9.12.17

Letteratura e impegno. In morte di Alberto Moravia (Alberto Asor Rosa)

Un ritratto dello scrittore da giovane
Alberto Moravia, oltre che un grande della letteratura europea del Novecento, è stato anche un protagonista quasi istituzionale della vita civile e del costume italiano di questo secolo. I due aspetti sono sempre stati compresenti, ma ovviamente negli ultimi due-tre decenni di una così lunga vita si erano intrecciati sempre più.
Credo che sia esperienza comune a molti il risalire con il pensiero, quando si parla di Moravia, alla sua prima opera, il romanzo Gli indifferenti (1929). Ci sono scrittori che sviluppano lentamente ed evoluzionisticamente le loro inclinazioni più profonde; e altri che le manifestano di getto fin dalla prima esperienza. Moravia era indubitabilmente di questi ultimi.
Negli Indifferenti c’è già, in nuce, quello che egli sarà nei decenni successivi: questa sua prosa così caratteristicamente grigia e avvolgente, apparentemente realistica fino al documentarismo e invece fortemente sintetica, selettiva, quasi surreale (quegli sono gli anni, non dimentichiamolo, delle migliori esperienze di un Bontempelli, e di un Pirandello ormai maturo, acre roditore dell’impianto individuale borghese, qui sullo sfondo, ma non mai del tutto assente); questo suo mondo morale e sociale in cui si riflette il sentore morboso e un po’ perverso di una putrefazione incombente; questo suo sguardo attento, vigile, qualche volta maligno, con cui i personaggi e le cose vengono fissati in un quadro di desolazione intellettuale senza fine. È ovvio che, con un impianto del genere, Moravia appariva sull’orizzonte letterario italiano del suo tempo come un vero e proprio trauma, che i rondeschi, i calligrafisti e gli elzeviristi avrebbero cercato di riassorbire (ma senza riuscirvi), additando le indubbie qualità stilistiche e l’efficace trattamento della prosa, che lo facevano «nuovo» rispetto alle tradizioni narrative anche più recenti (anche se, sul piano storico, la figura di Tozzi e, su di un piano ben più alto, quella di Italo Svevo avrebbero più tardi movimentato il quadro più di quanto in quel momento non apparisse).
Con la dote degli Indifferenti il giovane Moravia arriva alla guerra senza produrre ancora gran che di significativo, fino allo splendido racconto lungo Agostino (1944), che apre secondo me una nuova fase. L’esperienza dell'introspezione psicologica, appoggiata a più fresche letture freudiane, mette Moravia in condizione di trasferire nel racconto esistenziale quello che in precedenza con gli Indifferenti aveva realizzato sul piano del quadro di ambiente. Dall’interno borghese, inteso alla maniera di un certo Pirandello, passa all’intimità borghese alla maniera di certi francesi del Novecento (Gide?). Non solo. Questo passaggio, infatti, gli consente di interiorizzare profondamente anche la sua esperienza della realtà storica e sociale contemporanea. Il suo incontro con il neorealismo (incontro, beninteso, mai identificazione) avviene mediante questa originale traslazione di piani. La Romana (1947) e La Ciociara (1957) sono ambedue romanzi di vasto affresco storico, in cui Moravia si stacca dall’originaria tematica borghese per accostarsi al mondo infimo-borghese o francamente proletario. In questo modo, egli supera la ripetitività degli anni Trenta, scarica l’ostacolo rappresentato dalla gabbia della tematica borghese intesa in senso stretto ed evolve verso una più libera, meno condizionata visione del mondo. Però, al tempo stesso, introietta la sua personalità più profonda nei personaggi «altri», diversi, da lui disegnati, inocula il virus della decadenza borghese nella morbida, corrotta sanità dei due personaggi femminili eponimi. Due personaggi femminili: non a caso. Il transfert può avvenire solo in quanto Alberto Moravia si cala in esse, ovvero cala in esse la sua ambigua componente femminile, che è cospicua. Flaubert diceva di Madame Bovary: «c’est moi». Allo stesso titolo Moravia avrebbe potuto dire «C’est moi» sia della «Romana» sia della «Ciociara».
Poiché un ragionamento analogo si potrebbe fare anche per l'importante volume dei Racconti romani (1954), si capisce come per questo verso Moravia arrivi a precedere e a influenzare uno scrittore pur così diverso da lui come Pier Paolo Pasolini.
Con gli anni Sessanta, e con il romanzo La noia (1960), Moravia inizia un’altra fase, contraddistinta da una certa fenomenologia strutturalistica e da una predominanza sempre maggiore del dato sessuale. È l’inizio di un lungo, anche se fecondo, declino.
Un uomo come questo non poteva avere con la politica un rapporto banale, e pure non poteva non avere un rapporto con la politica. In un saggio veramente notevole del 1964, L'uomo come fine, Moravia delinea una sua originale posizione, molto dipendente dall’esistenzialismo francese e da Camus, ma con tratti autonomi ben distinti. La sua politica è fondamentalmente una critica del totalitarismo in tutte le sue forme (anche in quelle derivanti, francofortianamente, dallo sviluppo abnorme della società capitalistica). Tuttavia, la sua simpatia critica verso il comunismo, e in particolare verso il comunismo italiano, dimostra che egli sapeva ben orientarsi tra amici veri e amici falsi, e ben distinguere tra le forme astratte delle ideologie e le loro concrete, storiche manifestazioni. Non era in nessun modo un «compagno di strada». Era un uomo con una idea precisa della convivenza civile e della morale corrente. Per questo, pur stando dall’altra parte, si collocava da questa.
Con questo spirito aveva sostenuto negli ultimi venti anni una prospettiva ecologica e ambientalistica di grandi ambizioni, ancora una volta ricollegando il destino dell’uomo alle condizioni reali della sua libertà. Su posizioni antinucleari era andato al Parlamento europeo come indipendente nelle liste del Pci, uscendo solo in questo caso da un riserbo pluridecennale.
Ma soprattutto aveva espresso questa sua curiosità di mondo e di conoscenza in una lunga serie di viaggi, di cui aveva dato resoconti precisi, documentati e di buona fattura letteraria. Il suo gusto per la descrizione concisa e diligente, — fino ai limiti, come abbiamo già detto, del grigiore, - si era manifestato a perfezione in questo nuovo capitolo della lunga tradizione italiana della letteratura di viaggi.
L’uomo al centro dell’esistenza, e resistenza al centro del mondo. Un individualismo molto spinto, e al tempo stesso un senso molto forte delle relazioni e dei rapporti umani. Intelligente, colto, illuminista; ma anche complicato e morboso fino al voyerismo e all'oscenità. Un personaggio complesso, risolto forse soltanto alla fine nell’operazione di scrittura concepita anche, se non soprattutto, come professionalità e lavoro. La politica come completamento sul piano civile del suo impegno letterario: ma su due piani sempre tenuti rigorosamente distinti e separati.


“Rinascita”, 7 Ottobre 1990

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