30.11.17

Il Risorgimento che non c'è stato nelle letture di Gobetti, Gramsci, Salvemini (Marco Revelli)

Quello che segue è un testo d'occasione, scritto nel 2011 per uno speciale che “il manifesto” dedicò ai 150 anni di unità d'Italia. A me sembra un'efficace sintesi di una lettura storiografica che nel tempo ha coinvolto il meglio dell'intelligenza democratica nel nostro paese e un'occasione per leggere meglio - in quella chiave - anche i tempi più recenti della nostra nazione. (S.L.L.)

«Il Risorgimento italiano è ricordato nei suoi eroi. In questo libro mi propongo di guardare il Risorgimento controluce, nelle più oscure aspirazioni, nei più insolubili problemi, nelle più disperate speranze: Risorgimento senza eroi». Così scriveva Piero Gobetti, alla metà degli anni Venti, nella prefazione a un libro destinato a essere pubblicato postumo. E concludeva: «L'esposizione non piacerà ai fanatici della storia fatta: essi mi attribuiranno un umore bisbetico per rimproverarmi lacune arbitrarie. Ma io non volevo parlare del Risorgimento che essi volgarizzano dalle loro cattedre di apologia stipendiata del mito ufficiale. Il mio è il Risorgimento degli eretici, non dei professionisti» (Risorgimento senza eroi, 1926).
A fronte della vulgata apologetica dell'epopea risorgimentale - del suo «mito ufficiale» - non c'è solo la letteratura reazionaria e sanfedista dei nostalgici dell'Ancien Règime. O il localismo gretto della «piccola storia» che parla male di Garibaldi in odio al rosso delle sue camicie e alla lunghezza dei suoi viaggi. C'è anche una solida tradizione di pensiero radicale e democratico - radicalmente democratico - che ha guardato ai «mancati risultati» del Risorgimento per cogliervi il segno dei «vizi storici» della politica italiana. Che ha cercato tra i cocci del mito infranto di quell'ambiguo passato le ragioni del proprio cattivo presente (della propria, eternamente ritornante, «autobiografia della nazione»).
I nomi sono noti: Gaetano Salvemini, in primo luogo, e poi Gramsci, buona parte del «meridionalismo rivoluzionario» con Guido Dorso in testa, e Tommaso Fiore, il neoprotestantesimo di Gangale, oltre, naturalmente, a Piero Gobetti e con lui buona parte dei collaboratori della sua 'Rivoluzione liberale?... Per tutti un comune denominatore: l'idea del Risorgimento italiano come rivoluzione mancata (rivoluzione politica fallita, ma anche rivoluzione sociale e in particolare «rivoluzione agraria» neppur tentata, e «rivoluzione morale» o religiosa soffocata sul nascere dal prevalere del neoguelfismo). E una comune preoccupazione: comprendere come, a mezzo secolo dal compimento del moto risorgimentale, l'Italia avesse potuto cadere nella dittatura. Il che spiega perché buona parte di questa riflessione anti-apologetica del Risorgimento si concentri soprattutto a ridosso dell'avvento del fascismo e trovi il proprio epicentro negli anni Venti del Novecento.
Anche i termini della critica, sono noti. In primo luogo il tema della «conquista regia». Se l'Italia non ha avuto la propria rivoluzione - se il suo passaggio alla «modernità» non è avvenuto, come nei paesi a democrazia matura quali la Francia, in primo luogo, ma anche l'Inghilterra, attraverso una «cesura storica», con una esplicita «soluzione di continuità» nella successione delle sue classi dirigenti capace di coinvolgere le masse popolari nella costruzione del nuovo Stato - ciò è dovuto al carattere prevalentemente burocratico-militare del processo unitario. Alla sua gestione «dall'alto», da parte di una dinastia (conservatrice e tradizionalmente avara), di un esercito (disciplinato ma ottuso) e di una diplomazia a guida moderata che emarginarono o, alternativamente, egemonizzarono le componenti radicali, nella sostanziale passività del popolo. Ne derivò - come scrive Dorso, il principale interprete di questa lettura - «una conquista grigia, fredda, uniforme, che lasciò, a mano a mano che progrediva, insoluti tutti i dati ideali della rivoluzione: la libertà, le autonomie locali ed i rapporti fra lo Stato e la Chiesa, campo classico ove si saggiano le limitazioni della libertà». E soprattutto che inaugurò o quantomeno consolidò il pessimo vizio italiano «di eludere le soluzioni ideali, per stendere su di esse il velo della transazione politica», prodromo di tutti i trasformismi e di tutti gli immoralismi futuri.
È ciò che Gramsci definirà, sulle orme del Cuoco, col termine «rivoluzione passiva» (una rivoluzione, cioè, senza rivoluzionari e, in sostanza, «una rivoluzione senza rivoluzione»), sottolineando come carattere qualificante di tutto il moto risorgimentale la sistematica egemonia che i moderati riuscirono a esercitare, strategicamente, su tutte le altre componenti, compresa quella più radicale rappresentata dal cosiddetto Partito d'Azione (quello di Garibaldi e Mazzini, per intenderci). Il quale non fu solo sistematicamente marginalizzato dall'iniziativa moderata, ma anche in buona parte «diretto», e riassorbito, nelle file dei moderati, fino all'unità, e anche oltre: «I moderati - scriverà Gramsci - continuarono a dirigere il Partito d'Azione anche dopo il '70 e il trasformismo è l'espressione politica di questa azione di direzione; tutta la politica italiana dal '70 ad oggi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall'elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il '48, con l'assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche di quelle nemiche». Né poteva essere diversamente - come non cessò mai di ricordare Salvemini - vista la clamorosa assenza dalla scena sociale e politica dei contadini (e con essi di ogni significativo «soggetto sociale» capace d'iniziativa politica).
Così in questa lettura iconoclasta del Risorgimento, il tema del fallimento politico di ogni ipotesi di modernizzazione dal basso si salda con quello, strutturale, del fallimento sociale ed economico di ogni modernizzazione tout court, ben simboleggiata dall'assenza altrettanto clamorosa di un sia pur flebile segno o conato di «rivoluzione agraria». E dalla permanente forza mantenuta dalla grande proprietà terriera, soprattutto meridionale, mai in realtà sfidata, anzi quasi sempre blandita, o comunque incorporata nel ventaglio delle alleanze necessarie per un progetto unitario che finiva per dispiegarsi, così, non solo senza ma per molti aspetti anche contro le aspirazioni di emancipazione di una massa contadina mantenuta in condizione di servaggio semi-feudale.
Non si tratta - è bene ricordarlo spesso - di una lettura «idealistica» della nostra storia patria. Di una somma di pii desideri, in cui ciò che è si confonde con ciò che si vorrebbe che fosse. Al contrario. La cifra di tutta questa letteratura anti-apologetica è il «realismo». L'analisi disincantata delle forze in campo. La misura spietata dei rapporti di forza. L'egemonia moderata tanto deprecata, è tuttavia considerata l'unica storicamente possibile. La sola capace di vincere.
In questo Salvemini è maestro, là dove dopo aver preso in considerazione l'intero ventaglio delle opzioni federaliste - quelle a cui andava senza dubbio la sua approvazione e che meglio avrebbero servito la causa di una via compiutamente democratica all'unificazione nazionale, a cominciare dall'autonomismo democratico di Cattaneo, e quelle meno auspicabili, ma non meno interessanti, come il federalismo censitario dei moderati piemontesi - ne decreta, tuttavia, l'inevitabile inefficacia, di fronte al macigno rappresentato dalla passiva subalternità delle plebi rurali meridionali, e dalla loro manovrabilità da parte di un clero reazionario e nostalgico dell'antico regime borbonico. «La grande maggioranza dei contadini, scrive Salvemini, abbandonata a sé nelle amministrazioni locali autonome, a base di suffragio universale, avrebbe dato, in poco tempo, la prevalenza alle forze legittimiste. Perciò i moderati rigettavano la teoria autonomista e democratica di Cattaneo». E per questa ragione, si può aggiungere, rinunciarono all'originario federalismo censitario cavourrino, per volgersi alla prospettiva centralista di impronta mazziniana, amputata dei suoi connotati democratici (il suffragio universale, o anche allargato) e coniugata con un sistema elettorale ristretto su base di censo. L'unica in grado di vincere. Ma, appunto, a un
prezzo tanto caro da ipotecare l'intero sviluppo sociale e politico successivo.
Il risultato sarà, appunto, «uno Stato a cui il popolo non crede perché non l'ha creato con il suo sangue», nel quale si misura, senza remissione, il fallimento del progetto liberale, al quale dovrebbe essere intrinseca la ricerca dell'autonomia, individuale e collettiva, delle persone e dei gruppi sociali. Fallimento a cui non porterà sollievo il parallelo dispiegarsi del progetto socialista, caduto nel momento in cui con Turati, «accettò l'eredità di una corrotta democrazia invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria», a riprova della dura legge storica che condanna i radicali a una dura egemonia moderata. Cosicché, nella caduta degli unici due progetti emancipativi del moderno, l'Italia resterà esposta al costante rischio della ricaduta nelle molteplici forme di servitù che la sua storia le ripresenta, come fantasmagorico repertorio dei propri vizi atavici e delle proprie illusorie virtù. Sempre incapace di scelta e di responsabilità. Sempre tentata dall'istrionica rappresentazione e dall'identificazione nei peggiori. Condannata, comunque, a riproporre, ciclicamente, quello che, ancora Gobetti, definirà «l'equivoco fondamentale della nostra storia» - quello che l'apologetica risorgimentale rimuove, ma che del moto risorgimentale costituisce una verità scomoda - e cioè il suo essere stato, in prevalenza, «un disperato tentativo di diventare moderni restando letterati con vanità non machiavellica di astuzia, o garibaldini con enfasi tribunizia». E, di conseguenza, l'aver sacrificato all'idea di libertà la pratica - ben più sostanziale - dell'autonomia. L'aver sovrapposto al mito dell'unità la ricerca dell'unanimismo. E all'orgoglio della lotta, l'affidamento a un Re. O a un Capo. O alla benevola configurazione di una favorevole congiuntura internazionale.


Da La conquista. 1815-1870 l’unità italiana nell’era della borghesia (a cura di Gabriele Polo) – supplemento a “il manifesto”, 28 settembre 2011

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