30.1.18

A San Vittore. Lelio Basso racconta l'incontro con Antonio Gramsci

Nella notte fra il 12 e il 13 aprile del 1928 meno di ventiquattr'ore dopo che era stato compiuto a Milano, m piazzale Giulio Cesare, un fallito attentato al re, io fui arrestato sotto l’accusa di esserne stato l'autore. La sera del 13 aprile ero già in carcere, a San Vittore, e la mattina del 14 andando al passeggio in assoluto isolamento - avevo un cortile tutto per me — mi sentii chiamare dal cortile vicino da un compagno che avendomi visto isolato aveva capito che ero un politico. Questo compagno era Umberto Terracini.
Terracini era in carcere — credo — dal 1925; mi chiese subito informazioni sulle cause del mio arresto e mi diede dei saggi consigli sulla vita carceraria. Con Terracini, pur senza vederci, mantenni rapporti quotidiani; infatti avevamo il passeggio in cortili confinanti e, pur separati da un muro, potevamo parlare alzando un po’ il tono della voce.
Da lui seppi che anche Gramsci era a San Vittore. Ma mentre Terracini ed io eravamo al quarto raggio, Gramsci si trovava al sesto e quindi non avevamo nessuna possibilità di incontrarci, salvo se fossimo andati contemporaneamente agli uffici centrali.
La fortuna volle che un giorno, proprio andando a conferire col direttore del carcere, il dottor Ardisson, trovai Gramsci che era prima di me in attesa di essere ricevuto. Anche se non l’avevo mai visto lo riconobbi subito per il fisico caratteristico; lui naturalmente non sapeva chi fossi e non sapeva neppure chi fosse Lelio Basso, ma ricordava perfettamente lo pseudonimo Prometeo Filodemo con cui avevo scritto sulla stampa antifascista dal 1923 al 1926. In modo particolare ricordava la mia collaborazione a "Quarto stato," il settimanale diretto da Carlo Rosselli perché Gramsci aveva scritto un attacco piuttosto duro contro i giovani di "Quarto stato.” E quindi anche contro di me, per le valutazioni politiche diverse che facevamo.
In quell’occasione fu invece cordialissimo. Avemmo uno scambio di parole non molto lungo perché dopo pochi minuti lui fu introdotto dal direttore; poi usci ed entrai io. Però avevamo avuto il tempo di metterci d’accordo pei chiedere udienza al direttore la settimana successiva.
Le udienze dal direttore erano a giorno fisso della settimana e quindi chiedendola subito l’avremmo avuta nello stesso giorno. In generale, non era tanto facile ottenere queste udienze, ma il direttore Ardisson veniva dalla vecchia amministrazione, non era un fascista, personalmente io ero stato compagno di scuola di suo figlio e quindi lo conoscevo benissimo anche per aver frequentato la sua casa prima dell’arresto. A me perciò usava un trattamento di favore, amichevole, e anche verso Gramsci aveva un atteggiamento di rispetto. Quindi la settimana dopo potemmo parlare un po’ più a lungo. Dico a lungo e furono pochi minuti, ma dato che l'incontro era già programmato parlammo rapidamente di politica e soprattutto delle valutazioni sul fascismo. Per quanto io posso naturalmente ricordare, perché in quel momento certo non pensavo di dover registrare quasi quarant’anni dopo questa conversazione. Mi pare però che su un punto ci trovassimo d’accordo: che il fascismo sarebbe durato molto più a lungo di quanto l’opposizione credeva quando parlava di "breve parentesi,” ecc.
Non potrei adesso dire più di questo sugli argomenti della nostra conversazione. Ricordo però che Gramsci mi fece una grandissima impressione: per la sua intelligenza, per la sua concretezza, il suo senso della storia. Non era una conversazione che si sarebbe avuta abitualmente, ma quasi in ogni sua parola, dietro ogni giudizio che pronunciava, c’era tutta una visione della storia e una concezione molto profonda dei problemi e dei processi di cui parlavamo.
Questa impressione mi è rimasta, e non solo perché la personalità di Gramsci era tale che non si sarebbe potuta dimenticare neanche dopo un incontro fuggevole. Non ebbi più occasione di riincontrarlo perché nella settimana successiva era già partito per il “processone”. Ma questo ricordo di lui mi risultò più chiaro quando, essendo stato hi non processato ma mandato al confino all’isola di Ponza vi incontrai Bordiga.
Con Bordiga rimasi nella stessa isola di confino per circa un anno. Se ricordo bene, Bordiga fu liberato nell’ottobre-novembre del 1929, e io ero giunto a Ponza nel settembre del 1928. Avevamo tutti i giorni occasione di scambiare delle idee, in modo particolare durante la stagione balneare si stava sulla spiaggia e si chiacchierava. Io ero giovane, avevo poco più di ventiquattro anni, ero un "apprendista” e cercavo contatti con le personalità che mi sembravano le più eminenti e Bordiga lo era certamente in quanto era stato il capo del Partito comunista. Devo dire però che Bordiga mi deluse per il tipo della sua intelligenza. Può essere che io abbia sbagliato e sbagli nella mia valutazione. Comunque la sua mi parve una intelligenza acuta, ma matematica, astratta, non aderente mai alla realtà concreta. Mentre in Gramsci mi era parso di capire che bastavano poche parole perché riuscisse ad afferrare la realtà nella sua complessità, nel suo divenire storico, nel suo dinamismo, nelle sue componenti eterogenee, nelle sue contraddizioni, Bordiga pareva che procedesse solo per schemi astratti, per formule da applicare, come se dimostrasse un teorema matematico. Il mio primo maestro di marxismo era stato uno storico, Ugo Mondolfo, professore al liceo Berchet, e mi ero formato soprattutto sui suoi scritti su Marx. Quindi avevo appreso da Marx la concretezza e non delle concezioni astratte. Perciò fui colpito sfavorevolmente da questa forma di ragionamento di Bordiga e questo valse ancora di più ad accentuare la valutazione molto positiva che avevo dell’intelligenza di Gramsci.
Erano due intelligenze contrapposte; quella di Bordiga fatta per non incontrare mai la realtà, e invece quella di Gramsci più specifica, fatta per afferrare la realtà nel profondo.

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