2.1.18

Archivio Italia. 3 ottobre 1911: quel giorno invademmo la Libia (Wladimiro Settimelli)

Wladimiro Settimelli, morto qualche settimana fa, per “l'Unità” curò spesso pagine di rievocazione storica. Nell'agosto 1986 gli fu affidata una rubrica estiva dal titolo Archivio Italia, donde ho ripreso – anche per ricordare la figura di un giornalista cui sono grato soprattutto per le accuratissime inchieste sui misteri dell'Italia repubblicana - la rapida (e vivida) narrazione che segue, della guerra di Libia e dell'occupazione coloniale italiana. Erano gli anni in cui il colonnello Gheddafi, dittatore in Libia, intensificava la sua denuncia dei crimini italiani, reali o presunti, e in cui due bombe libiche dimostrative erano state lanciate al largo di Lampedusa. (S.L.L.)

È IL 2 OTTOBRE del 1911 quando la torpediniera italiana «Albatros», attracca alla dogana di Tripoli. Pochi istanti dopo, scende a terra un ufficiale italiano che consegna agli allibiti funzionari accorsi al porto, una lettera del vice ammiraglio Thaon di Ravel. È una intimazione di resa alla Libia e una richiesta al governo della «Sublime porta» (il governo turco veniva chiamato così) di farsi da parte, pena il bombardamento della città. Al largo, sulla linea dell’orizzonte, c’è già una parte della poderosa flotta italiana in attesa: si tratta delle navi da guerra «Benedetto Brin», «Emanuele Filiberto», «Garibaldi», «Roma», «Napoli», «Ferruccio», «Coatit», «Re Umberto», «Sicilia», «Sardegna», «Carlo Alberto» e «Varese». L’Italia — dice il messaggio di Thaon di Revel — si considera ufficialmente in guerra con la Turchia, dal 29 settembre precedente. È, in pratica, una decisione unilaterale. Le autorità di Tripoli respingono l’ultimatum e, il 3 ottobre, alle 15,30 esatte, le navi aprono il fuoco sul forte della città a malapena difeso da qualche vecchio cannone a corta gittata.
L’eco di quelle cannonate si fa udire ancora oggi con gli insulti e le minacce di Gheddafi e con quei due missili lanciati contro Lampedusa. Perché occupammo la Libia e che cosa volevamo farne? Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, tornato al potere nel marzo del 1911, aveva evidentemente ascoltato le voci preoccupate della grande borghesia italiana e in parte del mondo cattolico che protestavano contro il «far nulla del nostro paese». Era in piena espansione, in quegli anni in tutta Europa, il colonialismo e la ricerca, ad ogni costo, di paesi poveri da sfruttare e «civilizzare». Francia, Inghilterra, Germania e Olanda, continuavano ad espandere i loro possedimenti e a conquistare intere zone dell’Africa. E noi? Una «proprietà» lungo il Mediterraneo, dicevano ì fautori del colonialismo, avrebbe risolto i problemi tutti italiani della disoccupazione e fermato la grande migrazione dei poveri verso le Americhe. Insomma, ci saremmo arricchiti anche se a spese degli altri. Nacque, così, il mito della «quarta sponda», al quale i socialisti rispondevano gridando che quel paese non era altro che uno «scatolone di sabbia» senza valore.
Sorsero così polemiche e scontri politici anche all’interno dello stesso movimento socialista. Giustino Fortunato, il grande meridionalista, non era affatto contrario all’impresa che «forse avrebbe risolto i nostri mali». La stampa cattolica, nazionalista e liberale sosteneva che la Libia doveva essere occupata e Giovanni Pascoli scriveva la famosa frase: «La Grande Proletaria delle nazioni è scesa in campo».
D’Annunzio e Corredini non erano da meno. I sindacati, quando già si parlava di sbarco, avevano proclamato, da Bologna, un primo sciopero generale che non aveva riscosso gran successo. Pietro Nenni e Benito Mussolini (allora socialista) erano, tra l’altro, finiti in carcere per aver tentato di impedire ai richiamati di giungere ai distretti. Scontri e manifestazioni pro o contro la guerra libica, si erano susseguite, un po’ ovunque, per giorni e giorni. Poi quelle prime cannonate, mentre ancora i giornali scrivevano che la «Tripolitania era ricca» e altri rispondevano «che non lo era, ma che le braccia italiane avrebbero fatto miracoli».
I primi giorni a Tripoli (dopo la grandinata di proiettili di cannoni, c’era stato lo sbarco dei marinai italiani) tutto era andato per il meglio. I comandanti avevano promesso ai locali che sarebbero stati rispettati la loro religione, i loro averi e loro diritti, ed era finita lì. Intanto in Italia, al canto di «Tripoli bel suol d’amore», veniva imbarcato, diretto in Libia, un grande corpo di spedizione composto di bersaglieri, fanti, artiglieri e aviatori, comandati dal generale Carlo Caneva. Neanche la comparsa del colera in alcune province italiane ritardò quelle operazioni. Se l’occupazione di Tripoli da parte dei marinai era avvenuta senza gravi scontri, le cose cambiarono radicalmente all’arrivo della fanteria. Arabi e truppe turche attaccarono più volte le posizioni italiane e vi furono massacri atroci, dall’una parte e dall’altra. L’11° reggimento bersaglieri fu quasi completamente distrutto e i poveri soldati evirati e torturati. Gli italiani, a loro volta impiccarono, fucilarono e incendiarono interi villaggi. Fu soltanto il preludio di quello che sarebbe accaduto in seguito. L’occupazione italiana, infatti, non riuscì mai ad andare oltre certe zone costiere. Il «nemico libico» (un milione di abitanti, 80.000 chilometri quadrati di culture e un povertà agghiacciante, prima della scoperta del petrolio) dava prova di inusitato coraggio e attaccamento alla propria indipendenza. Fra un trattato e l’altro, uno scontro e quello seguente, si giunse alla prima guerra mondiale e poi all’avvento del fascismo: fu il periodo più terribile. I patrioti libici organizzarono una vera e propria guerra partigiana e l'Italia di Mussolini rispose con terrificanti bombardamenti, l’uso dei gas, e le fucilazioni di massa dopo processi sommari.
Così, fu passato per le armi l’eroe libico e combattente per la Senussia e l’indipendenza, Omar el Muktar. Organizzammo poi veri e propri campi di concentramento (niente a cne vedere con quelli nazisti) come quello famoso di El Agheila. Morirono così centinaia di migliaia di persone e intere popolazioni furono ridotte alla fame con i trasferimenti forzati ordinati da Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio. E vero: costruimmo, in cambio, qualche strada, qualche scuola e alcune aziende modello. Nel 1956 pagammo i «debiti di guerra» a re Idris. Certo, con i soldi non restituimmo la vita ai martiri e agli impiccati. Ma Gheddafi non ha comunque diritto di confondere l’Italia repubblicana nata dalla Resistenza con l’Italia di Mussolini, Graziani e Badoglio.

"l'Unità", 10 agosto 1986

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