23.2.18

Che cosa sia e a qual fine si studi la letteratura tedesca (Cesare Cases)


Cesare Cases concluse la sua carriera di professore universitario il 16 maggio 1990 a Torino, tenendo lezione a un pubblico vasto e attento. Il testo fu pubblicato il mese successivo su “linea d'ombra” onde ne ho ripreso un ampio stralcio. (S.L.L.)

Queste manifestazioni sono sempre un po’ equivoche perché pretendono di essere un’“ultima lezione” (e io ho scrupolosamente ingannato i miei studenti presentandogliela in questo modo), mentre in realtà assomigliano al canto 46 dell'Ariosto. Giunto in porto dopo lunga anche se poco perigliosa navigazione, il docente universitario vede una quantità di vecchi conoscenti che lo festeggiano allineati sulla riva e li riconosce uno a uno, esclamando come l’Ariosto: “Oh di che belle e sagge donne veggio,/ oh di che cavallieri il lito adorno./ Oh di che amici, a chi in eterno deggio/ per la letizia ch’han del mio ritorno!”. Non starò a elencare le dame e i cavallieri che riconosco tra gli astanti, ma qualcuno devo pure menzionarlo, e ricordare anzitutto che molti che oggi qui riveggo hanno assistito anche alla partenza della nave, cioè alla mia prolusione accademica a Pavia il 12 marzo 1968.
Prolusione memorabile per più di una ragione. Fu quasi certamente l’ultima prolusione accademica tenuta in una facoltà umanistica per molti anni. La rivolta studentesca imperversava dappertutto e di lì a pochi giorni doveva estendersi anche a Pavia. Ma in quel momento Pavia era ancora un’oasi di tranquillità e mi ricordo che un giovane collega, il grecista Diego Lanza, mi raccontò come a Milano non volessero credere che lui doveva recarsi a Pavia allo scopo di assistere a una cerimonia che sembrava appartenere a un passato irrecuperabile. La mia navicella, che presto doveva affrontare la tempesta, cominciò a muoversi in una situazione di eccezionale bonaccia, addirittura sotto il segno del ritorno al patrio suolo. Milanese, tornavo dalle mie parti dopo molti anni di assenza e pochi giorni prima di me aveva tenuto la sua prolusione l’italianista Dante Isella, che era stato presentato dall’ottima preside, la latinista Enrica Malcovati, con particolare fervore perché, come ella sottolineò, aveva entrambi i genitori lombardi. Di me non poteva dire altrettanto, avendo io una madre piemontese, e poi essendo germanista ero troppo compromesso con il Barbarossa per salire sul carroccio della lega lombarda. Ma ebbi ugualmente l’abbraccio della Preside che mi legò al collo una medaglia dell’ uni versità di Pavia. La prolusione fu poi del tutto degna della sua eccezionalità. Parlai dei rapporti tra Lichtenberg e Volta nell’aula voltiana, una bellissima aula neoclassica in cui il grande scienziato aveva tenuto le sue lezioni. Mi ero preparato bene sull’argomento e per quanto talvolta il piede forcuto mi uscisse da sotto la toga accademica, in complesso sembravo degno di portarla.
Sarebbe stata però una vittoria contro la natura, che forse non mi predestinava alla carriera accademica e che secondo Orazio ritorna anche quando si tenta di espellerla con il forcone. Nelle severe aule pavesi avrei dovuto consacrarmi interamente alla scienza. Così non fu. Portato più verso l’insegnamento che verso la ricerca, quei pochi studenti della Facoltà di Lettere che seguivano i corsi di tedesco mi intimidivano più che stimolarmi e con il movimento studentesco, per cui provavo simpatia, avevo rapporti quasi esclusivamente politici. Per questa e per altre ragioni accettai volentieri la proposta, che risaliva al compianto Sergio Lupi prima della sua morte precoce ed era caldeggiata dal preside Quazza e da altri amici, di passare a Torino alla Facoltà di Magistero, allora frequentata da moltissimi studenti di lingue (rarefattisi negli ultimi anni per una di quelle misteriose ragioni che regolano le variazioni di afflusso alle nostre università) e imperniata sulla didattica, grazie all’apertura verso le esigenze dei discenti voluta dal preside e incarnata dalle allora assistenti e ora colleghe Ursula Isselstein e Anna Chiarloni, separate poi dalle vicende accademiche (in quanto la Chiarloni passò alla Facoltà di Lettere) ma riunite qui sulla proda dell’aula 39 a celebrare quelli che Mallarmé chiama i tristi addii dei fazzoletti insieme ad altre valorose collaboratrici che mi hanno assistito e spesso totalmente surrogato in questi vent’anni sia nell’insegnamento linguistico che in quello letterario: Renata Buzzo Margari, Consolina Viglierò, Grete Buchgeher Coda. Né si limitano a sventolare fazzoletti, poiché, grazie soprattutto all’attività di curatrici delle due prime, mi hanno fatto trovare all’approdo un volume a me dedicato che contiene un’antologia della lirica tedesca del Novecento con interpretazioni di eminenti colleghi molti dei quali sono qui presenti: un analogo dunque del volume sul romanzo del Novecento curato da Baioni, Bevilacqua, Magris e me per i settant’anni di Ladislao Mittner. Di questo volume, e delle molte fatiche durate per prepararlo, mi è grato ringraziarle qui pubblicamente, così come dell’idea di avermi voluto festeggiare con un libro destinato non a pochi intendenti, ma a molti discenti, grazie anche all’appendice di Ursula Isselstein che è un primo tentativo di trattazione dei problemi della metrica tedesca a uso degli studenti italiani. Non posso quindi che rallegrarmi di aver trovato a Torino, sia come collaboratori che come studenti di Magistero, pochi o punti cavalieri e molte di quelle belle e sagge donne che l'Ariosto prediligeva.
Il nome appena rammentato di Ladislao Mittner mi richiama al dovere, cui ottemperò non l’Ariosto, sibbene Goethe, almeno per accenni, nella “Dedica” del Faust, forse ispirata a quel canto ariostesco, di ricordare dopo la fine della navigazione i nomi di coloro che l’hanno favorita senza poter essere qui tra noi: Mittner anzitutto, il maestro di tutta una generazione di germanisti; il mio maestro personale Carlo Griinanger; Alessandro Pellegrini, mio predecessore a Pavia; Sergio Lupi, maestro dei colleghi di lettere Claudio Magris e Luigi Forte e delle colleghe torinesi; ma soprattutto i giovani amici che per età e virtù avrebbero avuto tutti i diritti di lasciarsi molto addietro la navicella della mia vita se la loro non fosse stata travolta da un destino crudele. Penso a Mazzino Montinari, a Giorgio Sichel, a Furio Jesi, a Ferruccio Masini e ad altri immaturamente scomparsi. Il compassato tono accademico con cui li evoco serve a celare la commozione che mi afferra al loro ricordo.
È questa del resto talvolta la funzione della screditata toga accademica e del non meno screditato tono paludato, poiché contrariamente alle opinioni correnti anche i professori sono spesso esseri umani. Più difficile mi riesce celare il piede biforcuto passando a trattare l’argomento annunciato, poiché già il titolo tradisce visibilmente l’ironia. La tradisce doppiamente: nella forma, poiché l’insigne germanista genovese Giovanni Angelo Alfero, rendendo in italiano il titolo della prolusione tenuta da Schiller all’Università di Jena Was heisst und zu welchem Ende studiert man Universalgeschichte? con Che cosa sia e a qual fine si studi storia universale, non solo manteneva l’omissione dell'articolo, normale in tedesco ma a mio parere illegittima in italiano, ma usava quel congiuntivo latineggiante nell’intitolazione che sembra difficilmente sopportabile perfino a un passatista come me. Del resto l’esempio più celebre di questo uso resta il famoso volumetto Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia di Ruggero Bonghi, di cui si disse che dava la risposta già nel titolo, grazie appunto a quel congiuntivo sentito già come obsoleto in quel tempo (1855). Ma l’ironia sta anche nel titolo che presuppone certezze scientihche e didattiche in cui oggi stenteremmo assai a sperare. Schiller tenne le due conferenze, poi riunite in una, il 26 e il 27 maggio 1789, dunque quasi esattamente 201 anni fa. Non c’è bisogno di ricordare quale avvenimento fosse alle porte, tale da segnare l’inizio di un nuovo capitolo della storia universale, anche se oggi si pretende che ne andrebbe espunto come quello che sarebbe servito da freno anziché da stimolo al progresso civile.
Schiller non poteva prevedere tale avvenimento, ma certo il suo discorso è pervaso da un pathos ottimistico che accetta pienamente le più sfrenate speranze illuministiche, tanto che ripubblicando la prolusione nel 1792, cioè nello stesso anno in cui “le Sieur Gilles” (come veniva chiamato nel documento) era stato nominato cittadino onorario della Repubblica Francese, egli dovette attenuare qualche espressione. Per esempio là dove si legge: “La società statale europea sembra tramutata in una grande famiglia. Gli inquilini possono essere nemici gli uni degli altri, ma, speriamolo, non possono più dilaniarsi”, lo speriamolo è un’aggiunta. Oppure quando si parla della pace religiosa instaurata da Carlo V e rotta dalla guerra dei Trent’anni, si dice che “una nuova pace generale (cioè quella di Westfalia) dovette ristabilirla per secoli”, ma nella prima edizione si diceva imprudentemente “per l’eternità”. Già i secoli erano abbastanza inverosimili, ma qui, con la constatazione che Schiller era un inguaribile ottimista storico, possiamo abbandonarlo al sub destino di storico, che non fu facile, perché fu subito contestato da un preesistente ordinario di storia e costretto a chiamarsi professore di filosofia pur continuando a insegnare storia. I frutti di questo insegnamento furono due libri sulla storia della rivolta dei Paesi Bassi e sulla guerra dei trent’anni di cui Niebuhr si chiedeva come si potessero seriamente chiamare opere di storia e che in effetti oggi servono soltanto a commentare i drammi che Schiller scrisse su questi sfondi storici. Resta il fatto che Niebuhr, storico scientifico, era poco leggibile, e quindi volendo si potrebbe fare una digressione, valida anche per la storia letteraria, sul conflitto tra storia come scienza e storia come narrazione, recentemente indagato per le nostre discipline in un libro di Remo Ceserani, intitolato appunto Raccontare la letteratura.
Ma più interessa allo scopo dichiarato di definire, per quanto umanamente possibile di questi tempi, l’essenza o lo spirito della letteratura tedesca, la prima parte dello scritto schilleriano, in cui ancora non si parlava di storia ma solo dell'atteggiamento che il nuovo professore richiedeva dagli studenti di fronte agli studi, e che poteva essere quello del “dotto di professione (come Alfero traduce la più vigorosa parola tedesca Brotgelehrte, “dotto che pensa al pane”) ovvero quello della “mente filosofica” (philosophischer Kopf). Il primo, afferma Schiller, al suo ingresso nella carriera accademica non trova cosa più importante che distinguere accuratamente quelle scienze che egli definisce professionali da tutte le altre che dilettano lo spirito soltanto come spirito. Tutto il tempo che egli dedicasse a queste ultime, riterrebbe di sottrarlo al suo mestiere avvenire e non potrebbe mai perdonarsi questa sottrazione.” “Uomo degno di compassione — esclama poi Schiller —, che col più nobile di tutti gli strumenti, con la scienza e con l’arte, non vuole e non opera cosa più alta di quella che il bracciante compie con lo strumento più modesto.” “Come diversamente — prosegue il nostro pensatore—stanno le cose per la mente filosofica! Con la stessa cura con cui il professionista del sapere scinde là sua scienza da tutte le rimanenti, egli cerca invece di estenderne il campo e di ristabilire il vincolo di questo con tutti gli altri campi — ristabilire, dico, poiché soltanto l’intelletto che astrae ha posto quei limiti, ha separato l’una dall’altra quelle scienze.”

“Linea d'ombra”, giugno 1990

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