22.9.17

Nanni Loy e "Specchio segreto”. Un clandestino nella tv di Bemabei (S.Novelli e G.Turi)

Giovedì 19 novembre del 1964 la tv mandò in onda alle ore 21 e 30 sull'unico canale all'epoca funzionante la prima delle otto puntate di Specchio segreto, la “candid camera” pensata e realizzata in Italia dal regista allora trentanovenne Nanni Loy e dalla sua équipe. Loy aveva già ottenuto un successo come regista cinematografico con Le quattro giornate di Napoli e altri ne avrebbe ottenuto in futuro: ricordiamo tra gli altri film Detenuto in attesa di giudizio (1971), Cafè express (1980), Mi manda Picone (1984).
L'intervista che segue, dedicata a Specchio segreto, alla tv di Bernabei e all’Italia degli anni Sessanta, gli fu rivolta da Silverio Novelli e Gianandrea Turi per il supplemento di “Avvenimenti” che essi curavano, dedicato alla storia della cosiddetta Prima Repubblica. (S.L.L.)

Specchio segreto nasce e arriva in tv in piena era Bemabei, nel 1964...
Era una Rai assolutamente integralista. L'idea di fare una "Candid Camera" certo piaceva, visto il successo negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia e in Germania. Ma i dirigenti di viale Mazzini avevano paura. Alla fíne si decise di fare una puntata "pilota".

Questa però è una procedura abbastanza usuale.
Sì sì, ma in questo caso non si trattava di motivi tecnici o economici. Si trattava di censura. Allora non si poteva fare un programma senza che venisse controllato o interamente predisposto. I funzionari volevano conoscere i dialoghi in anticipo. E io dàgli a spiegare che non poteva esistere una "candid camera" con tanto di copione o di sceneggiatura. In Rai avevano provato a fame una finta con attori professionisti... Una cosa deprimente, per fortuna non ne fecero nulla.

La puntata pilota comunque si fece, no?
Si fece grazie soprattutto al sostegno di Angelo Guglielmi e Mario Motta, gli unici dirigenti dell'azienda convinti della bontà del nostro progetto.

E il risultato piacque, perché la tv trasmise otto puntate di "Specchio segreto", compresa la pilota.
Non andò proprio così liscia. Durante i provini con gli attori che "provocavano" il passante, non riuscivo ad ottenere, per esempio, che lasciassero il primo piano al protagonista. Ma più che altro accadeva spesso che l'attore proseguiva imperterrito sulla traccia che avevamo concordato prima delle riprese senza tenere conto di quello che il suo interlocutore stava dicendo. Alla fine diventò chiaro che il sistema migliore, oltre che il più economico, era quello di far interpretare il molo di spalla, del "provocatore", a uno di noi, me - cioè il regista - Giorgio Arlorio o Fernando Morandi.

La scelta cadde su di lei.
Principalmente su di me. Con la mia pipa in mano potevo avvicinarmi abbastanza tranquillamente al viso dell'interlocutore: il microfonino, che tenevo nascosto con una fasciatura al polso, funzionava bene solo da molto vicino, non oltre il mezzo metro. Anche qui, non fu tutto facile. Per trovare il microfonino dovemmo andare in Germania, così piccoli in Italia non se ne facevano. E non bastò, perché, per strada, le scariche degli impianti elettrici delle macchine facevano "friggere" il sonoro. In Germania ci inventarono un sistema di schermatura adeguato.

E per nascondere la macchina da presa?
Adottammo, con qualche messa a punto, il sistema del vetro-specchio utilizzato allora dalla questura di Roma. Noi, per giustificare nelle strade la presenza di uno specchio, preparammo un camioncino con la scritta "traslochi". I due lati lunghi erano occupati da due armadi con grandi specchiere: all'esterno "erano" specchi, dall'interno del camioncino, nella più completa oscurità, la lastra funzionava da vetro quasi trasparente, privato in gran parte com'era dello strato di nitrato d'argento.

Insomma, una macchina da presa clandestina...
Tra chi allora criticò la trasmissione - si accese un bel dibattito tra sostenitori e detrattori - ci fu la scrittrice Natalia Ginzburg: «L'indiscrezione ci sembra opprimente e illecita e ci lascia un senso di disagio, come se ci trovassimo in presenza di un inutile sfoggio di crudeltà». Scrisse così. Eppure a mio avviso lo specchio segreto è l'unico sistema che permette ai cittadini comuni di diventare protagonisti in tv. E in ogni caso non mandavamo in onda nulla senza l'autorizzazione scritta delle persone riprese.

Questa autorizzazione ve la davano sempre?
Quasi sempre. Più di novanta volte su cento. Alcuni hanno voluto controllare il montaggio finale. Come gli operai dell'Alfa Romeo di Milano. La classe operaia di allora era cazzuta forte. Erano tempi duri per gli operai. Davanti ai cancelli, io tutto male in arnese, con la barba lunga, impugnavo un cartello con su scritto "aiutate un vostro compagno". A quelli che si fermavano dicevo che non avevo più voglia di lavorare e che se erano davvero miei compagni dovevano darmeli loro, i soldi.

Una vera provocazione.
Sì. Io gli spiegavo che, anche se avevo solo quarantanni, avevo lavorato, a forza di straordinari, quanto i più anziani di loro e i soldi per la mia famiglia, ora che non avevo più voglia di faticare, doveva tirarli fuori la classe operaia. Alla fine alcuni mi davano ragione, altri, nel capannello che si stava facendo sempre più fitto, diventarono minacciosi. A un certo punto mi sentii sollevato come un fuscello e sbattuto dentro un cellulare: la polizia aveva pensato bene di salvarmi. «C'è un equivoco, sono un regista della Rai», dissi al maresciallo con i baffi che guidava. E quello, di rimando: «Sì, e io sono Rita Pavone». Sta di fatto che qualche giorno dopo l'intero consiglio di fabbrica dell'Alfa si presentò agli studi tv. Ci fu un dibattito di ore, accesissimo, poi gli operai firmarono. Noi accettammo di "tagliare" quelli di loro che ci avevano fatto la figura più da stronzi.

Ci ha immerso, attraverso questa rievocazione, nell'atmosfera di quei tempi. Da "Specchio segreto" vien fuori, d pare, un'Italia molto viva.

L'Italia dei cittadini, alla quale davamo voce, era così. Lo vedevamo anche, o forse proprio, negli sketch che poi non mandavamo in onda. Un 24 dicembre, a Milano, in piazza del Duomo, nevicava, e io vestito molto male vendevo il "Corriere dell'informazione". Si avvicina un giovane, elegantissimo, con un cappotto di cammello, e mi chiede il giornale. Io prendo i soldi ma, prima di darglielo «scusi se approfitto - faccio -, io qui a Milano sono solo, sono immigrato. Non so con chi passare questa sera. Lei mi potrebbe ospitare?». La proposta non era così leggera come può sembrare, io ero veramente malmesso. Il giovanotto mi guarda,dice: «Anch'io sono solo». E resta zitto, lì, senza andarsene. Allora io faccio: «Bene, allora possiamo...». Mi prende sotto il braccio e mi porta verso un punto meno affollato. Abbassa la voce e «sono omosessuale», mi confida. Di famiglia ricca, con villa a Como, era obbligato a trascorrere il Natale con i suoi e invece era innamorato di un ragazzo che stava a Milano e con il quale voleva passare la festa. Poi, a un tratto, scoppia a piangere, questo ragazzo bellissimo (avrà avuto trent'anni). Lui avrebbe anche firmato: si portava dentro il peso di un segreto del quale non si poteva far cenno e il fatto di poter parlare finalmente con qualcuno che non mostrava repulsione era stato liberatorio. È venuto sul camioncino. «Se volete firmo». «No, guardi ci pensi bene, nella sua situazione può essere davvero difficile». Qualche giorno dopo rinunciò, mica era così semplice nell'Italia di allora per un omosessuale.

1961-1967. Il centro-sinistra, i Beatles, il tentato golpe, supplemento ad "Avvenimenti", 2 marzo 1994

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