2.9.17

Fra Bernardino da Siena. Un diabolico giullare al servizio dell'anima (Corrado Bologna)

Nell'ormai lontano 1990 uscirono per l'editore Rusconi, in due corposi volumi, le Prediche volgari sul Capo di Siena, 1427 di Bernardino da Siena. Non si trattava soltanto del testo di quelle prediche, ma di una sorta di verbale, di resoconto, opera di uno spettatore entusiasta che prendeva appunti su tavolette di cera e poi, giunto a casa, trascriveva sul foglio non solo le parole, ma i gesti, le interruzioni, le trovate sceniche. La recensione che segue ottimamente riferisce e criticamente esamina i contenuti di quella trascrizione e giunge alla conclusione che la figura di San Bernardino è degna di figurare non solo nelle storie letterarie, ma anche in quelle del teatro. Va aggiunto che le geniali invenzioni del francescano, fonte importante per l'ininterrotta costruzione della sua sacra rappresentazione da parte del premio Nobel Dario Fo, lo divennero anche di più dopo la pubblicazione delle prediche senesi del 1427. (S.L.L.)

Doveva essere fascinoso e terribile durante l'agosto 1427, sulla piazza del campo a Siena, frate Bernardino con la sua tonaca scura, il dito levato in un gesto che immaginiamo per i predicatori d'ogni tempo, quello fissato indelebilmente da Manzoni nel sacro furore di fra Cristoforo. E mentre invocava su eretici e streghe, fossero pure suoi parenti stretti, il fuoco dell’inferno, e magari di qualche rogo più materiale, la sua voce doveva essere forte, metallica, melliflua, sirénica, mobilissima, capace di aggredire e di persuadere, attraversando l’intera gamma dell’espressività umana, animale, perfino naturale: doveva saper gridare e gorgogliare, gracchiare come il corvo e squillare come la tromba, gracidare come la ranocchia e ronzare come il moscone, mormorare come il fiume o fremere come le fronde.

Una piazza come palcoscenico
Doveva essere uno spettacolo strepitoso, ipnotico: e un poco anche corrusco. Seducente, comunque. Quell’uomo solo, sul palcoscenico di un teatro che lo splendore della grande piazza dagli angoli smussati, edificata a imitazione del mantello della Madonna, rendeva ancor più allegorico, pareva voler affrontare nel suo discorso tutti i temi della predicazione tradizionale, così cara alla famiglia francescana dell’Osservanza, rimasta fedele al modello dell’antico fondatore. Parlava di vizi abissali e di serafiche virtù: opponeva le forme d’una sacralità astratta e geometrizzante, sublimata oltre il cielo dantesco delle stelle fisse, alla concretissima, quotidiana carnalità delle tentazioni e delle cadute: era teologo e filosofo, citava le fonti autorizzate, infarciva il discorso con i versi dei grandi poeti volgari ai quali la gente s’era ormai affezionata, grazie anche ai predicatori mendicanti. Poi, con straodinario mutamento del punto di vista, cambiava tono, passava al dialetto o al gergo degli operai e dei popolani, ricorreva alle frasi fatte, ai luoghi comuni in cui potesse riconoscersi il buon borghese dai costumi morali.

Voci dall’anima e dal corpo
Prendeva a colloquiare con un personaggio inventato, che interpellava con il «tu»; lo disegnava lì accanto, sull’ambone; gli prestava le battute, facendone una spalla perfetta, quasi l’emblema dell’ascoltatore idealizzato, e insomma l’astrazione di «tutto il pubblico potenziale e reale» identificato e coinvolto nel teatrino allegorico della piazza. Teatro mentale, incardinato completamente su quel caleidoscopio sintattico, su quel movimento prospettico della lingua. E chissà: forse a quella spalla immaginaria, come ogni grande attore, offriva anche la voce, una delle molte sue voci, facendolo parlare con timbri e toni nuovi, fino ad ingannare gli astanti con l’illusione di stare partecipando a un vero dialogo. Era la prestidigitazione di un coinvolgimento totale: anima e corpo, occhi ed orecchie, e lingua.
La trascrizione puntale ed esatta di quel miracolo di rappresentazione totale è stata fermata, dapprima sul posto, mediante tavolette di cera, quindi, una volta tornato «alla sua buttiga», attraverso una controllata trascrizione «in foglio», da un «Benedetto di maestro Bartolomeo cittadino di Siena, (...) cimatore di panni». Abbiamo così, eccezionale documento di pura oralità inchiodato alla testimonianza in diretta di «uno del pubblico», l’effetto realistico della voce che tuona dal pulpito, e dell’ascolto appena leggermente smaliziato, quasi di un antropologo sul terreno, consapevole della funzione prestigiosa che sta assumendo di fronte ai posteri.
Benedetto «cimatore di panni», fiero del ruolo di stenografo di un grandissimo oratore sacro, conserva con maniacale attenzione le sfumature del dettato, l’inclinazione dialogica e gestuale di quelle prediche perfettamente fabbricate, secondo un’architettura equilibrata e una dinamica misurata con il bilancino.
Quelli che i linguisti definiscono tratti soprasegmentali, marche prosodiche, fonetismi mimici, elementi tipici della funzione fatica e conativa del discorso, sono stati puntigliosamente riconosciuti e inscritti nel codice testuale dal coscienzioso tachigrafo Benedetto, registratore, nella sua reportatio, di una delle più coinvolgenti esperienze del suo tempo, a mezza strada fra la concione politica, l'esortazione moralistica, la messa in scena spettacolare. Sentiamo le cadenze locutorie miranti a trascinare al riso o allo stupore («Siiii-Perchéeee?»), i lazzi espressivistici («E, E, Effe, non che e, e...»), le sonore onomatopee che certo venivano accompagnate da un gran gesticolare di mani e di braccia e di testa («L’angiolo sicondo si pose la tromba a boca, tpu, tpu, tpu...»); vediamo con gli stessi occhi della mente di chi era in piazza, quell’agosto del 1427, la mimica dello stile che lo sguardo, i muscoli facciali e il tono della voce dovevano replicare efficacemente («Hai tu veduto quando uno è turbato cor un altro? Sai come elli se li dimostra? Elli se li dimostra col grugno. Vedi: così...»).
Lo scopo è edificante: difatti, alla lettera, Bernardino intende trascinare l’ascoltatore, fargli sentire «a parola a parola come l’edifìzio si fa e viene crescendo a poco a poco», nel parlare «largo e aperto», e comunque sempre «chiarozo chiarozo». E a questo fine tutti gli strumenti comunicativi sono utili: i modelli sintattici disponibili all’ellissi, al discorso indiretto libero, agli anacoluti, allo stile nominale, allo spregiudicato e complice plurilinguismo (sia pur ridotto rispetto a quanto avverrà nelle più tarde prediche «mescidate», che Lucia Lazzerini ha studiato con originalità e acribia).
In qualche modo, Bernardino precorre le tecniche della comunicazione di massa, le plasma, le codifica, le applica con duttile versatilità a proprio vantaggio, non esitando a introdurre il formulario dell’oralità «diretta» nel ritmo del discorso indiretto: invita il pubblico a seguirlo nelle circonvoluzioni del pensiero («Volta mano!...»), a lasciare la piazza («Ora a casa!...»), a dar credito d’autorevolezza alla sua parola, accompagnando idealmente i percorsi della sua rappresentazione linguistica («Chi è uso a Vinegia? Ecci niuno chi vi sia stato? Lui sa se dico il vero o no...»). Accende exempla narrativi, incastonandoli nel corpo di severi ammonimenti parenetici («O fanciulli, fanciulli: qual è quella cosa che sta nell’acqua e non si molla? Noi sai? È il sole. Così dico a te: come vedi il sole che va sopra all’acqua e sopra el fango, e non s’imbratta, così fai tu...»); inventa magnifiche favolette, magari prendendo spunto da un nome fantasma che doveva esser celebre, e che si scopre derivato dal fraintendimento di qualche glossa dell’esecuzione testamentaria (« ’Or qui sta il ponto!’ disse Lippo Topi...»).
La lingua di Bernardino è sapidissima e insieme tutt’altro che casuale: è calibrata, avvertita nel ricorso ai neologismi, alle forme stilistiche più preziose. Si scoprono efficaci invenzioni («operale», «rincagnato», «sgrifalare», «bàdolo», «oparazzo»...), ed anche prime attestazioni di termini poi entrati in uso corrente, ma che dovevano essere già noti al pubblico, e che sono scelti, con tutta evidenza, per produrre sugli interessati un effetto di shock e di cooptazione.
L’equilibrio sintattico è ottenuto mediante oculati ricorsi alle rime in prosa; per sottolineare l’enfasi anziché il superlativo si utilizza l’interazione dell’aggettivo; si imbastiscono strutture parallelistiche anche complesse, per bilanciare lunghe descrizioni che deformano verso l’ellissi il flusso sintattico. Alla base di questo miracolo della comunicazione pubblica Bernardino pone una matura, intelligente drammaturgia della parola, una strategia allocutiva sofisticata da recuperare funzionalmente nel proprio testo scenico, verbalizzandolo, ogni tratto mareriale, comportamentale, ambientale, perfino le più banali distrazioni: una mosca che svolazza intorno al suo naso, un cane che attraversa la piazza, le donnette che disturbano chiacchierando o che s’allontanano per sbrigare le faccende.

Per un uditorio borghese
Le sue smorfie, gli sbalzi vocali, la gestualità che s’intuisce altrettanto ricca e screziata quanto la variatici dello stile discorsivo, sono, sotto la pelle di queste prediche-fiume, i tratti giullareschi di una consapevole accettazione del modello di performance più adeguato alle nuove esigenze del pubblico misto delle nuove città borghesi. Così come Lucia Lazzerini studiò le affinità fra l’eclettismo dei predicatori «barlettizzanti», cioè maccheronici, e quello di certi umanisti anticiceroniani, «irregolari» e oltranzosi, quali Filippo Bernaldo il giovane, allo stesso modo nella sua intelligente e informatissima introduzione, nelle note ormai imprescindibili, se non perfino insostituibili, Carlo Delcorno rileva come «Bernardino si rivolge con spregiudicatezza alla narrativa borghese, che dal Novellino al Sacchetti rappresenta una delle più robuste linee di espansione della letteratura in volgare, e delle più sollecitanti per chi si rivolgeva alle folle della città, arricchendo e variando il repertorio della predicazione tardo-medievale».

L’avanguardia di un francescano
L’edizione di questo ciclo, non ancora «critica» ma assai avanzata nello studio della tradizione testuale, e per di più irrobustita da numerosi strumenti di esegesi, rappresenta una tappa fondamentale per la conoscenza di quell’ampio, non ancora ben sondato settore della teatralità fra Medioevo ed età moderna: teatralità diffusa, o se si vuole teatrabilità potenziale, aperta a soluzioni disparate, così alla polvere del palco come alle pieghe dell'espressivismo linguistico.
Tra Boccaccio e Luigi Pulci, tra Sacchetti e Leonardo da Vinci, ma anche tra le sacre rappresentazioni e certi squarci nei fondali narrativi dell’Orlando furioso, come Delcorno aveva già dimostrato in Exemplum e letteratura (Il Mulino, Bologna 1989), stanno le madornali sceneggiate, da diabolico burattinaio dello spirito, del francescano Bernardino.


“il manifesto – La talpa libri”, venerdì 29 giugno 1990

1 commento:

Faraone76 ha detto...

Buongiorno,

volevo segnalare che ulteriori informazioni su san Bernardino da Siena si possono trovare nel libro "Benedetta Maremma. Storia dei santi della bassa Toscana" edito dalla Sarnus che racconta la vita e il culto di 25 santi tra le province di Livorno e Viterbo.

Cordiali saluti

Marco Faraò

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