15.11.17

Camorra 2013. Il ventre molle della penisola (Angelo Mastrandrea)

Giuseppe Setola
La Terra di Lavoro non è più quella che raccontava Pier Paolo Pasolini in Le ceneri di Gramsci: «Qualche branco di bufale, qualche mucchio di case tra piante di pomidori, edere e povere palanche». Oggi di quella sterminata campagna che costituiva il serbatoio alimentare della Campania felix non rimane molto, ma ciò che è scampato alla cementificazione basta a far sopravvivere un caporalato sempre meno autoctono e più esogeno. Il resto è quasi un'unica banlieue che si estende fino al basso Lazio, generata dall'esplosione demografica del capoluogo Napoli, che storicamente ha attirato come una calamita i cafoni dalle campagne - l’indomabile e reazionaria «plebe» che ha attirato l'attenzione di giornalisti e scrittori, da Matilde Serao a Anna Maria Ortese - e poi, con pari virulenza, ha preso a espellerlie a disseminarli, antropologicamente trasformati, ai margini del suo territorio. Roberto Saviano ha dipinto - cogliendo nel segno - gli aspetti più inquietanti della commistione tra localismo e globalizzazione, individualismo proprietario e capitalismo liberista, mentalità paesana e cosmopolitismo affaristico-mafioso. Da Gomorra in poi, la Terra di Lavoro è diventata la nostra Striscia di Gaza: il territorio più battuto da inchieste giudiziarie e servizi giornalistici, libri e documentari, serbatoio inesauribile di storie e luogo paradigmatico delle contraddizioni del nostro paese e dell’Europa intera. Il più inquieto e tormentato, osti-co e violento, basso balcanico e al contempo africano, il ventre molle della penisola. A un tiro di schioppo dalla capitale.
Lungi dall’esaurirsi, il filone inaugurato da Gomorra si arricchisce di altri tre libri che attraversano il casertano raccontandone aspetti diversi, e correlati, del suo underground. Nato a Casal di Principe - Una storia in sospeso (Minimum fax, pp.162, € 12) di Amedeo Letizia e Paola Zanuttini è quello con maggiori ambizioni letterarie. Lei è una giornalista del Venerdì di Repubblica, lui un produttore cinematografico nato a Casal di Principe - tra i suoi titoli: Il resto di niente, dal romanzo di Enzo Striano su Eleonora Fonseca Pimentel e la rivoluzione partenopea del 1799 - che ha respirato aria di camorra e ne è stato allo stesso tempo compartecipe e succube. Un fratello vittima di lupara bianca e mai più ritrovato, un altro schiantatosi con la sua Porsche, lui stesso borderline finché non decide di andarsene a Roma dove trova sfogo nel mondo dello spettacolo - diventando un protagonista della serie tv I ragazzi del muretto - ma senza abbandonare mai del tutto la sua «casalesitudine», che è più di uno stile di vita: una sottocultura provinciale che si alimenta del microclima del paese - una cittadina di ventimila abitanti - e ha propri codici di comportamento e linguaggi che solo chi ci è nato e vissuto riesce a comprendere fino in fondo.
Castel Volturno - Reportage sulla mafia africana (Einaudi, pp. 200, € 17) di Sergio Nazzaro si sposta di qualche chilometro appena, ma solo apparentemente perché i nomi che ricorrono sono sempre gli stessi e ormai noti come lo furono un tempo i corleonesi rispetto a Cosa Nostra siciliana: Francesco Schiavone «Sandokan», Antonio Iovine «‘o ninno», superlatitante come Michele Zagaria, alla cui cattura è dedicato L'ultimo bunker (Garzanti, pp. 172, € 14) di Catello Maresca con Francesco Neri.
Si tratta, in fin dei conti, dellastessa storia raccontata da tre angolature diverse: dal punto di vista interno di un casalese sopravvissuto a un destino che rischiava di essere segnato; da quello dentro-fuori degli africani che abitano lo stesso territorio e ne risultano allo stesso tempo estranei ma inte-grati nelle sue logiche più perverse; e infine attraverso lo sguardo esterno del magistrato che cerca di penetrare nella psicologia dei fuggitivi, nei messaggi cifrati della ragnatela di fiancheggiatori - uno schema a «cerchi concentrici» - e di comprendere il funzionamento del«sistema» imprenditorial-camorristico casalese al fine di entrare nel meccanismo e smontarlo pazientemente pezzo per pezzo.
Sembra di stare in Afghanistan quando si legge del drone - un aereo senza pilota usato dagli americani per scovare i guerriglieri qaedisti - scomparso misteriosamente nelle campagne del casertano, «perso tra i fuochi d’artificio della festa patronale di San Cipriano d’Aversa». O quando si legge dei jammer che permettono agli affiliati alle cosche di scoprire le microspie e rispedirle al mittente, o ancora dei disturbatori che schermano le comunicazioni in entrata e in uscita dalle abitazioni e dei trojan, virus utilizzati per penetrare nei computer e trasformarli in spie.
L’unica differenza è che di fronte non c’è Osama bin Laden ma Michele Zagaria, e infine il sanguinario Giuseppe Setola, ideatore della strategia stragista che culminerà con la strage della sera di San Gennaro del 2008 nella sartoria Ob.Ob. Fashion a Castel Volturno, in cui furono uccisi otto africani. È qui che il racconto del magistrato Maresca trova un trait d'union con il reportage di Nazzaro. A sua volta, L'ultimo bunker comincia laddove si conclude il racconto di Letizia: dalla cattura di Michele Zagaria, l’ultimo grande boss dei casalesi, dopo quindici anni di latitanza. «L’idea di vivere quindici anni in un covo sotto terra, con quattro metri di cemento sopra la testa, mi dà ansia», dice Letizia. E Zagaria, quando sente il rumore delle trivelle e capisce che è finita, non tenta di scappare come farà Setola ma si arrende subito: «È finita, dottore Maresca, è finita! Ha vinto lo Stato, avete vinto voi! Oggi avete vinto voi!».
La lettura incrociata di questi tre libri aiuta a comprendere le dinamiche malavitose e fa conoscere più da vicino quella little Africa - una società che vive parallelamente a quella locale, con pochi punti di intersezione -che per troppi anni è rimasta invisibile all’opinione pubblica italiana, quasi non le appartenesse. Apprendiamo molto del modello socio-economico mafioso - la nuova camorra spa in cui vanno a braccetto il suo volto presentabile, imprenditoriale, e il braccio armato - degli strumenti di cattura del consenso, quasi si tratti di partiti politici piuttosto che di clan criminali; ma quelle che rimangono ancora da svelare sono le cause intime di tanta degenerazione sociale.
Com’è potuto accadere tutto ciò? In quali radici culturali affonda la cultura dei Casalesi, profondamente diversa da quella della criminalità organizzata urbana? A quali responsabilità storiche e politiche appellarsi per risalire alle origini di tanto disastro? Paola Zanuttini prova a abbozzare una risposta pre-politica, che va ricercata in un identitarismo distorto, una cultura «texana» dell’autodifesa, «figlia della secolare insicurezza del contadino sottomesso ai capricci della natura», ma anche della «sconfinata fierezza dello stesso contadino che la natura è riuscito a domarla». La ferita non curata mi pare sia la stessa che incancrenisce l’intero Mezzogiorno: l’eradicazione violenta della cultura contadina e la precipitazione forzata -un po’ come accaduto per i paesi dell’Est Europa dopo l’89, non a caso anch’essi finiti in balia delle mafie - nella modernità capitalistica. Quella che quarant’anni fa Francesco Rosi denunciava in Le mani sulla città e che oggi ispira Gomorra e i suoi discendenti.


“il manifesto”, alias domenica, 21 aprile 2013

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