1.12.17

A colloquio con il regista Costa-Gravas. Quel film mancato sull’affaire Moro (Leonardo Martinelli)

Era trascorso più di un anno, da quei 55 giorni che nel 1978 sconvolsero l’Italia. «Con Franco decidemmo di fare un film sul sequestro di Aldo Moro». Costa-Gavras, 82 anni, parla nella sua casa parigina, dietro il Panthéon. Franco era Solinas, uno dei suoi sceneggiatori preferiti. Con lui nel ’72 aveva scritto L’Amerikano, ambientato nell’Uruguay dei tupamaros. Ora sarebbe stata la volta dei nostri anni di piombo.
Costa-Gavras e Solinas iniziarono con entusiasmo. Costantino (il vero nome del regista) aveva scoperto lo sceneggiatore per il suo lavoro con Gillo Pontecorvo su La battaglia di Algeri. L’Amerikano l’avevano scritto a Fregene, dove Solinas aveva una casa. Per ricostruire la vicenda Moro, il regista riprese a bazzicare Roma. «Ci mettemmo in contatto con Eugenio Scalfari, disse che ci avrebbe aiutato. E anche la famiglia Moro mi fece sapere che avrebbe collaborato». Le ricerche continuarono a Parigi. «Mi chiamò una donna tedesca, propose un incontro in un albergo di buon’ora. Arrivò con tre italiani: erano legati alle Brigate rosse, rifugiati a Parigi. Si presentarono con nomi fittizi. Parlammo a lungo, ma sui punti importanti restarono sul vago». Alla fine si strinsero la mano. «Non li ho più visti».
Il regista prosegue: «Cercavo, ma continuavo a non capire come fosse finita la vicenda di Moro. Così, dopo mesi di lavoro, abbandonammo». Eppure, continua Costa-Gavras, «il personaggio mi affascinava. Lo ammiravo, soprattutto per il suo concetto delle convergenze parallele». Un’espressione che forse Moro non pronunciò mai e che probabilmente risale alla fine degli anni Cinquanta, all’anticamera del centro-sinistra con i socialisti. «Non importa», sottolinea il regista, «sintetizza il suo approccio alla politica, che portò al progetto del compromesso storico. Era l’aspirazione a formare una maggioranza con l’opposizione, consapevole che le guerre civili tra i partiti non portavano a nulla».
Per Costa-Gavras, «Moro fu un visionario. Basta vedere quanto succede oggi in Francia con Marine Le Pen. Alle ultime regionali, certi candidati di destra hanno aperto alla sinistra per impedire che vincessero quelli del Front National. E gli elettori di sinistra hanno optato per una convergenza parallela».
A Moro il regista guardava senza pregiudizi ideologici. Come sempre, del resto. Nel ’69 era uscito Z-L’orgia del potere, sulla Grecia dei colonnelli, e l’anno successivo arrivò La confessione: nel mirino stavolta c’era un regime comunista, quello della Cecoslovacchia. Un uomo di sinistra («ma mai comunista»), Costa-Gavras, e soprattutto uno spirito libero: «Non mi sono mai fatto reclutare da nessuno».
Ora che un’ennesima commissione parlamentare d’inchiesta è al lavoro sul caso Moro, il regista greco naturalizzato francese spera che «si arrivi a decifrare la parte finale della tragedia».
Costa-Gavras aveva già pensato a qualche scena del film. «Volevamo inserire la visita di Giovanni Leone a Washington, nel settembre 1974. Moro lo accompagnò come ministro degli Esteri. Una sera si organizzò per la delegazione italiana una festa a bordo di alcuni battelli sul Potomac. Leone cantò ’O sole mio. Moro, invece, era su un’altra imbarcazione, messo da parte anche dal punto di vista fisico. A livello politico si era già decisa la sua sorte». Henry Kissinger, segretario di Stato, diffidava di lui. Temeva che quel gentiluomo riservato prima o poi avrebbe portato i comunisti al potere. Senza contare che Moro era troppo filopalestinese per i gusti degli americani.
Se il film di Costa-Gavras avesse visto la luce, sarebbe stato speculare all’Amerikano. Anche là c’era un sequestro (finito male, per giunta), ma si trattava di un ufficiale dell’Fbi, che all’apparenza faceva cooperazione allo sviluppo in un Paese dell’America Latina e in realtà istruiva i poliziotti locali sui modi più efferati di torturare i sovversivi della sinistra. Nel film si chiamava Philip Santore, lo interpretava Yves Montand. Ma la storia era quella, vera, di Dan Mitrione, sequestrato dai tupamaros nel 1970, in un Uruguay che scivolava verso la dittatura. Le Brigate rosse avevano scelto la stella a cinque punte copiando quella del movimento uruguayano. Una banda di Robin Hood che rubavano ai ricchi per dare ai poveri, così si presentavano. «Alla fine, però, decisero di eliminare Mitrione. Organizzarono un voto fra i dirigenti, perlopiù clandestini. E la maggioranza disse di sì. Sbagliarono, perché scegliendo la strada della violenza perdettero parte dell’appoggio popolare. Di lì a poco sarebbero stati sopraffatti dalla dittatura nascente». Costa-Gavras e Solinas andarono sul posto a verificare. «In Uruguay incontrammo Pepe Mujica, che tanti anni dopo sarebbe diventato presidente. Fra i tupamaros era uno dei più duri, ma conservava una sorprendente gentilezza. Era fantasioso, quasi un personaggio poetico».
A Montevideo Costantino e Franco capirono come erano andate le cose. A Roma, qualche anno dopo, non fu così.


Pagina 99, 13 febbraio 2016

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