in prima linea nell’intergruppo parlamentare per lo Sviluppo della montagna, che si è dato l’obiettivo di individuare politiche specifiche e incentivi per facilitare la presenza dei migranti nei territori montani.
Una prima mappatura parziale della situazione è stata presentata alcuni mesi fa in una conferenza a Montecitorio. I casi positivi di integrazione vanno dalle Alpi agli Appennini. A Ceres, tra le valli piemontesi di Lanzo, sono nate una squadra di calcio e un coro composti da richiedenti asilo provenienti dall’Africa occidentale che cantano in dialetto piemontese. A Maresca, sui monti del pistoiese, i profughi sono impiegati in progetti sportivi, mentre a Malegno, in quella Val Camonica ribattezzata “la valle accogliente”, si dedicano ai lavori socialmente utili. Qui, nonostante alcuni episodi di razzismo, sono stati avviati diversi progetti che hanno visto i richiedenti asilo trasformarsi da presunto problema a risorsa. «In fondo, la storia stessa dei montanari è fatta di migrazioni, di scambi, di integrazione», spiega Marco Bussone di Uncem.
Altri esempi arrivano dall’associazione Dislivelli, che riunisce ricercatori e giornalisti specializzati nel settore della montagna. Nella loro analisi il fenomeno migratorio in corso viene definito dei “montanari per forza”, per riprendere una definizione di Enrico Camanni. Solo attraverso politiche mirate d’inserimento comunitario, la necessità lavorativa si trasformerà in passione. Facendoli diventare “montanari per scelta”. Come i boscaioli serbi nell’appennino piacentino o i cinesi nelle Alpi. Nelle vallate toscane ci sono insediamenti di albanesi che da ormai più di dieci anni hanno trovato lì casa e lavoro. Nelle foreste del Casentino, territorio di Arezzo, si sono invece radicati in modo particolare i romeni provenienti dal distretto di Bacau. La loro terra d’origine è una zona rurale che ha incredibili similitudini con quella in cui si sono stabiliti in Italia. Tanti di loro sono impiegati nel settore forestale e le loro competenze in materia, che derivano proprio dalla somiglianza naturalistica tra i due luoghi, sono molto apprezzate. I loro figli rappresentano circa il 20% degli alunni nelle scuole locali.
«La sfida dell’integrazione la vinciamo se i migranti possono contribuire allo sviluppo del Paese», spiega Borghi. «Se tutti gli stranieri rimanessero in città si verrebbero a creare delle banlieue, mentre i territori abbandonati rischierebbero anche conseguenze idrogeologiche».
Questo scenario si sta concretizzando rapidamente. Se nel 1961 il 90% del territorio verde era in mano ad aziende agricole, oggi siamo scesi al 57%. La perdita è addirittura drammatica in zone come la Liguria, dove il 75% del territorio è stato abbandonato. Non va molto meglio in Lombardia, le cui montagne hanno visto aumentare gli stranieri residenti dai 40 mila del 2002 agli oltre 100 mila di oggi. La maggior parte vive tra le Prealpi bresciane e la zona dei laghi bergamaschi.
Lo spopolamento e il ricambio generazionale sono impietosi, soprattutto in ambiti lavorativi come la pastorizia. Nel nord Italia il 70% dei pastori è straniero, proprio perché gli autoctoni hanno lasciato il settore. Sarà per questo che alcune settimane fa la Regione (attraverso l’Ersaf, l’azienda pubblica che si occupa dei servizi per l’agricoltura) ha annunciato un bando per offrire la gestione di 32 malghe. Un’opportunità di lavoro destinata soprattutto agli under 30 affinché si trasferiscano nei vari alpeggi sparsi tra Sondrio e l’area bergamasca. [...]

Pagina 99, 26 marzo 2016

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