24.2.18

La rivoluzione gentile delle “serve” colombiane (Fabio Bozzato)

Maria Roa Borja

Medellin (Colombia)
«Molte domestiche si comportano male, a volte rubano le cose o maltrattano i bambini quando i proprietari di casa sono via», dice d’un fiato la signora che si è appena seduta al nostro stesso tavolo, in un bar del barrio Aranjuez a Medellin. Sorseggiando il suo tinto con leche, il caffè macchiato, non ha potuto non ascoltarci. Ed è stato più forte di lei infilarsi nella conversazione.
Lasciato il discorso a metà, Maria Roa Borja la guarda di sguincio girando appena il capo, fasciato da uno dei suoi foulard colorati. Gli occhi, che per un momento si erano fatti durissimi, cedono in tenerezza. Sorride, senza dir niente. Così l’altra aggiunge: «Guardi che anch’io sono per i diritti delle domestiche».
Maria Roa Borja sa sfoggiare il suo sorriso come un’arma. La sua risata è contagiosa e calda. Gli occhi seducenti. Entrando al bar, per mano il figlio più piccolo, non c’è avventore che non si sia girato. Per un attimo il vociare si è spento, mentre dalla tivù il reggaeton continuava a gran volume come al solito.
Con lo stesso piglio Maria Roa Borja si è messa alla testa di una rivoluzione gentile che sembrava impensabile in Colombia. A dicembre se n’è accorto anche il New York Times. Tre anni fa questa trentaseienne di Medellin ha creato la Unione sindacale delle lavoratrici domestiche. Sono partite in 28. Ora sono 150. Mano a mano hanno strappato una serie di riforme che hanno esteso diritti e regole sindacali per le oltre 750 mila persone che in tutto il paese si calcola lavorino nelle case colombiane. Quasi tutte donne, quasi tutte nere. E quasi tutte di “strato sociale” 1 e 2, come qui si numerano le classi, come fosse qualcosa di normale.
Maria Roa Borja ricorda quando è dovuta fuggire dalle campagne coltivate a banane di Apartadó, nella regione di Antioquia, dove infuriava la guerra e «dove il sangue gira più dell’acqua», mormora con gli occhi lucidi. Là ha lasciato tutto, compreso il corpo di una sorella, uccisa dalla guerriglia. Aveva 18 anni quando è arrivata a Medellin. E quasi dieci li ha passati a fare la domestica. «Non so nemmeno in quanti posti. Però ricordo l’ultimo».
Viveva in casa con la famiglia che accudiva, come fa quasi la metà delle domestiche. Si arriva il lunedì mattina e si va via il sabato sera. «Era una coppia di professionisti, con due figli. Mi alzavo alle 4. Colazione veloce. Svegliavo i bambini e li preparavo fino a farli salire in autobus. Poi c’era la colazione per i signori che se ne andavano al lavoro. Il pranzo doveva essere pronto alle 12 e la cena alle 18. L’intera casa da pulire e tanta roba da stirare. La sera lavavo le uniformi dei ragazzi e finivo di sistemare tutto alle 23». Così per anni. «Mi prendevo cura come una madre ormai solo dei loro bambini. Quasi dimenticavo di averne anch’io. Quando gli ho chiesto di avere il week end libero per stare con loro, me l’hanno negato. Era troppo. Mi son detta: ora basta».
Due anni fa l’associazione di afro–colombiani Carabantú ha realizzato a Medellin un’inchiesta tra le empleadas domesticas assieme alla Ens, la Scuola nazionale del sindacato. È stato come dire a voce alta qualcosa che tutti sapevano, ma di cui nessuno tutt’ora parla volentieri in pubblico. Così è emerso che l’ 85,7% delle domestiche non ha un contratto, ma solo un accordo verbale. Il 97.6% ha figli e sono madri sole o separate.
E ancora. Quasi due terzi vengono dalle campagne e per un quarto sono desplazadas, profughe interne fuggite dalle scorribande di esercito, paramilitari e guerriglia. Il 54,8% di queste lavoratrici dice di sentirsi discriminata per il colore della pelle. Lavorano tra le 10 e le 18 ore al giorno, per un salario che per la maggior parte varia tra i 300 mila pesos e i 566 mila al mese, vale a dire tra i 100 e i 200 euro. Tutti dati molto simili a quelli raccolti anche dal Dipartimento nazionale di Statistica.
Un quadro terribile. E fuori controllo. Alla Ens spiegano che in tutta la città le ispezioni di lavoro nel 2013 sono state 5, contro le 4 mila del settore del commercio.
Che fare dunque? Un sindacato? Il fatto è che fino a poco tempo fa sindacato faceva rima con sovversivi. Gli uffici governativi riconoscono che tra il 1986 e il 2013 sono stati oltre 12 mila i sindacalisti vittime del conflitto, assassinati, minacciati o oggetto di attentati. Per questo non poteva che essere pazza l’idea di Maria Roa Borja e delle altre 27 empleadas. Figurarsi fare un sindacato dentro le case della classe alta e medio–alta. Forse per questo loro stesse preferiscono parlare più di «progetto» che di sindacato: «Ci incontravamo ogni domenica al parco San Antonio. Ci raccontavamo solo di soprusi e disgrazie. Non ne potevamo più».
Come ci sono riuscite? Forse hanno colto il momento giusto, un’opinione pubblica più attenta, il defluire del conflitto ideologico e hanno incontrato le persone perfette, tra cui alcune attivissime congressiste. Qualche mese prima, nel dicembre 2012, il Parlamento aveva approvato una legge considerata tra le migliori su questo fronte in Sudamerica. Un orario di lavoro ordinario di 8 ore, l’obbligo della previdenza sociale e assicurativa, il salario minimo. Secondo il Ministero del lavoro con le nuove norme le domestiche sotto l’ombrello della protezione sociale sono passate da 5 mila a 106.480.
Insomma, quell’aprile 2013 era davvero il frangente per uscire allo scoperto. Perché una legge non ha gambe se non c’è un doppio lavoro: uno dentro le case per far germinare il sindacato e uno fuori approfittando dei cambiamenti della società colombiana. Una rivoluzione gentile infatti vive di alleanze tra donne e poi con ricercatori, giornali e parlamentari, rivolgendosi ai giovani con un linguaggio franco e senza livore: «Spesso i nostri datori di lavoro li chiamiamo ancora patrones», racconta Maria Roa Borja, «anche se li ringraziamo per i vestiti di seconda mano che ci regalano, ora sappiamo che non sono barattabili con i nostri salari. E anche se ci affezioniamo ai loro figli, noi abbiamo i nostri da amare».
È stato anche grazie all’irruzione delle domestiche sulla scena pubblica se il Governo ha sottoscritto la Convenzione internazionale sul lavoro nel 2014. La Corte Costituzionale, in un simile clima, ha riconosciuto il valore aggiunto apportato da queste lavoratrici alla ricchezza delle famiglie dove lavorano, definendo «irrazionale e in violazione del diritto all’eguaglianza» il mancato pagamento della tredicesima.
Detto, fatto. Le parlamentari Ángela Robledo, Angélica Lozano e la senatrice Claudia López, tutte e tre di Alianza Verde, hanno fatto approvare a dicembre, in prima lettura, la legge sulla tredicesima, che da quest’anno (o dal prossimo) verrà pagata metà a giugno e metà a fine anno, una mensilità in proporzione al salario. «Le resistenze ci sono», spiega a pagina99 Angélica Lozano, «dicono che così aumenterà il costo del lavoro e in molte verranno licenziate, c’è chi teme che tutti possano chiedere gli stessi benefici, come i manovali nell’edilizia. Ma stiamo parlando di diritti, non di favori. Il problema è che la nostra è una società permeata di un classismo quasi feudale». Qui l’eredità coloniale è dura da estirpare. «Nella testa di tante persone l’immagine della domestica e quella della schiava si confondono», ripete Maria Roa Borja.
Tuttavia, negli ultimi anni qualcosa nel corpo sociale si è strappato. Nel 2011 il settimanale spagnolo Hola pubblicava un reportage sulle famiglie più ricche di Colombia. In tanti se lo ricordano ancora. Sedute sul divano di una casa lussuosa di Cali, si vedono le donne di quattro generazioni della famiglia Zarzur, a capo di un enorme patrimonio immobiliare e di molte grandi fincas, le tenute agricole della regione. Alle loro spalle, due domestiche nere in grembiule e cappellino bianchi, in mano i vassoi del caffè, si guardano immobili. Nel giro di qualche ora la foto suscitava una tale indignazione nei social network che nessuno poteva nascondere. Accusata di razzismo e di classismo, la matriarca dei Zarzur era costretta a scusarsi.
Nessuno poteva immaginare che quattro anni dopo una domestica-sindacalista avrebbe tenuto una lezione ad Harvard, raccontando la storia sua e quella delle altre, sotto gli occhi compiaciuti di Noam Chomsky. Tesa, sguardo perduto e fogli tremanti, Maria Roa Borja raccoglieva un applauso scrosciante dagli studenti–bene del Centro Rockefeller. Solo a quel punto non ha più trattenuto le lacrime. «Sono solo entrata negli Stati Uniti dalla porta principale, per una volta non come addetta alle pulizie», ha detto tornando a Medellin.
Ora corre da una riunione all’altra, concorda interviste, coinvolge altre donne, incontra parlamentari, avvocati e associazioni. «Mi piacerebbe se diventasse davvero il mio lavoro», sussurra. Perché quello messo in moto da questa donna ha ben pochi precedenti. Camminando verso la metro Tricentenario, tra le case abitate da centinaia di desplazados, Maria Roa Borja si sistema il foulard, apre le braccia e sfodera il suo sorriso: «Abbiamo solo cominciato a parlare di diritti».

Pagina 99, 20 febbraio 2016

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