12.12.17

Si può dire "compagno"? (Alessandro Portelli)

In un'assemblea del Pd al Palalottomatica di Roma, convocata nel giugno del 2010 dal segretario Bersani per discutere e contrastare la manovra al tempo decisa dal governo Berlusconi, l'attore Fabrizio Gifuni concluse il suo appassionato intervento dicendo “Compagne e compagni … è tanto che volevo dirlo”. Le cronache raccontano di quelli che si spellarono le mani nell'applauso, ma anche dei dissensi, giovanili ma non solo. contro quella parola giudicata anacronistica.
Sul tema Sandro Portelli inviò al “manifesto” un articolo di cuore e di testa, che partiva dal passato, quando ancora c'erano istituzioni (non prive di limiti e difetti e tuttavia solide ed efficienti) capaci di riempire di senso la volontà di dirsi “compagni” e di darle forza. Credo che esso contenga, implicitamente, qualche buona indicazione su come tornare oggi, a distanza di alcuni anni, e ancora di più domani a dirsi ed essere “compagni”. (S.L.L.)
Fabrizio Gifuni. Ritratto fotografico di Paolo Santambrogio
“Io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un ‘compagno’, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo.”
Nel 1953, Ernesto de Martino la parola “compagno” la pronunciava fa virgolette: forse per marcare la propria dualità di studioso e di militante, che metteva in discussione non il rigore della ricerca e della politica ma la separatezza del ricercatore e del politico dall’umanità che cercava di rappresentare – scrivendone nei suoi libri e esprimendone le rivendicazioni nelle istituzioni. Compagno voleva dire uno con cui si divide il pane, e uno con cui si divide il cammino. Chiunque ha fatto lavoro sul campo – di ricerca etnografica come di organizzazione politica - sa che entrare nelle case delle persone di cui si cerca la voce significa in primo luogo accettare un’offerta di cibo – un biscotto o un caffè – e in secondo luogo ascoltare una storia. Essere “compagni”, cioè sperimentare nel tempo dell’incontro un’uguaglianza che la società nega nel tempo ordinario. Come spiegava de Martino: “l'esser fra noi 'compagni', cioè l'incontrarci per tentare di essere insieme in una stessa storia”.
Ma è bastato pronunciare la parola “compagno” dal palco di un partito che teoricamente dovrebbe essere nato proprio per “tentare di essere insieme in una stessa storia” per rivelare una contraddizione e scatenare un dibattito che non è solo nominalistico e un po’ assurdo come troppo in fretta alcuni l’hanno liquidato. Perché non si tratta solo di una differenza ideologica e simbolica, fra chi viene da una tradizione e chi no. È la profonda differenza fra due modi di stare nella storia: sentire, o desiderare, la nuova esperienza politica come uno sviluppo di tutto quello che abbiamo alle spalle (ancora de Martino, addolorato e ironico: “rammemorare anche quella loro storia passata che non poteva in modo immediato essere attuale e comune, e che, in ogni caso, era da ricacciare lontano e da sopprimere"); o credere, come tutti i neonati o i “nati PD” che la storia e il mondo cominciano con se stessi e tutto il resto è da buttare. Ma anche: rammemorare che quella storia da ricacciare e da sopprimere era un passato che aveva un sogno di futuro (“della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti”).
C’è chi davvero ha creduto non solo, come Fukuyama, che la storia sia finita col muro di Berlino, ma anche che non sia nemmeno ricominciata. Che futuro hanno in mente i neonati del PD (che in certi manifesti affissi a Roma si ribattezza con raggelante gioco di parole “PDigitale”?) se non un continuo rinnovarsi di una modernità già vecchia? Nel nostro eterno presente, il pane e la storia non si dividono più con nessuno. Siamo tutti individui nella folla solitaria, tutti imprenditori di noi stessi con partite IVA mentali. Nessuno obbliga i neonati del PD a chiamarsi compagni, ma mi domando come si chiameranno fra loro – cioè, che cosa penseranno di essere, come si riconosceranno - gli iscritti a questo partito agitato ma non mescolato.
Ho visto in questi giorni un film di Rina Amato, Cessarè, sulla storia e la memoria delle lotte contro la ‘ndrangheta nella Locride degli anni ’70. Dopo l’uccisione del giovane comunista Rocco Gatto da parte della criminalità organizzata, un prete di base, Natale Bianchi, scriveva a un dirigente del Partito Comunista (cito a memoria): “Il partito deve fare chiarezza, per non disorientare quei compagni che ancora resistono sul piano sociale e politico”. Ma resiste ancora qualcuno, sul piano sociale, politico e mettiamoci anche culturale? Chi fa chiarezza? Esistono parole ancora più indicibili della parola “compagno”: mentre l’assemblea si entusiasmava e si disorientava per una vecchia parola, la parola “Pomigliano” non era nemmeno pronunciata. Stanno nella stessa storia, sono “compagni” fra loro, i quadri del nuovo partito e gli operai lacerati fra un lavoro comunque o i diritti umani e costituzionali? Qualche dirigente politico entra ancora nelle loro case, ascolta ancora le loro storie e cerca di metterle insieme? Chi li rappresenta? Chi rappresenta chi? Chi “spia e controlla la nostra stessa umanità”? Chi cerca una storia comune?


il manifesto 23 giugno 2010

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