24.2.18

Il mio Hemingway personale (Gabriel Garcia Màrquez)

Ernest Hemingway

Lo riconobbi subito: stava passeggiando con sua moglie, Mary Welsh, lungo il Boulevard Saint Michel, a Parigi, un giorno della piovosa primavera del 1957. Camminava sul marciapiede opposto, in direzione del Giardino del Lussemburgo; portava un paio di pantaloni da cowboy piuttosto sciupati, una camicia a quadri e un berretto da giocatore di pelota. La sola cosa che non sembrava appartenergli erano gli occhiali dalla montatura metallica, piccoli e rotondi, che gli conferivano un’aria da nonno prematuro. Aveva compiuto 59 anni; era enorme, eccessivamente visibile, ma non dava un’impressione di forza brutale come lui avrebbe senza dubbio desiderato, perché aveva i fianchi stretti e le gambe un po’ gracili. Appariva così vivo, tra le bancarelle di libri usati e il torrente giovanile della Sorbona, che nessuno avrebbe mai potuto supporre che appena quattro anni dopo sarebbe morto.
Per una frazione di secondo mi trovai lacerato — come sempre mi è accaduto — tra le mie due attività rivali: non sapevo se chiedergli un’intervista o attraversare semplicemente la strada per esprimergli la mia
Gabriel Garcia marquez
incondizionata ammirazione. Sia per l’uno che per l’altro proposito, dovevo confrontarmi con lo stesso grave ostacolo: io parlavo allora lo stesso inglese rudimentale che ho continuato a parlare in seguito, e non ero troppo sicuro del suo spagnolo da torero. Così non feci nessuna delle due cose che avrebbero rischiato di rovinare quell’istante, e misi invece le mani intorno alla bocca a mo’ di corno, come Tarzan nella foresta, gridando da un marciapiede all’altro: «Maeeestro!». Ernest Hemingway si rese conto che tra la folla degli studenti non poteva esserci un altro maestro e si voltò, sollevando una mano e gridando in castigliano, con un tono un po’ puerile: «Adios, amigo!». È stata l’unica volta che l’ho visto.

Faulkner e Cartier-Bresson
Io ero allora un giornalista di ventotto anni, che aveva pubblicato un romanzo e aveva ottenuto un premio letterario in Colombia; ma a Parigi mi ero incagliato e non avevo idee precise sulla rotta da seguire. I miei due principali maestri erano i due scrittori nordamericani che in apparenza avevano tra loro poco o nulla in comune. Avevo letto tutto ciò che essi avevano scritto fino a quel momento, ma non come letture complementari, al contrario, come due modi diversi e quasi esclusivi di concepire la letteratura. Uno era William Faulkner, che non ho mai avuto occasione di vedere; posso soltanto immaginarmelo come l’uomo in maniche di camicia che si strofina il braccio, dando le spalle a due cagnolini bianchi, nel celebre ritratto di Cartier-Bresson. L’altro era quell’uomo effimero che mi aveva appena gridato «Adios» dal marciapiedi di fronte, lasciandomi l’impressione che nella mia vita fosse accaduto qualcosa: ed era accaduto per sempre.
Qualcuno ha detto che noi scrittori leggiamo libri degli altri solo per renderci conto di come sono scritti. Credo che sia proprio così. Non ci accontentiamo dei segreti che troviamo sulla pagina, la guardiamo al rovescio per decifrarne le cuciture. In un modo che è impossibile spiegare, smontiamo il libro nelle sue componenti essenziali per poi rimontarlo quando ormai conosciamo i misteri della sua personale orologeria. I libri di Faulkner si prestano male a questi tentativi, giacché questo autore non sembrava possedere un sistema organico di scrittura: procedeva alla cieca nel suo universo biblico, come un branco di capre lasciate libere in una cristalleria. Quando si riesce a smontare una pagina di Faulkner si ha l’impressione di trovarsi qualche molla e qualche vite di troppo e di essere nell’impossibilità di riportarla allo stato originale.
Hemingway invece, pur essendo meno ispirato, meno appassionato e meno pazzo, con un lucido rigore lascia in vista tutte le viti, come nei vagoni ferroviari. Forse per questo Faulkner è uno scrittore che ha avuto molto a che fare con la mia anima, mentre Hemingway è quello che più ha avuto a che fare con la mia professione: non soltanto a causa dei suoi libri, ma soprattutto a causa della sua straordinaria conoscenza dell’aspetto artigianale della scienza dello scrivere.
Nella storica intervista da lui concessa al giornalista Georges Plimpton per la “Paris Review” insegnò una volta per tutte — in contrasto con il concetto romantico della creazione — che la tranquillità economica e la buona salute sono estremamente utili per scrivere; che una delle maggiori difficoltà è quella di organizzare bene le parole; che è bene rileggere i propri libri quando si fatica a scrivere, per ricordarsi che è stato sempre difficile; che si può scrivere dovunque purché non ci siano visite né telefonate e che il giornalismo non distrugge necessariamente uno scrittore, come è stato detto tante volte: è precisamente il contrario — a condizione che lo si abbandoni in tempo. «Una volta che lo scrivere si sia trasformato nel principale vizio e nel maggior piacere», disse, «solo la morte può mettervi fine». Ci ha fatto scoprire, inoltre, che il lavoro quotidiano deve essere interrotto soltanto quando si sa come ricominciare il giorno dopo. Non credo che sia mai stato dato un consiglio più utile per chi scrive. Questo è, né più né meno, il rimedio sicuro contro lo spettro che gli scrittori temono maggiormente: l’agonia mattutina davanti alla pagina bianca.
Nell’opera di Hemingway si avverte un respiro geniale ma di breve durata. Ed è comprensibile. Una tensione interiore come la sua, sottoposta a un dominio tecnico così severo, sarebbe insostenibile nell’ambito vasto e rischioso di un romanzo. Era questa la sua condizione personale, ed egli ha commesso l’errore di voler superare i suoi splendidi limiti. Ecco perché il superfluo si nota in lui più che in altri scrittori. I suoi romanzi sembrano racconti fuori misura, contengono troppe cose in più. Al contrario, la qualità migliore dei suoi racconti è che danno l’impressione che manchi qualcosa — ed è precisamente questa la ragione del loro mistero e della loro bellezza. Jorge Luis Borges, che è uno dei grandi scrittori del nostro tempo, ha gli stessi limiti, ma ha avuto l'intelligenza di non cercare di superarli.
Un solo sparo di Francis Macomber contro il leone è istruttivo quanto una lezione di caccia, ma è anche istruttivo quanto un riassunto della scienza dello scrivere. In uno dei suoi racconti Hemingway ha scritto che un toro di Lidia, dopo aver sfiorato il petto del torero, si rivoltò «come un gatto che svicola lungo una cantonata». Credo, in tutta umiltà, che questa osservazione sia una delle geniali sciocchezze che si possono concedere solo gli scrittori più lucidi. L’opera di Hemingway è piena di trovate del genere, semplici e abbaglianti, che dimostrano fino a qual punto egli sia restato fedele alla propria definizione della scrittura letteraria: «come un iceberg, essa si regge soltanto quando è sostenuta sott’acqua da sette ottavi del suo volume».
Questa consapevolezza «tecnica» sarà senza dubbio la ragione per cui Hemingway passerà alla gloria non per uno dei suoi romanzi, ma per i suoi racconti più asciutti. Parlando di Per chi suona la campana lo scrittore ha detto di non aver fatto in anticipo un piano del libro; lo ha inventato giorno per giorno, man mano che lo andava scrivendo. Non c’era bisogno che ce lo dicesse: è evidente.
Viceversa, i suoi racconti di ispirazione istantanea sono invulnerabili. Come quei tre che scrisse il pomeriggio di un 16 maggio in una pensione di Madrid, quando a causa di una nevicata venne annullata la corrida della festa di San Isidro. Si trattava — come Hemingway stesso ha detto a George Plimpton — de Gli assassini, Dieci indiani e Oggi è venerdì; tre racconti magistrali.

Critiche feroci
Da questo punto di vista, secondo me, il racconto nel quale meglio si condensano le sue virtù è uno dei più brevi: Un gatto sotto la pioggia. E tuttavia — anche se può apparire uno scherzo del destino — mi pare che la sua opera più bella e più umana sia la meno riuscita: Al di là del fiume e tra gli alberi. Come lo stesso Hemingway ha rivelato, all’inizio si trattava di un racconto, che poi si sviò nella foresta del romanzo. È difficile concepire tante manchevolezze strutturali, tanti errori di meccanica letteraria da parte di un tecnico così sapiente, dialoghi così artificiali e così artificiosi da parte di quello che è uno dei più brillanti creatori di dialoghi di tutta la storia della letteratura. Quando il libro venne pubblicato, nel 1950, la critica fu feroce perché non era giusta. Hemingway si sentì ferito dove più gli faceva male e si difese dall’Avana con un telegramma passionale, che non sembra degno di un autore della sua statura. Non solo quello era il suo miglior romanzo, era anche il più suo, perché era stato scritto agli albori di un autunno incerto, con le nostalgie irreparabili degli anni vissuti e la premonizione nostalgica dei pochi anni che gli restavano da vivere. In nessuno dei suoi libri egli ha lasciato tanto di se stesso, né è riuscito a plasmare con tanta bellezza e tenerezza il senso essenziale della sua opera e della sua vita, vale a dire l’inutilità della vittoria. La morte del suo personaggio, in apparenza così serena e naturale, è la prefigurazione in cifra del suo suicidio.
Quando si convive per tanto tempo con l’opera di uno scrittore, e in un modo così intenso ed intimo, si finisce inevitabilmente per mescolare la sua finzione con la sua realtà. Ho trascorso molte ore di molti giorni leggendo in quello stesso caffè della Place de Saint Michel in cui Hemingway amava scrivere perché lo trovava caldo, pulito e accogliente; e ho sempre sperato di incontrarvi la ragazza che egli vide entrare un pomeriggio di vento gelido, bellissima e diafana, con i capelli tagliati in diagonale come un’ala di corvo. «Sei mia e Parigi è mia», egli scrisse per lei, con quell’inesorabile potere di appropriazione che emana dai suoi libri. Tutto ciò che Hemingway ha descritto, ogni istante che è stato suo, continua ad appartenergli per sempre. Non posso passare davanti al numero 12 di rue de l’Odèon, a Parigi, senza vederlo mentre conversa con Sylvia Beach in una libreria che non è ormai più quella, cercando di guadagnare tempo per arrivare alle sei di sera e vedere se per caso arrivi James Joyce. Nelle praterie del Kenya si impadroniva con una sola occhiata di bufali e di leoni, oltre che dei segreti più intricati dell’arte della caccia. Si impossessava di toreri e di pugili, di artisti e di pistoleri, che sono esistiti per un solo istante: quello in cui gli sono appartenuti. L’Italia, la Spagna, Cuba, mezzo mondo è pieno di luoghi dei quali Hemingway è diventato padrone col solo menzionarli. A Cojimar, un piccolo villaggio vicino all’Avana dove viveva il pescatore solitario de Il vecchio e il mare, hanno costruito un tempietto per commemorare il libro con un busto di Hemingway verniciato d’oro. Alla Finca Vigia, il rifugio cubano dove lo scrittore visse fino a pochissimo tempo prima della morte, la casa è intatta tra gli alberi ombrosi, con i suoi libri dei generi più diversi, i suoi trofei di caccia, il leggìo su cui scriveva, le innumerevoli cianfrusaglie che gli sono appartenute fino alla morte e che continuano a vivere senza di lui, con l’anima che egli vi ha infuso grazie alla sola magìa del suo dominio.
Alcuni anni fa sono salito sull’ automobile di Fidel Castro — che è un tenace lettore di romanzi — e ho visto sul sedile un piccolo libro rilegato in cuoio rosso. «È il maestro Hemingway», mi ha detto Castro. In realtà, Hemingway continua a stare dove meno uno se lo immagina — vent’anni dopo la sua morte — così persistente e al tempo stesso così effimero, come quella mattina, che forse era di maggio, in cui mi disse «Adios, amigo» dal marciapiede opposto del Boulevard Saint Michel.

la Repubblica, 2 agosto 1981 (Copyright Gabriel Garcìa Marquez, 1981)

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