2.11.17

Caporetto tra realtà e interpretazioni (M.I.)

Su uno speciale di “Repubblica” intitolato I fantasmi di Caporetto, apparve nel 1977, con il titolo e il sottotitolo che sotto riprendo, un corsivo firmato M.I.. Credo che si trattasse di Mario Isnenghi, autore di uno dei pezzi forti dello speciale e fin da allora attento studioso delle interferenze e dei corti circuiti tra la realtà e l'interpretazione, quasi sempre ideologica, non di rado legata a interessi concreti e corposi (S.L.L.)

Luigi Cadorna al fronte con altri ufficiali
Raramente nella storia d’Italia un evento è stato giudicato in modi così diversi
Dobbiamo attendere un romanzo per capire che cosa accadde?
Che cosa ha sempre impedito a Caporetto di diventare «reale»? Voglio dire reale di una realtà passabilmente univoca, contemporaneamente, agli occhi di tutti? Non v'è, e non vi fu mai, un significalo comune di Caporetto, anche se molto si fece per costituirlo, prima e durante il fascismo. Sarà forse, questa pluralità di modi di essere agli occhi di chi la vive e la vede, una condizione inevitabile di ogni evento; certo è che di rado, nella storia contemporanea d’Italia, un evento storico ha saputo essere a tal punto una cosa e il suo rovescio: liberazione o catastrofe, tradimento politico ed errore tattico, sciopero militare e incidente disgraziato, rivolta abortita e momentaneo ribaltamento carnevalesco, realtà o metafora dell’effrazione d’ogni norma. Opposizione di classi e di individui, divergenze di interessi e di cultura, dialettica di ruoli e di collocazione si scaricano sull’evento traumatizzante della rotta con una somma inaudita di « vissuti » privati e pubblici. Non È solo questione di diversi codici, di diverse decodificazioni. Sono in questione le stesse categorie, i criteri di lettura di ciò che si vede di persona o, più spesso, si viene a sapere o si crede di venire a sapere a distanza, deformato dai rumori di fondo.
«Sciopero», «insubordinazione», «tradimento»: parole cariche di risonanze sinistre in bocca e nel cuore del medio ufficiale, di complemento o di carriera, figlio consenziente di una società civile e di un’educazione di caserma che poggiano da decenni su comuni valori di ordine e disciplina, di cui la vita militare rappresenta il pieno dispiegamento. E però al tempo stesso, nell’agghiacciato rifiuto, espressione di qualcosa di torbido e infido sempre avvertito come possibile e persino atteso.
Non si spiegano altrimenti certi repentini capovolgimenti di giudizio nei confronti dei contadini-soldati: blanditi come docile gregge di rassegnati il giorno prima, per ridiventare di brutto efferata torma bestiale il giorno dopo. È che l'insubordinazione dei subalterni giace come possibilità latente nel cuore bennato del borghese d'epoca, appena sotto lo strato sottile delle sue sicurezze facili a saltare. Ha sentito parlare con orrore della Comune; dei suoi stessi princìpi — i beneamati-famigerati princìpi dell’89 - ha imparato presto a diffidare (c’erano pure i sanculotti!); se laico, ha letto i testi del conformismo moderato; se cattolico, decenni di romanzi d’appendice e di encicliche gli hanno insegnato l’eterna duplicità del «popolo». Questa stessa duplicità riemerge subito dopo la rotta, quando partono le operazioni di copertura ed entrano in azione le droghe ideologiche del Servizio «P» (Propaganda): tutto quanto è buono e moderato e rassicurante del «popolo» è ambientato in Italia e vestito di grigioverde; tutto quanto è infido, inquietante, e sinistro viene rimosso dall’Italia e trasferito nella Russia bolscevica, dove agita la bandiera rossa.
Ma prima che, almeno in pubblico, venga trovato questo accomodamento, Cadorna, Bissolati e tanti altri dirigenti in loco, o turisti politici della classe dirigente, esprimono chiaramente, con angosciate o furiose dichiarazioni pubbliche e private, quanto incerta sia l’egemonia che questa classe esercita sulla società; quanto fluttuante l’idea che i governanti si fanno dei governati e, di riflesso, dei loro comportamenti sociali e militari. Veramente i contadini-soldati si ribellano? Le parole si fanno cose? Il possibile si trasforma in reale? Non erano sogni per creduli, millanterie consolatorie, o viceversa incubi, spazzati via nel ’14 dalla dura forza dei fatti? Preso al gioco della sua stessa produzione ideologica, il blocco nazionale — che ha costruito l’immagine del «sovversivo» e durante il conflitto l’ha drammatizzata in quella incombente del «disfattista», che insidia la disciplina e sabota la patria alle spalle — non sa più distinguere tra la realtà e i suoi fantasmi, l’accertato e il possibile.
Questo dalla parte dei dirigenti. Ma dall’altra parte? Quanto ne sappiamo dell’accumulo di insofferenza e di rancore che contribuisce a render possibile lo sbandamento e a far pensare come possibile la rivolta? Per quei 300.000 prigionieri ad esempio — i «vinti di Caporetto», come saranno con sprezzo chiamati dall’opinione patriottica — quanto era fondato il sospetto che li colpiva, di aver voluto la cattura come soluzione privata del conflitto? Una soluzione privata che, attuata in quelle proporzioni, acquista dimensione sociale. Così come è ben difficile rispondere con i documenti che la storiografia «oggettiva» pretenderebbe a tanti altri interrogativi che non riguardano solo i giorni di Caporetto. Quanti rifiuti d’ubbidienza vi furono? Quanti atti di insubordinazione, individuali e di gruppo? Quanti ufficiali italiani «sparati» alle spalle o in combattimento? Quante esecuzioni sul posto? Si potrebbe continuare. Non ce le daranno da sole le storie dei battaglioni, queste risposte; e neppure le carte di polizia. Non è che — per un evento dove reale e possibile si toccano e il materiale onirico si congiunge tanto strettamente al fatto empirico — la mediazione della letteratura possa aprire utili squarci?


“la Repubblica”, 23 ottobre 1977

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