5.2.18

1907, la strage di Monongah. In miniera l'ecatombe degli italiani (Mario Calabresi)

Il 6 dicembre 1907 
un'esplosione nei cunicoli della Fairmont Coal Company 
uccise centinaia di persone. 
Almeno 171 erano immigrati dal nostro Paese


MONONGAH (West Virginia)
Erano le dieci e trenta del mattino del 6 dicembre 1907, quando la miniera di carbone e ardesia di Monongah saltò in aria. In quel momento c'erano dentro quasi mille persone, moltissimi italiani. Sopravvissero in cinque. Fu il più grande disastro minerario d'America. E d'Italia, visto che i nostri emigranti pagarono un prezzo superiore addirittura a Marcinelle. Cento anni dopo, siamo tornati in West Virginia per ritrovare la memoria di una tragedia rimasta senza un perché.
La Storia è passata di qui cento anni fa e ha lasciato il suo segno su un ripido pendio erboso. Il cimitero non ha un recinto, le lapidi sono messe nella terra senza un ordine, sono sparse come fossero state gettate a caso. Nella pancia della collina sono sepolti molti più uomini di quanti non si possa immaginare contando le pietre tombali: in un solo giorno le fu chiesto di accoglierne cinquecento, forse mille. Era il 6 dicembre del 1907. A Monongah, piccolo paesino tra i boschi dei monti Appalachi, abitavano 3.000 persone, vivevano per la miniera della Fairmont Coal Company.
Estraevano carbone e ardesia. Ci lavoravano grandi e piccoli. Ogni uomo regolarmente assunto e con il bottone di ottone, che riportava la sua matricola, appuntato sul petto portava con se almeno due aiutanti, erano adolescenti o bambini, la loro discesa sotto terra non era registrata da nessuna parte. Pochissimi furono riconosciuti. Arrampicandoci sul crinale ne troviamo uno: "Qui è che giace Giuseppe Colarusso, in Santa Pace volò in grembo di Dio, nella tenera età di anni 10. Suo fratello Michele pose".
Gli adulti guadagnavano 10 centesimi l'ora, i ragazzini ricevevano una mancia legata alla quantità di carbone che portavano in superficie. Vivevano in baracche di legno ricoperte di carta catramata, in dieci per stanza, pagando anche dieci dollari al mese, metà dello stipendio.
Quel venerdì mattina alle 10 e 30 una scintilla incendiò il grisou, il gas che riempiva le gallerie, non si è mai saputo perché e le inchieste non hanno trovato responsabili. L'esplosione fu terribile e si propagò per centinaia di metri dalla galleria otto alla sei. Sopravvissero in cinque, per gli altri non ci fu scampo. Il boato si sentì a trenta chilometri di distanza. Ci vollero molti giorni per recuperare i corpi, che erano carbonizzati e sfigurati, in gran parte irriconoscibili.
Venne allestita una camera mortuaria nella sede della banca, un luogo di cui nessuno si fidava tanto che i morti avevano i risparmi arrotolati nella cintura. Quando fu piena si cominciò ad allineare i cadaveri sul corso principale. Una folla di madri, vedove e orfani vagava alla ricerca di qualche segno di riconoscimento. Le scarpe, una giacca, i segni della barba. Alla fine soltanto 362 ebbero un nome e il diritto alla lapide. Gli altri ebbero sepoltura comune, o rimasero sotto il carbone.
Su sei vagoni ferroviari arrivarono 500 casse di legno. Il sindacato dei minatori disse che tanti erano state le vittime, i giornali arrivarono a parlare di mille morti. Di certo ci furono 250 vedove e un migliaio di orfani. La moglie di Carmine Ferrario era incinta di due mesi quando la minierà crollò, sulla lapide fece scrivere: "A Carmine nato a Vacri Chieti, vittima del disastro di Monongah, la moglie desolata pose". Otto mesi dopo fece aggiungere: "Il figlio Carmine di mesi uno seguì il padre nella tomba il 9 agosto 1908". La pietra si era spezzata esattamente a metà, oggi l'hanno aggiustata e padre e figlio sono tornati insieme.
Fu il più grande disastro minerario della storia americana. E di quella italiana. 171 dei morti riconosciuti erano emigrati dal nostro Paese. Più che a Marcinelle, in Belgio dove nel disastro del 1956 morirono 136 italiani. Ben 87 venivano dal Molise, poi dalla Calabria, dall'Abruzzo e dalla Campania. Ce lo raccontano le lapidi. Scritte in italiano, piene di errori, piene di disperazione: "A riposo di Cosimo Meo del fu Donato e di Filomena Paolucci, morto di 20 anno nel disastro di Monongah nella miniera N 8, nato ha Frosolone di Campobasso lascia sua madre".
Gente povera, semianalfabeta, sfruttata. Solo l'anno precedente erano arrivavati ad Ellis Island, la porta d'ingresso per l'America, più di 300mila emigranti dall'Italia. Dalla baia di New York li portavano qui per soddisfare il bisogno di carbone e legname del boom industriale americano. La compagnia anticipava i 15 dollari del viaggio, che poi avrebbe trattenuto dalle paghe settimanali.
Erano giovanissimi e vivevano quasi da reclusi come racconta il direttore dei Quaderni sulle Migrazioni, Norberto Lombardi, nel libro Monongah 1907, una tragedia dimenticata, che il Ministero degli Esteri ha pubblicato questa settimana. I campi di lavoro erano controllati da guardie armate, non si poteva evadere, se non prima di aver pagato tutti i debiti. Anche il cibo si comprava allo spaccio della compagnia mineraria che tratteneva la spesa dallo stipendio. Così erano sempre sotto scorta, tanto che circolava una battuta: "Gli emigranti italiani fanno parte tutti della famiglia Reale".
Di loro per molto tempo si era persa la memoria. Le lapidi erano ridotte in uno stato pietoso, spezzate, semicoperte dalla terra che con la pioggia smotta ogni inverno verso la strada, ma questa estate sono state recuperate e ripulite: dopo anni di incuria e dimenticanza il governo italiano ha spedito 100mila dollari per i lavori.
La storia è passata di qui e poi se ne è andata con la fine della miniera. Oggi tra queste colline boscose abitano meno persone dei morti di quella mattina di cento anni fa. Non sono diventati ricchi, ce lo raccontano le casette bianche ad un piano in finto legno, le automobili datate, la merce nei negozi. La storia ha lasciato non solo la West Virginia ma tutta questa parte d'America, le acciaierie di Pittsburgh hanno spento gli altiforni, il periodo d'oro cominciato con Andrew Carnegie, l'uomo che pagò per le sepolture, è finito da un pezzo e il declino non ha risparmiato nessuno. La miniera ha segnato la storia anche perché da quel momento cominciò la discussione per mettere nuove regole, la richiesta di sicurezza. Ma la strage dei minatori continuò, l'anno dopo, mese dopo mese, in decine di incidenti morirono in 700. In un secolo rimasero sotto terra 20mila persone solo in questo Stato, e gli ultimi 14, poco lontano da qui, li hanno persi lo scorso anno.
Ma la memoria è rimasta. "Come sarebbe possibile dimenticare, ogni famiglia ha un antenato che era nella miniera quel giorno. Il bisnonno di mio marito si salvò perché doveva scendere il turno dopo": Diane Masters, caschetto biondo, è la proprietaria del piccolo ristorante Diary Kone. Più una gelateria fast food che un ristorante, ma i suoi sei tavoli sono un'istituzione in paese. Ci sono dal 1960, lei lo ha preso tre anni fa: "Gli affari vanno bene, anche perché ho convinto il vecchio proprietario a vendermi con il locale anche la ricetta segreta per la salsa degli hotdog". È una specie di ragù leggermente piccante. "Ma il vero campione della memoria è stato il reverendo". Everett Francis Briggs è morto lo scorso anno, era nato due anni dopo la tragedia, era cresciuto ascoltando la storia dell'esplosione che uccise italiani, polacchi, irlandesi, russi e slovacchi e si è battuto perché non si dimenticasse.
Nel cinquantesimo anniversario ha aperto una casa di riposo per anziani intitolata a Santa Barbara, la protettrice dei minatori. Oggi ci vivono 57 vecchi non autosufficenti della zona. La dirige suor Mary, che non ha molto tempo da perdere, sotto il braccio ha un fascio di cartelle cliniche, ma con la mano libera con tre gesti secchi ci indica la statua della santa patrona ("Sotto sono incisi i nomi di tutti i caduti"), il ritratto di un ragazzino minatore ("È originale e mostra che sotto terra andavano anche i bambini") e la targa che ricorda il reverendo. Poi apre la porta del suo ufficio e ci congeda: "Buona fortuna". Nella sua struttura ci sono persone che hanno combattuto nella Seconda Guerra Mondiale e per loro ha messo l'adesivo sul vetro all'ingresso: "Se ami la libertà ringrazia un veterano". Anche il cimitero è costellato di bandierine a stelle e strisce, perché tra le tombe dei minatori ci sono anche quelle dei reduci delle Guerre Mondiali, della Corea e del Vietnam. Aveva 98 anni quando se n'è andato, non potrà vedere la campana regalata dal Molise, nata nella fornace della Fonderia Pontificia Marinelli di Agnone, suonare domani mattina. I ragazzi della scuola media, che ha come mascotte un leoncino, sono pronti. A turno, ad ogni rintocco della campana, leggeranno i nomi dei morti. Sul muro della scuola hanno attaccato uno striscione dipinto a mano su un lenzuolo bianco: "Noi ricordiamo".
Oltre il fiume West Fork, sui cui lati stavano le due gallerie della miniera, c'è la città vecchia, da allora non si è mai ripresa. Il ponte è dedicato a padre Briggs, sopra ci sono gli striscioni della regione Molise, scritti in due lingue. Accanto all'ufficio del sindaco e dello sceriffo, di fronte Blumberg building del 1911, dove oggi c'è il "Dark Side Karaoke", c'è la statua dell'"Eroina di Monongah", una donna con il fazzoletto in testa, un figlio in braccio e l'altro per mano: "In memoria delle mogli vedove e della madri delle vittime della miniera".
Una di queste si chiamava Caterina Davia, perse il marito e due figli, ma i loro corpi non vennero mai trovati. Ogni giorno, per quasi trent'anni, tornò all'ingresso delle gallerie per portare via un sacco di carbone che poi svuotava nel suo giardino. Diede vita ad una collina, "la collina di carbone", che arrivò a sommergerle la casa. Diceva che lo faceva per togliere loro un po' di peso. E per dare un senso alla sua follia.


“la Repubblica”, 5 dicembre 2007

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