16.2.18

La ’ndrangheta tradita dalle madri (Danilo Chirico)

Il prete cattolico Pino Demasi, referente di Libera per la piana di Gioia Tauro
Cellula alla base dell’organizzazione, scrigno per custodire le regole, luogo sicuro per progettare e proteggere gli affari, asse attraverso cui trasmettere lo scettro del comando. C’è la famiglia all’origine delle fortune della ’ndrangheta.
«I vincoli familiari», sostiene lo storico Enzo Ciconte, «sono stati la più potente forma di protezione delle cosche calabresi: difficilmente sei disponibile a parlare contro un fratello o un genitore». Non è un caso, allora, se a fronte dei 1.235 pentiti italiani (dati 2015 del Servizio centrale di sicurezza) solo 156 appartengano ai clan calabresi: la metà di Cosa nostra e appena un quarto della camorra.
Sono state queste solide radici familiari, insomma, insieme alla capacità di stare nel potere e nel capitalismo, all’esercizio della violenza e alla scelta di non partecipare alle stragi degli Anni Novanta, a permettere alla ’ndrangheta di costruire la sua dimensione glocal – testa in Calabria, mani nei cinque continenti – e a determinarne l’inarrestabile ascesa.
Eppure oggi, proprio mentre la ’ndrangheta raggiunge il primato mondiale nel traffico della cocaina, il cuore del sistema mostra le prime inattese crepe.
Un’iperbole di ottimismo? Possibile. Ma forse vale la pena riordinare i pezzi di questa macchina perfetta, che inaspettatamente rischia di incepparsi.

I figli della ’ndrangheta
La prima, e forse più importante, spia rossa per i boss è comparsa tra i dati del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria dove è in corso una piccola rivoluzione: dal 2012 a oggi, infatti, il presidente del Tribunale Roberto Di Bella ha emesso 40 decreti di decadenza o limitazione della potestà genitoriale. Significa cioè che 40 ragazzi e ragazze sono stati “tolti” ai genitori 'ndranghetisti e stanno vivendo una nuova vita. Un colpo concreto, e anche di immagine, per i clan.
«Abbiamo dato a questi giovani la possibilità di conoscere un’alternativa e di decidere del loro futuro», racconta il magistrato. Raggiunta la maggiore età, sono loro a scegliere se continuare a vivere liberi o tornare nel clan. Un processo sociale difficile, sul cui esito nessuno può offrire garanzie, ma «finora», rassicura Di Bella, «abbiamo ottenuto risultati importanti anche con situazioni che sembravano impossibili e, da quanto ci risulta, nessuno ha più commesso reati di mafia. Inoltre anche chi è rientrato a casa continua a chiederci sostegno». Una goccia nel mare, forse. O piuttosto un insidioso granello di sabbia dentro un delicato ingranaggio.

Le ragioni delle donne
I primi decreti del Tribunale sono stati emessi quando è diventata più stretta la collaborazione con la procura antimafia «che ci segnala in tempo reale le situazioni familiari di disagio e le contraddizioni su cui provare a intervenire. Ma nel 90/95% dei casi», spiega Di Bella, «è nelle madri che troviamo sponde affidabili: hanno capito che i nostri provvedimenti non hanno una logica punitiva e sono invece a tutela dei ragazzi. Sono loro a chiederci di intervenire e allontanare i figli dai contesti criminali». Naturalmente non si comportano tutte nello stesso modo. «In alcuni casi sono sponde silenziose, di chi non si oppone. Altre volte», aggiunge il magistrato, «vanno via con i figli e cercano anche loro l’occasione per rifarsi una vita».
Sono sempre di più, e sempre più determinate le donne. Per ragioni tutto sommato semplici. «Fanno una considerazione molto semplice: la repressione, gli arresti e la legge sui beni confiscati hanno cambiato la prospettiva», spiega don Pino Demasi, parroco di Polistena (Rc) e referente territoriale di Libera, «e adesso si chiedono quale futuro possono garantire ai propri figli: un tempo lasciavano la ricchezza, adesso quasi nulla. Così hanno capito che il clan non conviene più». Lo conferma il pm della Dda di Reggio Calabria, Stefano Musolino: «Inizialmente la ’ndrangheta ha rappresentato anche un fattore di emancipazione sociale. Le donne sopportavano i sacrifici perché alla scalata criminale del marito corrispondeva la loro crescita economica e sociale. Erano le garanti della stabilità della famiglia perché avevano un obiettivo comune». Non è più così: «Adesso molte famiglie hanno subito conseguenze pesanti dal punto di vista economico e affettivo con lutti o lunghe carcerazioni. Insomma – osserva Musolino – si guadagna poco e si rischia molto».
Ci sono poi scelte personali molto forti, a volte estreme. Come quella della testimone di giustizia di Rosarno Giuseppina Pesce, capace di far condannare i suoi parenti. O di Maria Concetta Cacciola, anche lei rosarnese, indotta a suicidarsi per avere voluto proteggere i figli dalla sua famiglia. Più delicata e controversa la storia di Maria Rita Lo Giudice, la 24enne nipote di un boss pentito che s’è tolta la vita a Reggio Calabria lo scorso aprile. Un fatto senza una spiegazione chiara – e che quindi merita massima cautela e prudenza nei giudizi – che il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho ha commentato così: «Abbiamo perso una ragazza che stava provando a percorrere un cammino diverso perché non abbiamo avuto la sensibilità di comprendere che ci sono mutamenti a cui tutti devono concorrere». Nessuno conosce le ragioni intime della sua scelta, ma è certamente un fatto che ha creato molti interrogativi in città.

Consenso e insofferenza
Lentamente, e in maniera disordinata, le cose stanno cambiando. Non siamo più agli anni Ottanta, quando nel primo maxiprocesso 31 dei 33 sindaci convocati dai magistrati addirittura negarono l’esistenza stessa della ’ndrangheta. Ma non è iniziata nessuna tangibile ribellione civile. Anzi. «Conosciamo però storie particolari, di parentele, frequentazioni, fidanzamenti mafiosi», racconta Stefano Musolino, «che non sono più accettati socialmente come in passato. Non è ancora un fenomeno diffusissimo, ma cominciamo a registrare dei timidi segnali. Soprattutto a Reggio Calabria, molto meno nei paesi della provincia».
Scricchiolii, dentro enormi contraddizioni. Basti pensare alle parole – diventate un caso sul web e riprese dai tg nazionali – pronunciate lo scorso 10 aprile dal colonnello Giancarlo Scafuri, comandante provinciale dell’Arma di Reggio Calabria. Durante il suo intervento alla commemorazione del brigadiere Rosario Iozia ucciso 30 anni fa in Calabria, il carabiniere faceva notare che in certi contesti si fa ancora fatica persino a nominare la parola ’ndrangheta. La strada insomma è ancora molto lunga. C’è paura, c’è disagio, c’è povertà. E in troppi continuano a considerare conveniente chiedere un favore o fare affari con le cosche. Ma i processi sociali non sono mai lineari e, volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, alcune scelte della ’ndrangheta – che non hanno ancora conseguenze apprezzabili – alla lunga potrebbero costare caro. Tra i cittadini hanno destato molto malumore (seppure ancora silenzioso) gli attacchi ripetuti ai servizi – uno scuolabus incendiato a Martone, un attentato contro un (futuro) centro culturale a Caulonia, le fiamme contro l’impianto dei rifiuti a Gioiosa Ionica, i lavori “truccati” nelle scuole di Locri. Lo scorso autunno ha provocato sconcerto, e alcune manifestazioni, l’indegna e abietta violenza sessuale di gruppo contro una bambina di Melito Porto Salvo.
«Certe spavalderie», ragiona Musolino, «non passano più inosservate: lasciano tracce tra le persone e cominciano ad avere conseguenze penali serie». Il riferimento è all’operazione “Eracle” sui condizionamenti (con spaccio, risse, il servizio di security) della movida reggina che pochi giorni fa ha portato a una ventina di arresti. «Diventando più temuta, anche l’attività repressiva può rappresentare un fattore di cambiamento sociale e può servire a far diminuire il mito e il consenso della ’ndrangheta».
Sarebbe tutto più semplice «se ci fosse una risposta dello Stato integrata, capace di unire repressione e politiche sociali e culturali», sottolinea il pm napoletano Francesco Cascini, che ha appena concluso la sua esperienza al vertice del Dipartimento della giustizia minorile. O se, per esempio, il Tribunale per i minorenni di Reggio potesse davvero operare in stretta sinergia con i servizi del territorio. Una cosa banale, eppure impossibile. Infatti «in tutta la provincia su 83 Comuni», denuncia Cascini, «ben 81 non hanno il servizio sociale e anche le politiche socio-sanitarie sono sostanzialmente assenti».

L’ora della sfida
Tuttavia anche se la ’ndrangheta è forte e lo Stato non sempre all’altezza, se la risposta dei cittadini è debole e le compromissioni ancora pesanti, può essere questo il momento di alzare il livello della sfida, di provare a costruire un’antimafia delle opportunità per le ragazze e i ragazzi dei clan o che rischiano di finire tra le grinfie dei clan. Di produrre cioè nuovi granelli di sabbia da immettere nell’ingranaggio mafioso.
«La ’ndrangheta non vive nell’Iperuranio», sostiene lo storico Ciconte, «e come la società subisce processi di trasformazione. Non è più quello di un tempo il senso della famiglia e le cosche non hanno più la compattezza del passato: anche nella ’ndrangheta ci sono poche famiglie molto ricche e tanti che sopravvivono o addirittura poveri. Il sistema che conoscevamo comincia perciò a segnare il passo». Per questa ragione, la principale scommessa dell’antimafia di oggi è «salvare i figli», sottolinea don Demasi: «Bisogna trovare il modo di avvicinarli sin da piccoli, entrare nelle famiglie, cominciare a seminare. E farli partecipare a un gioco in cui le regole le dettiamo noi e non più loro». Si tratta di una strategia «che forse non funzionerà per i figli dei boss», sostiene, «ma che è fondamentale per i figli dei cosiddetti manovali».
Insomma sarà anche vero che la strada resta in salita e non è saggio farsi facili illusioni, sarà anche vero che la 'ndrangheta globale «si muove ormai a livelli altissimi nell’economia, nella finanza, in borsa con la la droga», sottolinea il pm Musolino, «ma la sua forza sta ancora nella capacità di tornare alle origini. E se, poco per volta, dovesse perdere davvero la solidità della famiglia, se dovesse perdere l’aggancio con il territorio e le radici... magari...». Magari l’iperbole di ottimismo potrebbe diventare pratica della realtà. E, chissà, la macchina perfetta incepparsi davvero.
Twitter: @danilo_chirico


Pagina 99, 26 maggio 2017

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