19.3.18

Elisabetta I d'Inghilterra, la regina innamorata dell'italiano (Luigi Sampietro)


«Nebbia sulla Manica: il Continente è isolato». La storiella non gode più di molto credito ma serve ancora oggi per avere un’idea di quel che gli inglesi pensavano di se stessi ai tempi della regina Vittoria. Londra ombelico del mondo, e la Gran Bretagna centro di un Impero che, nel ’700, aveva assunto come esplicito modello l’organizzazione dell’antica Roma. Era una forma di superiority complex che tradiva la convinzione di rappresentare il volere del Padreterno sulla Terra. Una sindrome che è comune a tutti popoli, almeno in potenza, e che dura finché durano le forze.
Non era stato sempre così. All’inizio del ’500 l’Inghilterra era ancora un regno periferico sfiorato appena dall’ondata di modernità che stava attraversando l’Europa, ed è proprio a partire da quel momento che ha fatto un balzo in avanti senza precedenti e che non avrebbe più avuto l’eguale. Seppero migliorarsi, gli inglesi, prima ancora di eccellere, perché vollero essere in grado di “fare una bella figura”.
È appena uscito negli Stati Uniti un libro, Elizabeth I’s Italian Letters, a cura di Carlo M. Bajetta dell’Università della Valle d’Aosta, il cui titolo, almeno sulle prime, quasi sorprende. Al punto di indurre il lettore poco addentro alle faccende cancelleresche a chiedersi se non si tratti di uno di quei romanzi che hanno come protagonista un vip o una vip del passato – amori proibiti, preferibilmente –, con tanto di carteggio inedito e l’allettante prospettiva di essere trasformato in un film di Hollywood.
Si tratta invece di un lavoro di altissimo valore, in cui sono tradotte per la prima volta in inglese le lettere, per lo più di carattere diplomatico, che la regina Elisabetta ebbe a scrivere in italiano nel corso della sua vita. Sono 29 in tutto – più una trentesima, indirizzata «al molto Potente et Inuincibile Emperadore de Cathaya», ovvero della Cina, che la dice lunga sulla portata delle sue ambizioni – e, prima ancora che il nostro sprovveduto lettore abbia aperto il libro, sono passibili della domanda delle cento pistole. E, cioè: «Come mai le lettere non sono scritte in inglese?».
La risposta sta nel fatto che l’inglese era una lingua conosciuta da pochi e che evidentemente non godeva di molto prestigio. Non era chic. Era sì stata portata alle stelle, in quegli anni, dal genio di Marlowe e di Shakespeare, di Spenser e di John Donne; ma costoro, per quanto importanti in patria, non erano figure che dessero lustro e prestigio al Paese fuori dai suoi confini. Non come i poeti o le rockstar dei nostri tempi.
Marlowe e Shakespeare erano infatti semplici teatranti: gente che, per non essere considerata alla stregua dei vagabondi, veniva iscritta come facente parte della servitù nel registro di casa di qualche nobile protettore. John Donne, da parte sua, era notissimo come predicatore ma certamente non come uomo di lettere, e la sua fama, fino all’epoca romantica et ultra, non arrivò mai al di là del Tamigi. Infine, Edmund Spenser, autore di un monumentale poema, La regina della fate, che ambiva a essere riconosciuto un giorno all’altezza dell’Eneide e della Gerusalemme liberata ma che era stato pensato e scritto in Irlanda, un Paese che era allora lontano dal mondo delle Corti europee come il Mar Nero del povero Ovidio.
Insomma, gli inglesi – così come l’inglese – si accingevano a imporsi nel mondo; stavano per diventare potenti, di qua e di là dell’Oceano; avevano sconfitto la Invincibile Armata degli spagnoli nella battaglia di Gravelines (1588); ma, come succede ai parvenu, erano anche consapevoli che i soldi non bastano. Ricchi lo erano certamente, gli inglesi, perché prima di Elisabetta – e prima di suo padre Enrico VIII –, il nonno Enrico VII, fondatore della dinastia Tudor, aveva promosso una politica che favoriva l’esportazione dei manufatti in Francia e nelle Fiandre; e aveva stipulato in Italia un vantaggioso accordo con la Repubblica fiorentina governata dai Medici.
Dopo Enrico VIII e la decisiva separazione dalla Chiesa di Roma, la giovane Bessy, salita al trono nel 1558, aveva provveduto a far alleggerire i galeoni spagnoli carichi d’oro e d’argento che arrivavano dall’America, e aveva poi insignito del titolo di cavaliere il corsaro Francis Drake, futuro comandante in seconda della flotta di Sua Maestà e successivo eversore della città di Cadice, saccheggiata dagli inglesi nel 1596.
Non fu però soltanto per darsi un tono che il grande conte di Essex, spintosi l’anno seguente a Faro in territorio portoghese, ripulì la preziosa biblioteca del vescovo Osorio, per donarla in seguito all’umanista e bibliofilo Thomas Bodley che ne fece tesoro rifondando la vecchia biblioteca di Oxford (1602), oggi nota come Bodleian Library. L’interesse per la cultura e la sete di sapere era genuina negli inglesi – nel ceto dirigente inglese – del XVI secolo. La Riforma protestante che, con Enrico VIII si era limitata a uno scisma, aveva sensibilmente aumentato il numero di coloro che avevano imparato a leggere e scrivere. E non fu solo la Bibbia a essere tradotta.
Dall’italiano, in prosa e in versi, gli inglesi tradussero di tutto. Boccaccio e Bandello, Ariosto e Tasso; il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, che diventò il libro d’ore dei gentiluomini a Corte; gli Ecatommiti di Giraldi Cinzio, saccheggiati da Shakespeare; il Machiavelli dell’Arte della guerra e persino l’esecrato Principe, che però poté circolare – mammamia, che rischio! – solamente in forma di manoscritto.
Di Petrarca non mette conto parlare perché nel ’500 era sul tavolo di poeti e cavalieri che si compiacevano di singhiozzare sul tema dell’amore infelice. Era una sorta di must per chi volesse mostrarsi all’altezza, e fare la necessaria bella figura. La prova sta nel fatto che lo si leggeva in italiano, Petrarca, e la nostra era una lingua che godeva di grande prestigio e dava un tono – come oggi, a parti capovolte, l’inglese – quando, con uno scambietto o un inchino, un dotto o una dama se ne serviva, a voce o per iscritto.
Elisabetta l’italiano lo sapeva e lo parlava piuttosto bene. E aveva sempre voluto che le damigelle del seguito, nonché i componenti la ristretta cerchia dei collaboratori, fossero in grado di masticarlo. Nelle lettere se ne servì in luogo del latino, che pure continuava a essere la lingua della diplomazia, in circostanze in cui fosse utile mostrare un sentimento di amicizia o di devozione nei confronti dell’interlocutore; il quale, uomo o donna che fosse, non rispondeva però mai – e ci sono le prove in archivio – nella grossolana lingua di Elisabetta; i cui svolazzi nelle varie firme rappresentano una sorta di correlativo oggettivo, non dico di baci ed abbracci – impensabili e inappropriati nel comportamento di una sovrana –, ma di una affabilità aggraziata e tuttavia circospetta.
Come spiega il professor Bajetta nel suo sagace commento, è possibile vedere nei ghirigori della scaltrissima regina non solo una decorazione e un omaggio personale a dogi e granduchi, marchesi e imperatori, ma anche il sintomo di qualche indugio. Come se nel momento decisivo, Elisabetta volesse prendere tempo e riflettere sul contenuto della missiva che stava per licenziare.
Elizabeth I’s Italian Letters è un libro per topi di biblioteca che, insieme alla trascrizione e traduzione dei testi – alcuni olografi, altri di mano diversa da quella della regina, ma tutti quanti, quando non si tratta di brogliacci o minute, recanti la sua firma – rivela al lettore profano l’insospettabile mondo in cui si muovono paleografi e codicologi (si chiamano così!), filologi e archivisti. Gente che, anche se non sembra, fa in realtà parte del jet set: oggi qui, il prossimo mese Londra, poi Washington e Chicago; e, sulla via del ritorno, Vienna, prima di tornare a riseppellirsi in una delle nostre biblioteche. I manoscritti sparsi nel mondo sono frammenti di una storia infinita, e i nostri valorosi studiosi vanno e vengono, in cravatta e doppiopetto, al modo in cui si muovono le spie.


"Il Sole 24 ore Domenica", 27 febbraio 2018

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