21.9.17

C’è anche l’amor scortese. A colloquio con Giorgio Manganelli (Camilla Cederna)

Ho comprato La penombra mentale, un vecchio libro che raccoglie interviste e conversazioni con Giorgio Manganelli, svolte nell'arco di 25, dal 1965 al 1990. L'ho sfogliato e ho subito goduto e postato la scoppiettante intervista di Camilla Cederna. Scommetto che ci sarà molto da leggere. (S.L.L.)

In questi giorni va in libreria Amore di Giorgio Manganelli. È uno dei suoi libri più misteriosi, un altissimo esercizio di stile, un seguito ininterrotto di paradossi, la summa dell’amore. Il suo significato? La nullificazione dell’amore, è impossibile amare, l’amore non è ragione, l’oggetto d’amore è imprendibile, irraggiungibile, invisibile, si può amare una cosa inesistente. Nessuno consegue ciò che ama, l’amore è inseguirsi e negarsi, è spasimo, cruccio, sfinimento, l’amore è morte e decomposizione.
Mutano gli scenari: la foresta complice, il palazzo d’acqua, la quercia oracolare, la funebre brughiera, la grotta gelida e nebbiosa, il deposito di teschi e cuori trafitti, la casa delirante che si allontana, ed ecco la fine: «Lo sai dunque che questa è la descrizione del nostro amore, che io non sia mai dove sei tu, e tu non sia mai dove sono io?».
Manganelli mi sta davanti nella sua accattivante polposità. Confessa di provare ansia in attesa delle domande, e chiede di poter passeggiare per la stanza, di bere un sorso di tè, finché si calma del tutto, mai un’espressione perplessa o rammaricata, mai più un’ombra d’allarme sul viso, spesso quel suo speciale, ironico, enigmatico sorriso.

Secondo te esiste l’amore o è cosa imprendibile, irraggiungibile, invisibile?
«Non sono posizioni contraddittorie: può darsi che sia irraggiungibile e imprendibile. Se alludi al mio libro, qualunque cosa si può scrivere intorno a una parola, sullo pterodattilo, lo yeti, il dodo (un’animale scomparso), lo snark (che non esiste, ma su cui Lewis Carroll ha scritto, un poemetto). Il mio è un libercolo didascalico, come un libro sulla vita delle api o delle mucche. La parola amore può indicare amore sacro, profano, degradato, degradante,
salvifico, beatricioso, dannato, velenoso, mendicante, protettivo, infame, materno, goffo, diffidente, desolato, premessa di abbandono, allucinatorio. E la parola che vuol dire di più e di meno.»

Si può amare una cosa inesistente?
«Soltanto.»

Quando hai amato per la prima volta?
«Nel quarto mese di gravidanza. Amando la madre, ho avuto il mio sano allevamento edipico: se no, non potrei essere nevrotico e isterico come sono.»

Che importanza ha l’amore nella tua vita?
«L’amore è un eccellente combustibile per alimentare il malessere che può condurre alla letteratura. È importante, estremamente utile che l’amore vada male. L’amore è la più importante matrice di menzogna, e la menzogna la più grande matrice di mondi. E la condizione che ci incita a creare la menzogna. La letteratura è menzogna.»

Hai mai amato un uomo?
«Se l’amore è riportato al valore di “eros” nel significato greco, sì. Sono stato coinvolto in molte situazioni di eros per esempio nei rapporti fra maestro e allievo. Il cattivo maestro che ignora l’eros non insegna nulla. Il buon maestro è l’innescatore di una condizione dell’eros. E il grande universo dell’eros che ci lega ad animali, nomini e donne. Non c’è momento meno sessuato dell’eros che nell’amore sessuale. Il momento dell’accoppiamento è il momento dell’abbandono del sesso. Il rapporto dell’eros è il rapporto che non distingue uomo e donna. O c’è condizione di eros o c’è condizione di rapporto pubblico, convenzionale, un rapporto che ti passa lo Stato. Certi matrimoni diventano un rapporto che ti passa lo Stato, e poi si disfano. L’eros è vero in quanto errore.»

Hai amici che ami e chi sono?
«La zona dell’eros, cioè dell’errore, è zona dove i nomi non esistono (anche i nomi appartengono allo Stato). Ho amici molto importanti, anche senza connotazione sessuale. L’esistenza di un altro è sempre un’apparizione, un doppio, un’allucinazione.»

Quale tuo amore passato preferisci ricordare o dimenticare?
«Non è compito della volontà rimuovere e dimenticare. Noi siamo costantemente abitati da quanto ci è accaduto. Mi piace pensare a me stesso e a tutti come a un solaio. Un solaio in cui stanno cose che sono a parte ma indispensabili, non accadono ma stanno. Non scelgo di ricordare niente, ma sono ricordato dagli oggetti che mi abitano.»

Ami mangiar bene?
«Col cibo ho un rapporto molto simbolico e certo imparentato con l’eros. Un rapporto cerimoniale, psicologicamente molto complesso. Tutto ha importanza: le persone, il ritmo, il ruolo, il tipo di rapporto con chi mangia con me. Un amore che sta decomponendosi tra due commensali, infetta qualsiasi cibo. Detesto la musica di fondo dei ristoranti: cambia il gusto dei cibi, come vedere la cipria sulla bistecca. A tavola amo soprattutto il peperoncino. Più che altro è una componente della mia vita, è un peyote laico, un ansiolitico. Su qualunque cosa lo metto. Mi dà un ruvido, contadino, bertoldesco benessere. Una strana, anche ironica magica vitalità. Davanti al peperoncino l’ansia si ritira come i vampiri davanti all’aglio.»
(A questo punto si telefona al ristorante già fissato per chiedere se hanno il peperoncino. Certamente: secco, macerato, nell’olio, in salse varie: e allora si conferma).

Che canzoni ami?
«Nessuna.»

Ami la Tv?
«Non la possiedo.»

Ami la musica?
«Meno l’opera della musica da camera. Passo dei lunghi momenti schubertiani: i Lieder, almeno due sinfonie. L’andantino di una delle ultime sonate postume è addirittura sconvolgente. I trii di Schubert possono far star male come certe sonate di Beethoven. Amo l’Ottetto di Mendelssohn, i giochi di silenzi di Webern, i fiati di Weber. Amo i quartetti di Mozart dedicati a Haydn. Haydn ha un suo gioco più secco, meno accattivante di Mozart.
Due elementi mi affascinano nella musica: 1) che alla musica nessuno chiede cosa vuol dire; 2) che la sua rigorosissima struttura retorica ha delle sue strutture interne geometriche, matematiche, che escludono che la musica possa essere pronuba di sentimenti. Amo la figura della “variazione”, cioè la possibilità di avere uno schema e di alterarlo lasciandolo identico. Un privilegio che la letteratura ha vissuto: il petrarchismo si muove nell’ambito di una coscienza geometrica, un esempio della quale è la variazione.»

Ami i romanzi autobiografici?
«Non c’è niente di più basso del romanzo autobiografico. C’è un momento drammatico nello scrivere, che è il momento dell’indifferenza. (Il lavoro del Petrarca è il lavoro dell’abrasione dell’io). Mentre il parlare d’amore esclude l’amore come passione (Privat-sache). Non ci può essere l’indifferenza nel romanzo autobiografico. Si sgretola, non esiste più. Proust è l’esempio di tale uccisione di tutto quello che è accaduto nella sua vita.»

Che scrittori ami?
«Così, alla rinfusa, Emily Dickinson (poesie e lettere), Fielding (Tom Jones), De Foe (Moll Flanders, stupendo). Ho convissuto con Dickens per quasi un anno. Ho letto tutti i suoi romanzi, e poi straordinari pezzi di giornalismo. Per esempio quando va a visitare la Morgue di Parigi, e viene deglutito dal fascino del cadavere di un annegato. E un pezzo di un’allegria sfrenata, di un’ilarità isterica. Dickens è una figura molto torbida e sadica, è il caso più allucinante di uso rovesciato del sentimento.»

Ami i viaggi?
«Ho con loro un rapporto complesso. Una delle connotazioni necessarie al viaggio è il suo fallimento. Per molti anni non mi sono mai mosso, poi sono stato in India, Malesia, Cina, Kenia, Tanzania, Etiopia. L’Islanda è stato uno dei viaggi più eccitanti: un afflusso enorme di stemmi, di figure segnaletiche, di che cosa non si sa. Ma sono sempre impaurito dai viaggi, mi danno angoscia.»

Ami Milano?
«Sono nato a Milano e mi sono autodeportato a Roma nel ’50. Ero stato preso da un’incompatibilità affettiva col grigiore di Milano.»

Ami il teatro?
«Mi interessa più leggerlo che vederlo. Il teatro inglese lo trovo affascinante anche nella lettura. Dappertutto scintille di eros.»

Ami D'Annunzio?
«Sì. Recentemente ho letto La contemplazione della morte, dove parla di poesia come di “magia tecnica” e dice cose egregie su Pascoli.»

Ami Pascoli?
«Pascoli l’ho amato, l’ho detestato, oggi il rapporto con lui è un po’ sgarbato. E uno che si lascia sedurre. Gli manca una certa quantità di cinismo, di gelo.»

Ami Venezia?
«No, è una patacca culturale. Una città di una bellezza cosi insensata è ora diventata una moneta falsa.»

Quale parola ami?
«Sono invaghito di “uligine”: mi rifiuto di spiegarla» [naturale umidità del terreno, n.d.r.].

Ami gli animali?
«Ci si saluta con un cenno quando c’incontriamo. Ho un rapporto civile, discreto, coi gatti. Amo molto l’animale quando prende su di sé la funzione di stemma, come la zebra e il canguro.»

Ami te stesso?
«No.»


“la Repubblica”, 28/3/1981 – ora in Giorgio Manganelli, La penombra mentale, Editori Riuniti 2001

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