8.11.17

Lehman. Il declino di una famiglia, la fine di una banca (Massimo Gaggi)

Il 15 settembre 2008, quando la Lehman Brothers dichiarò bancarotta, il più disastroso fallimento della storia americana, la famiglia Lehman non perse neanche un dollaro. La banca fondata a metà dell’Ottocento da tre fratelli ebrei tedeschi, figli di un mercante di bestiame della Baviera, era uscita dall’orbita familiare nel 1969, quando mori Robert Lehman, l’ultimo della dinastia a guidare questa centrale finanziaria. Negli anni successivi l’istituto venne prima fuso con la Kuhn Loeb & Co.. Poi, nel 1984, fu venduto all’American Express che lo fuse con la Shearson. Poi un altro divorzio e la banca che torna attore indipendente. Più tardi, sotto la guida di Dick Fuld, vivrà una tumultuosa crescita: più clienti, più profitti, ma anche rischi sempre più grossi. E gli enormi debiti che la uccideranno.
Nessun danno economico per gli oltre trecento eredi dell’impero Lehman, ma prestigio della famiglia in pezzi. Una storia, quella dei Lehman, che incarna l’evoluzione — o, meglio, l’involuzione — del capitalismo americano nell’arco di due secoli. Vicenda tanto suggestiva e piena di simbolismi da spingere un drammaturgo italiano, Stefano Massini, a dedicarle un libro e un’opera teatrale rappresentata con successo in molti Paesi europei e negli Usa. Una storia imprenditoriale che inizia col commercio — un negozio di tessuti in Alabama — passa all’industria (cotone), e trova l’approdo definitivo nei servizi finanziari: decenni di operazioni prestigiose, che portano sul mercato, tra gli altri, i grandi magazzini Woolworth e Macy’s, i pneumatici Goodrich e le auto Studebaker. Poi gli eccessi della finanza di Wall Street, la scommessa sciagurata dei mutui subprime e il crollo.
Ma dietro quella economica c’è, assai meno notata, la storia di immigrati europei dinamici e pieni di talento. Non solo Henry, Emanuel e Mayer, i tre fratelli che arrivarono uno dopo l’altro in America, ma anche Pete Peterson: il banchiere immigrato dalla Grecia (vero nome Petropoulos) che prese la guida della banca dopo la morte dell’ultimo Lehman e la salvò da una prima crisi. E anche Lewis Glucksman, l’ungherese che affiancò per alcuni anni Peterson, fino a quando non lo attaccò costringendolo a lasciare l’istituto. Questa epopea di migranti — cosa strana in un’epoca in cui si parla solo di immigrati musulmani in Europa e ispanici negli Usa — è anche storia di divisioni nel mondo ebraico e di discriminazioni. Perfino nell’America che accoglieva a braccia aperte le vittime delle persecuzioni razziali del nazismo e del fascismo. Il padre dei tre fratelli aveva già cambiato il nome yiddish di Loeb in Lehmann. Il primo fratello, quando arriva in America, toglie una n e cambia il suo nome da Heyun in Henry. Quando, tre anni dopo, lo raggiungerà Mendel, verrà ribattezzato Emanuel.
I Lehman vendono tessuti a Montgomery, poi sfondano nel cotone. Diventano protagonisti nella contrattazione delle materie prime, entrano nel mercato del caffè, seguono lo spostamento delle contrattazioni trasferendo la sede a New York, entrano in finanza con le obbligazioni ferroviarie.
Pian piano si integrano con le famiglie wasp. Diventano protagonisti in politica con Herbert Lehman, governatore di New York, e col procuratore di Manhattan, Robert Morgenthau (ramo cadetto della famiglia). Ricchi, impegnati in politica, ma senza più peso in finanza e senza identità. L’ultimo raduno di famiglia a New York, una ventina d’anni fa: erano più di 150, ci vollero i saloni del Metropolitan Museum. Oggi i coriandoli di Lehman sono sparsi ovunque: fotografi, filantropi, designer, ex ambasciatori. Dopo il declino, la diaspora.

La lettura – Il Corriere della Sera, 29 ottobre 2017

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