2.8.17

Tomaso da Modena a Treviso. Quei Catari, che buggeroni (Federico Zeri)

La città di Treviso ha voluto commemorare il sesto centenario della morte di Tomaso da Modena, il grande pittore che a lungo visse entro le sue mura, con due diverse manifestazioni: una mostra di opere (allestita nella ex-chiesa di Santa Caterina e nel Capitolo dei domenicani di San Nicolò, dove sono esposti anche codici miniati e documenti) e un premio per un saggio storico-artistico. Quest’ultimo, promosso dalla Associazione "Tarvisium”, ha avuto concorrenti italiani e stranieri, ed è stato vinto dall’inglese Robert Gibbs, dell’università di Glasgow. La sua monografia su Tomaso ne discute la formazione entro l’ambito della Bologna del primo Trecento, ed esamina con grande acume e ricchezza di informazioni la trama iconologica degli affreschi "domenicani” nel Capitolo di San Nicolò: c’è sinceramente da augurarsi che questo studio, dai risultati nuovi e illuminanti, veda presto la luce a stampa. Quanto alla mostra, essa è necessariamente limitata; musei e collezionisti non sono più propensi come una volta al prestito dei fragili e deperibili dipinti su tavola, tanto meno di quelli dovuti ad un artista di estrema rarità. Ma tale lacuna non si fa sentire: bastano gli affreschi del Capitolo di San Nicolò, quelli del ciclo di Sant'Orsola (che la sistemazione nell’ex-chiesa di Santa Caterina consente di leggere come mai prima d’ora) e gli altri, sparsi in vari edifici sacri della città, a riconfermare l’eccezionale statura dell’artista, e a riproporre una serie di quesiti circa il significato del suo stile, specie in rapporto alla data e al luogo.
Oggi che la pittura del Trecento bolognese è abbastanza nota nella sua consistenza e nel suo svolgimento, Tomaso riesce ancor più sorprendente per la piena ricchezza, esuberante di vitalità, delle sue immagini: al confronto, i Bolognesi (da Vitale a Jacopino, Dalmasio e Simone) sembrano appartenere ad un’altra dimensione sociale e storica, ad una fase di remoti antefatti. Eppure, gli affreschi di Tomaso nel Capitolo di San Nicolò sono del 1352, come dice l’iscrizione dedicatoria, e quelli del ciclo di Sant’Orsola debbono essere nati (in base a considerazioni di stile) circa un decennio più tardi: a chi conosce la pittura dell’area veneto-padana questa situazione cronologica, rapportata all'artista, è una sempre nuova fonte di sorpresa. Cosa ha consentito a Tomaso di superare d’un colpo la tipologia, strettamente allusiva, dei Bolognesi, spingendosi sino alla più meticolosa specificazione fisionomica? Nella serie dei "Quaranta personaggi illustri dell’Ordine Domenicano” nel Capitolo di San Nicolò, la varietà dei tratti individuali è senza limiti, e sostenuta da una scrupolosa osservazione dei moti di umore e di tensione mentale: una curiosità ottica degna di un fisiologo. Quanto poi alle varie scene del Ciclo di Sant’Orsola, un’esuberante carica vitale, animata da una linfa densa di calore umano (e persino spregiudicata nella sua vivacità) descrive fatti e personaggi, senza scendere mai di tono, neppure nei passaggi secondari. Anche qui l’inesauribile capacità di cogliere i caratteri individuali si intreccia con una rosa di espressioni e di gesti di cui sarebbe vano cercare i precedenti: come nel “Battesimo del Principe d’Inghilterra”, con quel nudo (davvero tutto nudo) e, lì accanto, il personaggio che, nello spogliarsi a sua volta, si è impigliato la testa nel farsetto e nel divincolarsi scopre lo "slip” da cui escono i peli del pube.
Che la nascita di un repertorio visivo di tal fatta sia dovuta al genio di Tomaso è fuori discussione. Ma il genio di un artista è in stretta connessione (direi simbiosi) con le aspettative e le inclinazioni dei committenti: la Musa dei Romantici ha oggi preso il nome di società. Per comprendere l’arte di Tomaso è quindi indispensabile considerare la situazione, a metà del Trecento, di Treviso, anche nei confronti di Venezia e dell’area genericamente padana.
Un secolo addietro, Treviso era stata coinvolta nelle lotte tra papato e impero, questo nelle persone di Federico II e di Ezzelino da Romano. Precisamente, Treviso si era trovata al margine di un territorio nel quale (comprese le città di Vicenza e Verona) la tensione tra i due poteri aveva toccato cime arroventate. Lo stesso Federico II aveva ben compreso 1’ importanza, per i suoi fini, dell’area veneta, concedendo in moglie ad Ezzelino la figlia naturale Selvaggia, presenziando alle nozze e (quale simbolo vivente della maestà imperiale) attraversando città e paesi del Veneto su di un trono portato da un elefante. Morto Federico e crollato con lui (per nostra disgrazia) il suo grande progetto, l'area in questione fu sùbito sottoposta ad una riconquista da parte guelfa (alias clericale); ebbe allora inizio quel processo che, molto prima della Controriforma, ha trasformato il Veneto in una sorta di Vandea italiana. Nella realizzazione di questi disegni, Treviso ebbe in sorte una posizione privilegiata, al punto che i Domenicani (un ordine per il quale, come si è detto, Tomaso eseguì uno dei suoi capolavori) l’avevano scelta a sede della loro provincia della Lombardia Inferiore. La piccola città aveva il vantaggio di essere priva della fluttuante e poco controllabile popolazione studentesca di Padova, e, rispetto a Vicenza e Verona, si trovava più vicina a Venezia, costituendo così una punta avanzata verso il rigido laicismo del governo della Serenissima. Nella città lagunare la separazione tra potere politico e potere religioso era rigorosissima: tanto era il timore delle ingerenze ecclesiastiche da vietare a sacerdoti e monaci l’accesso alle cariche pubbliche, sino ad allontanare al grido di "Fuora Papalisti” chiunque avesse parenti o amici negli Ordini, quando il Gran Consiglio o il Senato discutevano affari relativi al clero. La frattura nei confronti di Treviso risulta anche dai testi pittorici, condotti secondo uno stile costantinopolitano, bizantino, quando Tomaso aveva già dato prova, a breve distanza, del suo talento. Nel 1352 Paolo Veneziano era ancora operoso con la sua prolifica bottega, e Venezia non si era minimamente accorta del personaggio, nel primo decennio del secolo, di Giotto a Padova.
Ma nella geografia cattolica del Trecento, Treviso era importante per un altro e più rilevante dato di fatto: la sua posizione lungo la via di accesso che dall’Istria e la Penisola Balcanica conduce alla Valle del Po, la strada cioè per cui in vari tempi e in varie ondate era giunta nell’Europa occidentale la più temibile delle eresie del periodo che oggi chiamiamo Medioevo. Partito dalla Bulgaria, questo movimento aveva conquistato buona parte della Bosnia e dell’Erzegovina; poi era dilagato in Lombardia e nell'Italia centrale, giù sino all’Umbria, per finire, attraverso la Provenza, a Tolosa e nella Spagna settentrionale. Bulgari, Bogomil, Patarini, Catari, Albigesi sono i nomi di volta in volta riferiti a questi lontani discendenti dal manicheismo, per i quali il mondo era dominato da due forze opposte, il Bene e il Male, al primo dei quali si ricollegava l’Anima, al secondo il Corpo con la sua esperienza dei sensi. Le terribili, sanguinose persecuzioni di cui essi furono oggetto da parte della Chiesa cattolica (con la perdita dei testi sacri) sono la causa dell'oscurità di cui è avvolta la loro dottrina, almeno nei particolari; e della violenta campagna diffamatoria rivolta contro di essi (accusati di immondi riti sessuali) resta traccia nel verbo "buggerare”, che deriva da "bougre”, "bulgaro”, e che nel suo pristino significato equivale a "inculare”.
Ma per tornare ai nostri eretici, sappiamo che essi erano guidati da una sorta di clero, i "perfetti”, uomini e donne dalla condotta irreprensibile: essi dovevano evitare ogni contatto sessuale (emanazione di Satana), ed attenersi ad una dieta dalla quale carne, latte, formaggi ed uova erano esclusi, in quanto derivati dal coito. Solo il pesce era ammesso alla loro tavola, perché si credeva che fosse un prodotto naturale dell'acqua. Il sommo sacramento si chiamava "consolamentum”, con il quale si diventava "perfetti”, e che veniva somministrato anche agli ammalati in punto di morte: ma nel caso che dopo averlo ricevuto l'ammalato fosse guarito, molto spesso, nel timore di non essere in grado di adeguarsi al tipo di vita che esso implicava (castità, digiuni e, una volta al mese, pubblica autocritica e pubblica confessione dei peccati anche di pensiero) egli ricorreva al suicidio spirituale, la cosiddetta "endura”. Limitando il nutrimento alla sola acqua (in cui veniva sciolta una puntina di miele) si provocava uno stato di progressivo deperimento, lentissimo ma che conduceva alla morte: e sappiamo che intere comunità, disperate di non poter raggiungere la suprema perfezione, si autoeleminarono con questo sistema.
Pur basando la propria dottrina su un sistema dualistico di Anima e Corpo, Spirito e Materia, la Chiesa romana ha sempre guardato con sospetto e ostilità ai movimenti che privilegiano il polo positivo del binomio sino ad annullare l’altro. “Ora et labora” è il motto del monachesimo occidentale, ben diverso da quello del cristianesimo d’oriente, con i suoi eremiti rifugiati in grotte tra serpi e scorpioni, o bruciati dal sole del deserto, oppure isolati in cima ad una colonna, comunque in uno stato di perenne preghiera. Ai movimenti di sfrenato ascetismo, o che hanno negato la validità dell’esperienza dei sensi, oppure tesi al disfacimento corporeo al fine di raggiungere la perfezione spirituale, la Chiesa ha sempre risposto con il riaffermare la validità della vita, dell’identità corporea, del rapporto tra individuo e mondo esterno grazie a vista, udito, tatto, gusto e odorato.
Tra il 1600 e il 1610, la reazione contro il calvinismo e i suoi derivati puritani prende corpo, nel cattolicesimo, con le poppe e le cosce delle sante di Pietro Paolo Rubens, poi con la carnalità di Gian Lorenzo Bernini, con le cerimonie fulgide di colori, profumate di fiori e di incenso, con le spericolate prospettive "barocche” che ornano le chiese, scintillanti di marmi e metalli. Ora, il linguaggio figurativo di Tomaso da Modena, così carnale e ricco di esperienze visive, così vario di colore (e così remoto dal bizantinismo simbolico che a Venezia, cioè a pochissima distanza, non aveva alternativa di sorta) va considerato in rapporto alla locale vicenda dei Catari. I quali, proprio nella Marca Trevigiana, avevano trovato valido protettore in Federico II, nel suo vice, Ezzelino, e, sino al 1260, in Alberico da Romano; nessuna meraviglia, dunque, per l’importanza attribuita dai Domenicani alla città di Treviso e per la mobilitazione da essi promossa anche nel campo delle arti figurative.
Del resto, un rapporto del genere non era nuovo; c’è persino da chiedersi se una delle spinte che provocarono la rivoluzione artistica che prese l’avvio alla fine del Duecento tra Firenze e Roma (di cui il primo, grande monumento sono gli affreschi della Basilica superiore di Assisi attribuiti a Giotto) non sia stato proprio la diffusione del movimento càtaro sino alle porte di Roma; intorno al 1250 una delle più floride comunità si trovava a Val di Spoleto, cioè nella parte bassa della città (quella oggi attigua alla chiesa di San Gregorio). E già sin dai primi tempi della sua esistenza la Chiesa aveva dovuto affrontare problemi del genere, risolvendoli in modo analogo. Così avvenne con le sette gnostiche, prodotto del grande movimento libertario che agitò l’Impero romano tra il 230 e il 280. Non tutte queste sette erano approdate a vane discussioni teoriche e a quisquilie persino grottesche: come i Valentiniani per i quali, a causa della natura divina, al corpo di Gesù Cristo erano estranee le funzioni del defecare e dell’orinare e, per gli stessi motivi, la Santa Vergine non aveva mai avuto le mestruazioni. Una ricerca di purezza assoluta, dunque: ma che i Barbe-lognóstici portavano all’estremo, sino a toccare riti per i quali calza il detto messo da Jorge Luis Borges in bocca ad uno dei suoi personaggi: «Specula et copulationes sunt abominabilia, quia multiplicant homines», specchi e congiungimenti carnali sono cose abominevoli, perché moltiplicano gli uomini. Nelle loro riunioni, dopo aver provocato l’aborto di donne incinte, essi mangiavano il feto mescolandolo a varie sostanze, imbrattandosi il volto di sperma umano. Come negazione della vita non si potrebbe andare più oltre; ad essa la Chiesa rispose adottando il repertorio formale dell’arte contemporanea, che venne adattato a temi cristiani. E’ a questo momento che appaiono i sarcofagi (e anche le statue) che rappresentano, a tre dimensioni, Cristo, i fatti del Vangelo, la Madonna, i Santi. Ma rispose anche con quegli straordinari festini sacri che si svolgevano nelle chiese dedicate ai Martiri, con le mense cariche di cibarie, vini, frutti, festini che, come si legge in Sant’Agostino, davano luogo, anche entro le mura di San Pietro in Vaticano, a sconce gazzarre di avvinazzati, con risse, canzoni oscene, incontri di loschi personaggi. Festini che parrebbero impensabili, e che furono aboliti quando il pericolo gnòstico scomparve.
È possibile affermare che ai nostri giorni sono scomparse le strutture mentali che portarono ai Barbelognóstici o ai Catari? Lo stupefacente suicidio collettivo del reverendo Jones e dei suoi seguaci nella giungla della Guyana sta a provare tutto il contrario; solo che alla miscela di acqua e miele dell’"endura” si è sostituito il cianuro di potassio sciolto nell’aranciata marca Tropicana, e (per la secolarizzazione dei temi mitologici) alla ricerca della Gerusalemme celeste si è sostituita quella della Gerusalemme di marca terrestre, identificata, dal reverendo Jones, nell’Unione Sovietica.


“L'Europeo”, 4 ottobre 1979

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