22.2.18

A Manfredonia. Ester Carla De Miro D’Ajeta racconta il piccolo Lucio Dalla


Non si sa bene per quali «affinità elettive» alcuni individui, anche se conosciuti nell’infanzia, lasciano in noi un ricordo indelebile, che ci accompagna lungo la vita. Così è stato per Lucio Dalla, che conobbi bambina e che ritrovai nel film dei Taviani Sovversivi, che rividi ad un concerto di beneficenza organizzato da mio padre per la Croce Rossa, e per il quale Lucio non volle essere pagato. E ancora, nel tempo, le sue canzoni mi riportavano la sua voce sempre più matura e spericolata, fino a trovare alcuni anni fa una cassetta con le sue canzoni più belle in casa di un’amica a Fetije, un’isola sperduta a sud della Turchia.
E qui, sulla copertina, c’era una foto di Lucio bambino con sua madre Jole Melotti e un’amichetta, seduti al tavolo di legno in un bar sul lungomare di Manfredonia. Sull’altro lato, sempre Manfredonia, ma questa volta era l’immagine dell’Arena Pesante, il cinema all’aperto dove imperversavano i film d'amore americani, che aiutavano la gente a tirarsi fuori dall’atmosfera cupa del dopoguerra... Difficile descrivere lo choc tra quelle immagini e le pozze d’acqua turchese di quell’altro mare!
E da questo tuffo nel passato è nato un racconto sull’adolescenza di Lucio, che all’età dello sviluppo si ricoprì di peli irsuti perché - racconta egli stesso -sua madre gli aveva fatto fare una cura per farlo diventare più alto! Si dice che le donne siano più degli uomini custodi delle memorie, e in effetti confesso che questo passato è rimasto sempre vivo nella mia mente, sotteso ad una narrazione che sfocia nella fantasia ma rimane ancorata a un sentimento forte. Tanto che conservo ancora un soprabito confezionato dalla signora Jole per mia madre con l’etichetta che porta scrìtto, sotto le due torri: «Melotti -Bologna».
Quando quest’estate è venuto a trovarmi in Puglia l’amico fotografo torinese Alberto Spadafora, nel mostrargli le bellezze del Gargano, l’ho portato anche a vedere la casa dove Lucio veniva in vacanza con sua madre, a Manfredonia, e lui ha fotografato il portoncino con accanto ciò che resta dell’ormai distrutto cinema all’aperto.

«L'unica notte che si ricordi, 
ha detto qualcuno,
è quella della veglia, 
la notte passata in bianco.
Non si ha memoria delle notti di sonno.
Così è l'amore:
il più indimenticabile
è quello che non è mai esistito»
(Héctor Abbad Faciolince)

Lo vedeva scintillare a ritmo di musica e lasciare delle scie luminose, lì, alla sua destra, tra le mani di quel ragazzino taciturno che sulla pista da ballo si trasformava: era un cilindro da uomo interamente coperto di paillettes dorate su cui si riflettevano le luci multicolori del dancing estivo dove ogni tanto davano anche feste per bambini. Il ragazzino aveva uno smoking anch'esso intessuto di paillettes, identico al cilindro, che gli dava l'aria di un piccolo uomo, minuto, aggraziato, agile e sorridente, un Bing Crosby in miniatura. I suoi capelli castani, schiariti dal sole dell'estate, lanciavano bagliori simili a quelli dell'abito sotto la luce artificiale. Sotto il ciuffo però, gli occhi scuri e la bocca sottile sul volto olivastro gli davano un'espressione adulta e penetrante.
Al confronto, lei si sentiva goffa nell'abitino di popeline azzurro con i ricami a nido d'ape, il collettino smerlato da educanda e i calzini bianchi dentro le scarpe di vernice nera. Si sentiva impacciata mentre cercava di cantare ed imitare i movimenti sciolti e spigliati degli altri due. Sì, perché a destra di Lucio c'era Marisa, la ragazzina del nord che viveva come lui a Bologna e sapeva a memoria tutte le canzoni. In più era intonata, snella e non andava mai fuori tempo, come invece accadeva a lei. Aveva provato tante volte a ripetere tra sé e sé: «Marieta monta in gondoa, che mi te porto al lido,,.», ma non era mai come lo dicevano gli altri due. Benché avesse chiare in mente le loro voci, la loro esatta pronuncia, le venivano fuori altri suoni, scorretti, stonati, diversi. Tuttavia per nulla al mondo avrebbe rinunciato a cantare e ballare con quei due, perché, nei rari momenti in cui riusciva ad entrare in sintonia con loro, provava una splendida sensazione. Era come far parte di un unico suono, di un unico movimento sinergico, di uno slancio che annullava il confine tra i corpi e si riverberava su di lei. Si sentiva improvvisamente leggera, felice, al di sopra e al di là di tutto. In quei momenti si dimenticava di sé, lo sguardo seguiva i movimenti del cilindro abbandonandosi alle scie luminose delle paillettes, come quando, al mare, ad occhi socchiusi, si lasciava ipnotizzare dai riflessi del sole sull'acqua. Più tardi, molti anni più tardi, in un'isola sperduta dello Yucatan, le avrebbero detto che quel piacere aveva un nome: el duende, una sintonia col mondo, un'ubriacatura di musica e di colori che le sarebbe stato molto difficile ritrovare poi. Ballare e cantare insieme, come in certi film americani, era un gioco speciale, che soltanto Lucio e Marisa erano capaci di fare, anche se finiva sempre troppo presto, prima che lei avesse imparato bene i passi, prima che potesse ottenere da Lucio un segno di approvazione, uno sguardo d'intesa. Del resto, sapeva bene che l'altra era più brava, più carina, più desiderabile, con quel nasino all'insù e i riccioli neri. Sapeva che Lucio guardava sempre verso di lei, alla sua destra, E anche lei guardava a destra, verso di lui: si accontentava di stare assieme a loro, di scaldarsi al calore della loro sintonia, ma segretamente sperava che l'aria sdegnosa e altezzosa di Marisa avrebbe spinto Lucio a guardare altrove.
Le tre madri seguivano il gioco sedute al bordo della rotonda, su sedie di legno che traballavano affondate nella ghiaia. Due di loro erano amiche d'infanzia che si ritrovavano ogni estate, da quando una si era trasferita a Bologna dopo il matrimonio. Parlavano con rimpianto della vita spensierata di quand'erano adolescenti, e guardavano orgogliose i figli sulla pista, soprattutto Jole, la madre di Lucio, che adorava quell'unico figlio e gli aveva confezionato personalmente lo smoking e il cilindro, Jole era una sarta di classe e due volte l'anno portava in provincia gli abiti alla moda da vendere alle signore della buona società. Una volta aveva persino organizzato una sfilata nel miglior albergo della città, con un'indossatrice settentrionale che avanzava altera e trasognata tra due ali di signore, sulle note di Blue Moon. Le aveva fatto molto effetto l'ingresso, dal buio in fondo alla sala, di quella donna alta e ieratica che indossava un lungo abito «da pomeriggio» di velluto color rubino i cui lembi l'avevano sfiorata al passaggio, mentre, seduta accanto a sua madre, guardava i capi della cintura - che non capiva perché finissero con due fiocchi dorati come quelli delle tende - rimbalzare mollemente, languidamente, sulle lunghe gambe dell'indossatrice. Un passo, una musica, una visione che le avevano portato l'alito di un mondo sconosciuto e lontano, forse irraggiungibile, dove nel pomeriggio le signore si facevano belle e seducenti, invece di sgridare i bambini e preparare la cena.
Ad ogni stagione la signora Jole arrivava nel grande albergo con tanti bauli e con la Cicci, la sartina in grado di «mettere a misura» gli abiti per le signore che non avevano certo taglie da indossatrice. La Cicci, bionda e formosa, era praticamente una nana, alta come una bambina, ma con le forme procaci di una donna. La sua statura era un vantaggio però quando si trattava di appuntare gli orli delle gonne, quasi sempre troppo lunghe. Portava scarpe con la suola ortopedica e per cucire si arrampicava su un alto sgabello che le permetteva di arrivare dignitosamente all'altezza del tavolo su cui posava il lavoro. Cantava spesso, con un accento inconfondibilmente bolognese, le ultime canzoni alla moda,
Lucio non accompagnava la madre in queste trasferte di stagione. Veniva solo d'estate, per andare al mare. La Cicci era invece sempre presente, saltellante e cinguettante, capace non si sa come di far entrare negli abiti anche i più mastodontici fianchi di provincia. Le grandi pupille azzurre, un po' sporgenti, guardavano tutto, calcolavano velocemente le misure, le mani tozze con le unghie laccate rosso scuro scucivano, tiravano fuori il tessuto dai posti più reconditi, imbastivano, ricucivano, stiravano con rapidità, mentre la voce un po' chioccia diceva cose gentili, con le esse che scivolavano golosamente nella zeta. La Cicci era indispensabile per la signora Jole, che poteva così dedicarsi completamente alla conversazione con le clienti. Queste si confidavano volentieri con lei perché era una donna affidabile ed esperta della vita, complice per natura e professione, comprensiva e discreta come era raro trovare in provincia. La sua unica debolezza era il figlio, al centro dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni. Si crucciava perché era basso e non cresceva, perché parlava poco, e poi perché negli ultimi tempi disertava la scuola per chiudersi in camera a suonare: sax, pianoforte, batteria, qualsiasi strumento, ma non i libri e la scuola.
La ragazzina ascoltava in silenzio questi racconti, mentre sua madre cambiava abiti e cappelli. Avrebbe voluto abbandonare anche lei la scuola, come Lucio, e pensava con rammarico che a lei non sarebbe mai stato permesso. Provava anche un certo sollievo al pensiero che lui passasse il tempo a far musica invece che a giocare e divertirsi con Marisa, anche lei a Bologna durante l'anno scolastico.
Era primavera inoltrata, dalla finestra aperta della stanza d'albergo si vedevano sfrecciare le rondini e le loro strida annunciavano ravvicinarsi dell'estate, quella divina alchimia di sole e di mare che l'avrebbe liberata dal peso dell'inverno e della scuola. Sua madre, dopo molte esitazioni, scelse un abito vaporoso di organdis bianco a pois blu, con una larga gonna a volant, da indossare al dancing nelle sere d'estate, Lei avrebbe voluto essere grande per poterne averne uno altrettanto bello, da mettere quando Lucio sarebbe tornato.
Ma quell'estate la signora Jole non venne al mare, e neanche l'anno dopo.
A volte, passando davanti al portoncino della casa che erano soliti prendere in affitto, lei guardava le persiane chiuse delle finestre e si chiedeva se sarebbero tornati un giorno. Il mare era lì, a pochi passi, lo stabilimento con le cabine in fila, la sabbia fine, il frinire ossessivo delle cicale tra i pini del lungomare, i ragazzini che giocavano a pallone per strada. Tutto era come ogni estate, salvo la piccola casa al primo piano accanto all'Arena - l'unico cinema all'aperto - che sembrava un volto con le palpebre chiuse intorno al vuoto, muta e silenziosa, forse per sempre.
Quando sua nonna le dava i soldi per il gelato, certi pomeriggi dopo la calura, correva a comprarlo dall'uomo col carrettino che era sempre piazzato sul marciapiede del castello, di fronte all'Arena. E, mentre aspettava che lui riempisse la forma rettangolare con un'ostia, poi col gelato e un'altra ostia ancora a formare un piccolo sandwich, non poteva far a meno di guardare in su, quasi di nascosto, nella speranza di vedere una di quelle finestre finalmente aperta.
Intanto il tempo passava, lei cresceva, tutti le dicevano che era ormai una signorinella. Persino le gambe, prima grassocce, si stavano snellendo e allungando.
Certo, non si sentiva bella, per quei foruncoli che ogni tanto le spuntavano sul viso, per i capelli ricci e indomabili che sua madre voleva biondi e che, quando erano in disordine le davano l'aria, diceva suo padre, di una «spigatola». Ma i ragazzi la guardavano per strada, o, peggio, con la tipica brutalità meridionale, provavano a metterle le mani addosso, Lei tornava da scuola coi libri o andava a lezione di danza classica con le scarpette dalla punta di gesso in un sacchetto di tela, e alla fine aveva imparato ad usare questi oggetti come armi improprie contro gli aggressori. Ma, anche se riusciva a difendersi, questi episodi la facevano ugualmente soffrire, perché avrebbe voluto vagare tranquillamente per le strade, conoscerne i tragitti, esplorare la città, soffermarsi a guardare la gente e le cose senza essere disturbata. Invece era costretta a camminare sempre in fretta, saltando da un marciapiede all'altro come in una corsa ad ostacoli, per evitare i gruppi di ragazzi che la spaventavano con sguardi, parole e gesti aggressivi.
Spesso si guardava alto specchio: la vita era sempre più sottile, il seno stava spuntando lentamente. Di profilo e con i capelli raccolti dimostrava più dei dodici anni che aveva. La danza aveva reso i suoi gesti e i suoi movimenti più flessuosi. Ma ciò che più le piaceva in quell'attività era preparare il saggio di fine d'anno: disegnare i costumi, scegliere le stoffe e i colori, collaborare alle scene, organizzare la successione dei vari «numeri», alternando i balletti ai pezzi recitati, e alla fine presentare il tutto al pubblico, per provare la sensazione esaltante di quella tensione, quel cortocircuito tra chi si esibisce e chi sta a guardare, che, quando uno spettacolo riesce, si instaura, come un respiro trattenuto, molto prima che esplodano gli applausi.
Era sempre il vecchio gioco che tornava, anche se in altra forma, questa volta forse con più consapevolezza e più soddisfazione,
A tredici anni era un'altra persona, più alta di sua madre, slanciata, col viso affilato dallo sforzo di crescere.
Le avevano persino affidato il ruolo di prima ballerina in un balletto: una stracciona che doveva essere maltrattata da tutti, ricca solo della sua bellezza e della sua dolcezza. Per la prima volta era stata felice, quando, al centro del gruppo, aveva ricevutogli applausi del pubblico, anche se si trattava solo di genitori e parenti.
Ma a casa aveva trovato una brutta sorpresa: suo padre aveva deciso di toglierla dalla scuola di danza, perché aveva ormai fattezze di donna e secondo lui era scandaloso mostrarle in palcoscenico. Dopo tanti sforzi per migliorare, dopo tante energie impiegate che avevano dato il loro risultato, le speranze erano condannate a finire, e le restava soltanto il grigiore dei professori e della scuola. Pianse a dirotto, come si piange a tredici anni per un dolore cocente, ma suo padre fu irremovibile.
Era il mese di giugno e dopo poco la famiglia si trasferì al mare. Lei cercava di dimenticare quella delusione lasciandosi ubriacare dal sole, fissando lungamente i riflessi sul mare e giocando con i ragazzi e le ragazze che aveva conosciuto sulla spiaggia. Saltavano uno dopo l'altro alla cavallina lungo il bagnasciuga, e le sembrava impossibile essere diventata così agile. Mettere le mani sulla schiena del compagno di turno e sorvolarlo con una perfetta spaccata le sembrava un miracolo che voleva si ripetesse all'infinito. Era in quella strana stagione dell'adolescenza in cui voleva diventare donna ma entrava anche in competizione con i maschi che, approfittando della sua fragilità, volevano sopraffarla. Avendo la stessa età, non accettava la differenza, voleva anche per sé la loro forza e la loro libertà, e non si rassegnava al ruolo di femminuccia, in cui intuiva un odore di sconfitta.
Ma qualcuno riferì in famiglia le sue prodezze in riva al mare, e incominciarono i divieti e le proibizioni: era immorale che una ragazza facesse certi giochi con i maschi sotto gli occhi di tutti. Doveva stare seduta sotto l'ombrellone e non allontanarsi dallo sguardo vigile di sua madre, doveva occuparsi delle sorelle più piccole e rifiutare gli inviti dei compagni.
Costretta ad accettare tutto questo, meditava vendette sottili: un pomeriggio decise di farsi un costume a due pezzi, che suo padre non le avrebbe mai comprato, per indossarlo quando lui non scendeva in spiaggia. Certo, prima o poi l'avrebbe scoperta, ma finché non se ne fosse accorto, avrebbe potuto fare di testa sua. Mentre era intenta a cucire, la raggiunse la voce di sua madre: «È tornata la signora Jole. Domani andiamo a trovarla».
Salendo i pochi gradini che portavano al primo piano, lei moriva dalla voglia di sapere se avrebbe rivisto anche Lucio. Sulla porta le accolse la deci, sorridente, espansiva, tutta moine e cinguettìi. La stanza da pranzo era quasi buia, per le persiane ancora chiuse contro l'afa del pomeriggio inoltrato. Al centro del tavolo, un piatto con una grande anguria rossa tagliata a fette diceva che il pranzo era da poco finito. La signora Jole era venuta in vacanza, ma aveva portato per poche clienti dei capi autunnali che stava sistemando sulle stampelle. Dopo i primi convenevoli, la sua attenzione fu attratta dalla trasformazione della ragazzina. E subito volle farle provare un abito da grande. Era una «princesse» a pied-de-poule bianco e nero, con la gonna stretta e una sottile cintura di pelle rossa. Lei non aveva mai indossato un abito come quello. Le stava d'incanto, senza neanche il bisogno di un ritocco. «Sarebbe perfetto per il primo giorno di scuola - disse la signora Jole - visto che il prossimo autunno andrai al ginnasio». Ed aggiunse: «Vai, vai sul terrazzo a farti ammirare da Lucio. Gli farà piacere. Non vi vedete da tanto tempo!»
Improvvisamente lei si sentì di nuovo goffa e impacciata. Ma poi pensò che non era più come prima, che avrebbe potuto parlargli del suo successo e del suo disinganno - lui l'avrebbe capita - e soprattutto che questa volta non c'era Marisa a farla sfigurare. Si diresse verso le persiane socchiuse e le scostò con circospezione: Lucio era di spalle, in pantaloncini corti, di fronte alla balaustra del terrazzo, assorto a guardare il mare che occhieggiava tra i pini. Sentendo il rumore delle persiane, si girò verso di lei. Ma lei non lo riconobbe: vide una specie di orango venirle incontro. Un pelo folto e scuro gli ricopriva tutto il corpo, le gambe e le braccia, tanto da farlo assomigliare a un gorilla. Lei rimase scioccata, non riusciva a credere che fosse lo stesso ragazzo che tre anni prima le piaceva tanto.
«Ciao, come stai?» disse timidamente.
«Ciao» rispose Lucio, che aveva colto il disagio di lei e ne era a sua volta imbarazzato.
La guardò come da una grande lontananza, con la rassegnazione di chi sta dall'altra parte di una barriera invisibile, e si girò di nuovo a guardare il mare.
Lei rimase ferma per un attimo, senza saper cosa fare. Avrebbe voluto subito cancellare quel momento, rimangiarsi lo sguardo stupito che non aveva saputo controllare, inventarsi un'indifferenza che non aveva avuto, né prima, né sul momento, né dopo. Ma non era possibile tornare indietro e vivere in un altro modo qualcosa che era ormai avvenuto, cancellare la delusione e l'angoscia che ancora la tenevano stretta. E il dolore che - ne era sicura - gli aveva provocato solo con uno sguardo. Allora, mortificata, rientrò nella stanza e richiuse le persiane dietro di sé.
Tornando a casa con sua madre, lungo il mare che nel frattempo era diventato grigio spento, come nei suoi incubi notturni, lei ripensava ai divieti che l'avevano fatta piangere. Ne sentiva ancor più la stupidità, l'inutilità e l'ingiustizia, di fronte al vero, pungente, incancellabile dolore che quel giorno le aveva riservato la vita.

Alias - il manifesto 17 marzo 2012

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