14.1.18

Storia di parole. Divano (Alessandro Varoli)

Divano in stile Luigi XV
Occidente, Nord e Sud
a pezzi, troni in briciole,
regni in bilico. Fuggi nel puro
Oriente, assaggia
l’aria dei Patriarchi!
Fra canti, amore e vini
ritornerai ragazzo
nella fonte di Chiser.
Laggiù, nella purezza,
nel giusto, io voglio immergermi
negli abissi all’origine
della specie degli uomini...

Era il 1819 e Goethe era ormai anziano; anziano in un modo straordinario però. Inseguiva l’oriente da tempo, nella letteratura religiosa come nella poesia persiana, ma gli riuscì di evitare l’orientalismo. Cosa non facile per quei tempi. «Orientaleggiare lo trovo assai pericoloso» scrisse in una letera. Con grandissima eleganza non si lasciò sedurre dal facile fascino di esotismi erotici o di colori e profumi stravaganti. Il suo oriente divenne una raccolta di poesie che testimoniaiva eccezionale volontà e capacità di rinnovamento. In quei versi attinse alle più varie esperienze di vita e di cultura. C’era un’idea grandiosa in tutto questo, l’idea di «riunificare», come ha fatto Dio all’inizio dei tempi, «tutte le cose separate da sempre». Costringere, disse lui, a rispondersi la vita e la lingua, a rimare gli opposti, a trasparire il buio nella luce e la luce nel buio, a echeggiare l’uno dentro l’altro fenomeni estranei e nemici, a ricomporsi il mondo frantumato. Chiamò tutte questo Westöstlicher Divan, Divano occidentale orientale, utilizzando un termine che gli era ormai caro, perché indicava la raccolta poetica completa, il canzoniere, dei poeti arabi e persiani. Quell’idea di riunificazione, inseguita dal poeta tedesco, riecheggiava in effetti anche nel titolo, nella parola stessa. Perché il divano, a suo modo, è proprio ciò che raduna: poesie, uomini e persino decisioni politiche. A patto di intendersi, naturalmente.
I linguisti ne hanno discusso parecchio, ma con ogni probabilità la parola risuonò originariamente in persiano, divàn, col significato di lista, inventario o ruolo.Con l’avvento dell’islam, la parola passò subito in arabo: diwan (ﺩﻳﻮﺍﻥ), modificando solo leggermente la pronuncia dato che l’arabo non possiede la v e spesso tende a sostituirla con la u. Probabilmente fu già sotto il califfo ‘Umar nel 641, che la parola trovò il suo primo significato politico, definendosi come diwan al-jund. Si trattava di un elenco comprendente i nomadi arabi che avevano partecipato alle prime conquiste (jund indicava l’esercito). Il califfo aveva incaricato tre esperti per stabilire la loro esatta genealogia, in che misura fossero legati alla famiglia del Profeta, e dunque a quanto ammontasse ciò che spettava loro per i servizi resi in guerra.
Ma la principale preoccupazione di ogni stato che si rispetti è soprattutto riscuotere le tasse; quindi non stupisce che di lì a poco il più importante elenco, il più importante diwan, diventasse quello. A quel punto la parola indicava già l’organizzazione burocratica, il gruppo di persone incaricato di gestire, in questo caso, la riscossione. Ci volle poco perché, dalla metà dell’VIII secolo, la dinastia degli Abbasidi perfezionasse ulteriormente questa istituzione. Di diwan i nuovi califfi ne svilupparono parecchi; o meglio, con lo stesso termine si indicarono diverse funzioni dell’apparato governativo. In primo luogo la cancelleria vera e propria, una specie di segreteria di stato, poi le esattorie; infine l’organo che si occupava dell’arruolamento e del pagamento dell’esercito. In questo senso amministrativo la parola si legò da subito con una delle più alte cariche dello stato, il wazìr (da una radice che vuol dire «prendere su di sé», «farsi carico»), titolo originariamente attribuito ai segretari e agli scrivani della cerchia più intima del califfo. Poi, dal IX secolo un wazìr divenne il capo effettivo dell’amministrazione califfale e da quel momento la sua importanza aumentò a dismisura. Il wazìr insomma divenne sempre più chiaramente il capo di uno o più diwan.
Fu in questo periodo e attraverso questo significato di ufficio amministrativo ed esattoria, che la parola comincio a viaggiare al di là dei confini del mondo islamico. Quando nell’XI secolo i normanni conquistarono la Sicilia musulmana conservarono e adattarono gran parte delle abitudini e delle istituzioni già consolidate sull’isola. Ruggero II costruì un regno centralizzato, il cui cuore era Palermo e più precisamente il Palazzo dei normanni: in esso avevano sede la cancelleria, i comandi militari e un vero ministero, che ne 1133 fu affidato all’ammiraglio (dall’arabo al-amìr, «emiro», cioè «governatore») Giorgio di Antiochia. Tale struttura amministrativa era divisa in più uffici fiscali e politici. Il più importante, la dohana, prendeva ovviamente il nome dall’arabo diwan, era gestito da un consiglio di funzionari normanni e arabi e custodiva i registri dove erano riportati, in greco e in arabo, i confini dei feudi, i nomi dei contadini e i redditi delle tasse. La nostra dogana, è abbastanza evidente, viene da lì.
Raccogliere dati, stilare elenchi. La parola diwan fini presto, per analogia, per indicare altri tipi di raccolte. Soprattutto un tipo: le raccolte poetiche.
I filologi arabi di epoca abbaside cominciarono a raccogliere la poesia preislamica sopravvissuta attraverso tradizioni orali E chiamarono queste raccolte diwan. Non poteva essere diversamente: in fondo la poesia era e avrebbe continuato a essere l’arte più amata del mondo islamico. Ancora di più, la poesia è sempre stata considerata il diwan al-arab, il registro delle tradizioni degli arabi, una risorsa in tempi di dolore e di felicità, un’espressione degli ideali culturali e delle più elevate aspirazioni del popolo arabo. Una cosa pubblica insomma; anche una cosa politica in un certo senso: perché la poesia legittima il potere, stigmatizza i tiranni, offre senso e identità e contribuisce a condividere valori sociali.
Uno dei modi preferiti per ordinare i poemi raccolti era l’ordine alfabetico basato sulle rime finali. Un altro modo di identificazione, invece, considerava l’inizio del poema. Un esempio tra i più famosi è la muàllaqa, una delle poesie preislamiche, di Imru' I-Qays, una delle poesie che tutti i bambini arabi hanno incontrato a scuola e che comincia col famoso incipit: «Fermatevi entrambi, e piangiamo» (qifà nabki). Quei primi secoli della storia di islam hanno prodotto alcuni diwan, di poeti a dir poco classici e celebrati.
Il poeta maledetto Abù Nuwàs (m. 815), amante del vino e (stando almeno ai racconti delle Mille e una notte che lo vedono protagonista) compagno di avventure notturne del califfo Hàrùn al-Rashid. Oppure il poeta per eccellenza, il più celebrato, al-Mutanabbi (m. 965).
Lo stesso avvenne, ovviamente nel mondo islamico persiano, a cominciare dal grande Shamsoddin Mohammad, detto Hàfez (m. 1390), il cui divàn (da scriversi secondo la pronuncia persiana questa volta) secoli dopo avrebbe ispirato così profondamente Goethe:

Vieni, Coppiere! E quel vino che l’estasi porta,
aumenta nobiltà e perfezione ci dona
donami, che follia molta m’ha preso d’amore
e d’ambo le cose nulla ho avuto di buono.
Vieni, Coppiere! E quel vino che alla coppa di Giam
dona l’ardir di parlare di visioni nel Nulla
donami, sì che io divengo in grazia alla Coppa
Come Giamscid accorto di tutti i segreti del mondo.
Vieni, Coppiere! E quella alchimia conquistatrice,
che sa combinare gli anni di Noè coi tesori di Core,
donami, a che ti s'apra ancora sul volto
la porta del successo e della lunga vita.

A metà del XV secolo, l’oriente mediterraneo divenne in buona parte turco: gli eserciti della dinastia ottomana dilagarono dai Balcani sino all’Africa settentrionale. Governo e apparati amministrativi, pur con molte novità, si forgiarono sulle tradizioni politiche islamiche precedenti, e così pure il divano, ovviamente.
I pochi fortunati ammessi all’interno del Topkapi l’avrebbero fisicamente visto, il divan (che in turco suonava esattamente come in persiano). Il Topkapi, la residenza del sultano collocata sulla punta estrema dell’antica Costantinopoli, assomigliava più a un accampamento che a un palazzo.
I padiglioni tutti diversi, i suoi maestosi giardini, le sue stanze sontuose: era come se quegli antichi nomadi delle steppe avessero voluto fissare nella pietra e nella terra la loro idea di bellezza e di felicità. Ma il Topkapi era anche una cittadella che doveva riprodurre nella sua topografia il senso stesso del potere: ogni porta dava accesso a un cortile più privato, più vicino, fisicamente e idealmente, al sultano.
La sala del divan si trovava nel secondo cortile del palazzo, sul lato sinistro rispetto all’entrata. Fu costruito a metà del XVI secolo, all’epoca di Solimano il Magnifico, e costituiva la sede del governo. Dal punto di vista teorico, per la parola non era cambiato molto: col termine divan gli ottomani designavano il consiglio formato dai principali responsabili dello stato. Normalmente il sultano non vi partecipava, ma il controllo del divan da parte sua rimaneva costante: l’edificio stesso era provvisto di una finestrella, chiusa con una grata, al di là della quale il signore poteva vedere e sentire di nascosto.
Il divan ottomano si riuniva quattro mattine a settimana, da sabato al martedì, e sostanzialmente funzionava come una corte di giustizia suprema, preso la quale i sudditi o le comunità potevano presentare petizioni o impugnare sentenze. Ma questa istituzione era anche un consiglio di governo in cui si discutevano gli affari importanti. A presiederlo era il gran vizir, assieme ad altri vizir, ai controllori delle finanze, ai cosiddetti giudici dell’armata e altri dignitari. Anche questo termine, vizir, modificava ben poco della sua pronuncia e del suo significato rispetto all’arabo wazìr. semplicemente vi era una moltiplicazione di ruoli. I vizir rimanevano gli amministratori, e alla loro testa era posto un gran vizir (vezir-i a‘zam) che rappresentava la seconda figura dello stato dopo il sovrano e che gestiva l’amministrazione, sovraintendendo all’applicazione della politica stabilita dal sultano. Un potere enorme, insomma, ma che aveva i suoi correttivi. Se la potenza e le ambizioni dei gran vizir diventavano eccessive, il sultano estirpava la minaccia facendoli giustiziare. Capitò ad esempio a Ibrahim Pascia, l’amico di gioventù e l’amato di Solimano il Magnifico. Da gran vizir governò per quasi dieci anni con sicurezza e grandi capacità... cose di cui amava vantarsi non poco con gli emissari stranieri, a quanto pare: era il 5 marzo 1536, quando di prima mattina, nella sua stanza, fu afferrato e strangolato. E dire che dormiva a palazzo, proprio accanto alla stanza del sultano.
Questo potere e questi intrighi colpivano non poco gli europei di passaggio a Costantinopoli. Fu con loro che queste parole giunsero nuovamente nei territori cristiani, legandosi questa volta alle tante turcherie che agitavano l’immaginario europeo. Raccontarono del Bascià (sic) che ogni giorno dava una «audienza che si chiamava divan»; parlarono del «serraglio che era il divano del sultano». Inoltre spiegarono che questo luogo era chiamato divano, perché in un certo senso era il divano per eccellenza, dato che tutti lì si sedevano. E qui occorre una spiegazione. Perché le due cose, il consiglio e la seduta, andavano assieme già da un pezzo tra i turchi. Nell’impero ottomano, infatti, la parola divan aveva trovato anche una sua dimensione più domestica e modesta. Le case turche, quelle ricche almeno, erano per la maggior parte dotate di una sala di ricevimento. Lungo le pareti di quella sala correva un panchetto coperto da tappeti e cuscini; un panchetto che in turco si chiamava sofa e da cui sarebbe giunto ovviamente il nostro sofà. Il sofà rappresentava la parte sopraelevata della stanza e le panche a esso accostate erano appunto il divan, ci si sedeva a gambe incrociate dopo essersi tolti le scarpe.
Il resto della storia è noto. Ci volle poco perché questi usi esotici entrassero in Europa. Ottomana, sofà e divano divennero per un po’ quasi sinonimi. Più precisamente la prima grande diffusione avvenne nella Francia di Luigi XV, in pieno XVIII secolo, quando il termine divan prese a indicare una lunga panchetta con fiancate o braccioli. Era epoca di neoclassicismo e quella seduta aveva il pregio di richiamare molto l’oriente e parecchio anche il triclinio romano.
Un quadro famoso di Wilhelm Tischbein ritrae Goethe assorto nella campagna romana (1787). Una posa e un abbigliamento che a guardarli oggi appaiono forse un po’ troppo stravaganti, ma che ai tempi evocavano il Grand Tour, la riscoperta della classicità e le profonde riflessioni sul destino delle opere umane. Goethe se ne sta assiso su alcune rovine, seduto come fosse su un divano; una posa che cent’anni prima sarebbe stata difficilmente pensabile. Lui era troppo giovane, ai tempi di quel ritratto, per trarne ulteriori conseguenze, ma un po’ stupisce per quante vie il destino possa legarci alla storia di una parola.


Da Storia di parole arabe, Ponte alle Grazie-Salani, Milano, 2016

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