2.9.17

Contro il mito della polis. Vegetti sull'etica degli antichi (Luciano Canfora)

L’antichità classica è stata un banco di prova importante, sul piano teorico e su quello pratico, per quel che riguarda il problema dell’organizzazione sociale, del rapporto tra individuo e comunità, dei valori che possono legare l’individuo alla comunità garantendone la tenuta. La rilevanza della problematica e delle soluzioni prospettate è stata tale che le epoche successive hanno dialogato con quegli antichi contribuendo non poco a fornir loro una collocazione extra-storica o, addirittura, al di sopra della storia.
Ciò è comprensibile: le soluzioni che è possibile prospettare al problema del vivere entro una società organizzata (è appunto questo l’oggetto della filosofia «pratica», o, se si vuole usare un termine greco piuttosto impreciso, dell’etica) non sono poi tantissime, e per giunta - in mutate situazioni - sembrano riproporsi al di là del mutare delle epoche. Il meccanismo mentale del classicismo fa il resto: e così può accadere che Plutarco additi vite «esemplari» di personaggi che paiono tutti tra loro contemporanei anche quando sono divisi da secoli, e Karl Popper - nell’età nostra - veda davvero in Platone l’antecedente teorico del moderno totalitarismo (così come Eduard Schwartz, molti anni prima di lui, aveva paragonato il reclutamento dei platonici reggitori-filosofi a quello dell’ordine gesuitico).
È dunque questo un terreno che può offrirsi facilmente alle idealizzazioni e ai corti-circuiti. Chi vi si è cimentato difficilmente si è sottratto al rischio: da Jaeger (Paideia) a Pohlenz (L’uomo greco) al ripensamento non ignaro di Freud cui Vernant e scolari hanno sottoposto la tragedia attica. Certo, c’erano anche altre strade: la più importante delle quali era, credo, lo studio del diritto: sia del diritto positivo, sia dei concetti e pregiudizi che gli fanno da sfondo. Come non vedere l’intreccio che vi è tra pensiero e normativa giuridica da un lato, etica (come teoria e come prassi) dall’altro?
Per il mondo romano questo piano di ricerca è stato a lungo fiorente e ha anche avuto una particolare ramificazione negli studi sui «concetti di valore» (Wertbegriffe). Per il mondo greco - così frantumato e disugualmente documentato - l’indagine è stata meno sistematica e meno influente: ma almeno il nome di Gernet e la sua importante prefazione alle Leggi di Platone dev’essere qui ricordato. Il mondo della prassi giudiziaria ha, d’altro canto, alle spalle un’etica diffusa - non codificata ma efficace, e non poco debitrice dei valori dei ceti dominanti: per il mondo greco del V/IV secolo a.C. è stato Kenneth James Dover a tentare una descrizione sistematica nel bel libro sulla Morale popolare dei Greci (nel quale gli oratori attici costituiscono una parte rilevante della documentazione).
Mario Vegetti ha tentato, con il suo manuale dal titolo L’etica degli antichi, Laterza, (dove però è soprattutto il mondo greco, dalle origini a Plotino, che figura in primo piano), una esposizione equilibrata dell’intreccio etica-politica (pensiero etico e prassi politica) nella polis classica. Il pregio dell’esposizione è nel rifiuto radicale, e ben motivato, del mito della polis. Se c’è una trappola in cui gli antichisti filellèni cadono facilmente è quella che consiste nel far propria l’auto-rappresentazione della polis dovuta ai «signori favorevoli al sistema democratico».
Uno che è caduto in pieno in tale trappola è Christian Meier, considerato - a causa del suo libro sulla Nascita del politico - il maggior interprete odierno delle categorie politiche greche. Scrive ad esempio Meier: «Il punto di vista che prevaleva nella concezione dell’ordine della polis non era quello dei governanti né quello dei governati: era quello della totalità della comunità».
Al contrario, Vegetti mette bene in luce che l’etica su cui la polis si regge è quella degli «uguali» aventi accesso alla politica: non dunque i valori dell’uomo «universale» ma i valori di un ceto.
Aggiungerei che, nel caso di quella comunità tutt’altro che aperta che fu la democrazia ateniese, assistiamo a un fenomeno di mimesi, che merita attenzione. Gli «uguali» qui sono i detentori della cittadinanza (coloro che Solone recuperò alla libertà stabilendo un baratro tra libertà e schiavitù), nondimeno il funzionamento di questa relativamente vasta comunità di uguali (più vasta di quella spartana a base razziale) è garantito dalla opzione di alcune grandi famiglie - gli Alcmeonidi in primis - in favore della «democrazia» (cioè del sistema che garantiva il sorteggio tra tutti i cittadini di alcune cariche rilevanti).
Quando Alcibiade descrive dinanzi agli Spartani il sistema ateniese arriva a dire che il comando, ad Atene, è tramandato per via ereditaria nell’ambito della famiglia, cui lo stesso Alcibiade appartiene, degli Alcmeonidi. I «signori» ostili a questo compromesso erano infatti ostili innanzi tutto alle grandi famiglie che avevano accettato il sistema. Ma il patto era precario e si poteva andare incontro a serie crisi, come infatti accadde più volte in Atene. E’ possibile affermare - non senza un qualche schematismo - che, pur tra repulse ed entusiasmi - è al sistema di valori di quei «signori» (Clistene, Pericle, Alcibiade nel V sec.) che si rapporta l’etica «democratica».
Piuttosto presto questo equilibrio si è rotto, dando avvio per un verso al giusnaturalismo «selvaggio» della sofistica, per l’altro alla ricerca platonica di una fuoriuscita dal circolo vizioso della città democratica: e la fuoriuscita era appunto, per Platone, nella formazione di un ceto selezionato per virtù e destinato al governo. A questa severa utopia, destinata a non sopirsi mai del tutto, tiene dietro la pacata sistemazione aristotelica: cui però non corrisponde nessuna città terrena. Dopo di lui la strada che masse assetate di salvezza e grandi elargitori di promesse di salvezza percorreranno sarà quella della «interiorizzazione della morale».
Opportunamente Vegetti prende le mosse - nel tratteggiare questo lungo cammino - dalle origini orfiche e dionisiache: un magma extra-cittadino (o forse anche anti-cittadino) che si sottrae alla «normalità» della polis racchiusa nello spazio compreso tra dèi da un lato e animali dall’altro. Il seguace di Orfeo mira alla perfezione divina, il soggiogato da Dioniso sprofonda in una ferinità senza ritorno. Tra i ceti e i gruppi (e con loro le donne) che la città antica respingeva ai suoi margini, queste forme di ricerca della salvazione individuale ebbero - com’è noto da Mondolfo a Burkert - una grande diffusione. Ed è ben noto (vale anche per il nostro presente) che quando i ceti scontenti della polis si rifugiano in queste fumisterie, vuol dire che la strada della liberazione è diventata un vicolo cieco. Per i signori, invece, c'è sempre salvezza: la predicheranno i nuovi maestri «cittadini del mondo», al cui fascino non si sottrassero i conquistatori del mondo: dagli Scipioni a Marco Aurelio, a Gallieno, promotore - con la consorte Salonina - della velleitaria Platonopoli di Plotino.


“La talpa libri – il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1990 

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