20.8.17

Dioscuri in trasferta: De Chirico e Savinio a Monaco, nella nuova Atene (Claudio Gulli)

Giorgio De Chirico, Autoritratto con Savinio (1924)
Quello del 1906 dovette essere un inverno particolarmente freddo, per Giorgio e Alberto de Chirico. Il padre, l'ingegnere Evaristo, se n'è andato l'anno prima e ha lasciato i figli orfani a diciassette e quattordici anni. Il defunto aveva accumulato una discreta fortuna costruendo una rete ferroviaria in Tessaglia e alla famiglia dovette spettare una rendita che durò per circa un decennio. Ad Atene, durante l'adolescenza, entrambi avevano appreso i rudimenti di un'arte: Giorgio, la pittura, al Politecnico; Alberto, il pianoforte, al conservatorio. Dopoillutto, si pone il quesito di come continuare gli studi. Non ci furono dubbi: «tutti ci consigliavano di recarci in Germania, a Monaco», che «era allora un po' quello che ora è Parigi» (De Chirico, Memorie, 1945). La madre Gemma Cervetto, personaggio che non mancherà di segnare il percorso dei figli, dà però un ultimatum: «Se fra due anni non sarete riusciti a far qualche cosa, ritorneremo ad Atene» (Intervista al Corriere, 1907).
La Monaco che si apriva davanti agli occhi dei Dioscuri era una città in pieno rigoglio, economico e culturale. «C'era un benessere, una facilità di vita che mi stupirono» (Memorie, '45). Calato il sipario sugli eccessi di Ludwig II (1886), con il principe reggente Luitpold si era aperta una fase di prosperità e ottimismo. Munchen leuchtete, Monaco risplendeva - sosteneva Thomas Mann - con i suoi «giovanotti, che fischiettano il motivo del Sigfrido», gli acquarellisti che campano a giornata, i negozi di antiquariato e di fotografie, le librerie d'arte, le ricche signore coi «capelli tizianeschi» (è l'incipit della novella Gladius Dei, 1902). Quell'idea di «nuova Atene», elaborata in epoca neolassica da Ludwig I e dal suo architetto di corte, Leo von Klenze, aveva trovato organico completamento nel corso dell'Ottocento. Lunghi viali da percorrere in carrozza, con archi trionfali e padiglioni in vetro nei punti di fuga, attorniati da palazzi o da ville neorinascimentali, giardini pubblici e caffè «comodissimi», «ovunque un grande aspetto di ordine e civiltà» (Memorie, '45).
Giorgio è subito ammesso all'Accademia di Belle Arti, un palazzaccio luminoso e bardato di fregi, clipei e colonne, con iscritti i nomi di illustri antenati: dovette sembrargli a prima vista un arcano tempio del sapere. Ma, una volta entrati, l'incantesimo sembrerebbe svanire. Nelle Memorie del '45, scritte tutte però a scopo autocelebrativo, i compagni sono ricordati come «pessimi»: «nemmeno uno che sapesse tenere un carbone o un pen-nelloinmano». Per non parlare dei professori e degli insegnamenti che impartivano: «La pittura che allora dominava era la pittura della Secessione; quella pittura che in seguito creò a Parigi lo stile Salon d'Automne e poi dilagò sul mondo creando la pittura moderna. Tutti quei stili o generi che dir si voglia messi di moda a Parigi dalla nefanda propaganda dei mercanti ebbero la loro origine a Monaco». Il responsabile dello sfacelo sarebbe sostanzialmente Franz von Stuck, cuore pulsante del movimento secessionista fondato nel 1892, insegnante all'Accademia, ma probabilmente in posizione minoritaria rispetto a un corpo docente ancora tradizionalista. De Chirico, che non frequenterà i suoi corsi, contrarrà una salda antipatia per questo pittore, che pure eleggeva la Grecia più nera e orfica a musa personale: «Ecco Franz von Stuck (^). Di questo Sartorio germanico vi è un Oreste perseguitato dalle Furie che fa pensare a qualche reclame per pneumatici Pirelli» (Galleria d'arte moderna, «Valori Plastici», 1919).

I Tedeschi sono medievali
Alberto intanto va a lezione di armonia e contrappunto da Max Reger, pianista e compositore di una certa fama, che viene soprannominato ‘il secondo Bach'. Ci rimarrà per un «anno e più». Quel maestro chegli«davailtema»chiudevaleg-germente gli occhi, mentre lui improvvisava la fuga. «Ma che gusto (c'è a) improvvisare una fuga davanti a un uomo che dorme, anche se questo uomo è il secondo Bach?». Il bluff è presto svelato: «il sonno per Max Reger era una leggerissima tendina dietro la quale egli si nascondeva per meglio vigilare. Guai se nello svolgimento della fuga qualcosa non gli andava a fagiolo. La palpebra scattava su l'occhio ircino». Forse il sedicenne sta capendo anche meglio la civiltà in cui si trova. Dirà: «I Tedeschi sono medievali». Almeno lui trova un maestro reale, e impara una condizione di libertà e di scavo, più che un mestiere o una regola. A Monaco, non vede i volti degli altri: «I passanti andavano curvi, la testa ravvolta in una nube divapore» (sono le belle pagine tarde di Savinio, Il mio professore, '51): questo forse lo incuriosisce a sondarne i misteri. Poiché ilragazzo non parla bene il tedesco, Giorgio lo accompagna dal pianista in veste di traduttore. E, a casa di Reger, il pittore ricorderà un «grande album contenente delle magistrali calcografie che riproducevano quadri di Bocklin» (Memorie, '45) - è una folgorazione che porterà a un fanatismo.
L'enfant prodige del piano ha ancora la sfrontatezza degli anni d'oro, e quando Pietro Mascagni passa da Monaco in tournée, corre a incontrarlo per suonargli due atti di un'opera di sua invenzione: è la Carmela (1907), purtroppo perduta, «un dramma tra pescatori dell'isola d'Ischia». Il maestro è soddisfatto e Alberto corre a riferirlo alla madre, che reagisce con sospetto: «se è vero, fattelo mettere in carta». Così il giovane ne ricava una specie di pagella di mano di Mascagni. La madre e Alberto si trasferiscono prima a Roma e poi a Milano, nella speranza di ottenere qualcosa dal compositore di Cavalleria rusticana o da Tito Ricordi. Ne verrà fuori niente più di un'intervista dal titolo Il compositore quindicenne, apparsa sul Corriere della Sera del 19 ottobre 1907, dove Alberto dichiara poco però, perché presto, nel colloquio col giornalista, si inserisce la madre. Si sentirà ancora a lungo il peso di questa donna rude e invadente - fa fede una lettera del '18, di Cardarelli a Carrà: «A me l'arrivismo di questi due De Chirico comincia un pochino a puzzare. Poi c'è quella madre che è una specie di Cornelia madre dei Gracchi preparata per una storia romana dell'avvenire che faremo scrivere a Apollinaire sullo stile della Mammella di Tiresia» (dal Pellegrino appassionato di Paola Italia, per Sellerio, 2004).

Vita grigia e noiosa
Giorgio rimane quindi da solo a Monaco, «ancora per un anno», il 1907. Dirà di quel periodo: «Vivevo una vita grigia e noiosa. Di giorno lavoravo all'Accademia, la sera andavo al caffè a giocare a biliardo o a scacchi» (Memorie, '45). Lo studio comporta lunghe sessioni di disegno dal vero, altro metodo che in seguito contesterà: «bisogna principiare al copiare figure riprodotte a stampa», prima di dettagli del corpo umano, poi «copia delle statue», prima drappeggiate e poi nude - è il fondamentale articolo sul Ritorno al mestiere, «Valori Plastici», '19, ormai in pieno clima di ritorno all'ordine. È un suo metodo, che probabilmente si forma sin dagli anni di Monaco: «né basta andare a girare nei musei ed estasiarsi davanti alle opere antiche; per imparare qualcosa dai musei bisogna copiarci e copiarci» (Soffici a Firenze, «Il Convegno», '20) perché «oggi maestri non ve ne sono» («Il Primato», '20).
Lo studente di pittura si sarà allora sentito a suo agio alla Neue Pinakothek, con quel suo fregio esterno dipinto, con molta grazia, dal romantico Wilhelm von Kaulbach (una bomba lo avrebbe distrutto): lì poteva individuare una continuità alla quale riallacciarsi, a voler proprio schierarsi contro lo Jugendstil. Un altro luogo di incanti sarà stato la galleria Schack: per ospitare questa sontuosa collezione di pittori tedeschi dell'Ottocento, formata da un diplomatico, era stata appena costruita una nuova e decorosa palazzina guglielmina, lungo uno dei viali più alla moda (1909, ancora oggi visitabile, con un allestimento degno). Qui De Chirico poteva ammirare un Tritone e Nereide di Bocklin (1873-'74), dove una ninfa che si crede onnipotente afferra un boa, come farebbe un bambino col suo giocattolo. È un dipinto che lo stordisce, tanto che lo riprenderà alla lettera, caricando inevitabilmente la dose di lascivia (Tritone e sirena, 1908-'09, collezione privata). Altri due dipinti di argomento bockliniano si collocano nel periodo monacense, o poco dopo: un Prometeo e una Sfinge (entrambi privati), dove i personaggi, sovrastati da mari cupi e rupi ripide, sono quasi risucchiati nei paesaggi funesti. Nel pieno di quest'attrazione, non poteva mancare una visita a Basilea: una Lotta dei centauri di Bocklin conservata nel locale Kunstmuseum (1872-'73) sta alla radice diun'altra Lotta di centauri di de Chirico (Roma, GNAM, 1909), che segna il culmine del culto giovanile per il pittore delle isole dei morti.
Nel 1905, Bocklin - morto quattro anni prima - era già stato ridimensionato dal grande critico modernista Julius Meier-Graefe, per-ciò,quandonel'20deChiricodedi-ca un articolo al pittore amato, gli appare giustamente come un eroe tutto suo. Anche Soffici lo crede un ‘maestro mancato', c'è chi lo taccia di ‘wagnerismo' e «i francesi lo accusano di non essere stato abbastanza pittore».

Poussin, unico da salvare
De Chirico si infervora: «Bocklin è stato classico nel senso più puro della parola»; «molto egli imparò dai primitivi toscani e dai grandi maestri del Cinquecento», soprattutto da Durer e Holbein, ma anche da Poussin, unico da salvare di tutto il Seicento, nelle improvvide selezioni di Giorgio. Quello suo è un rapporto sostanzialmente proustiano, ma attraversato da unamor-bosità che sfiora la cecità: «La prima volta che vidi la riproduzione di un suo quadro, ero ancora un bambino. Ne ebbi un'impressione chenondimenticaipiùeancheog-gi, con tutta l'esperienza acquistata, benché abbia dimenticato più d'un pittore da me ammirato negli anni andati, anche oggi, ogni volta che vedo un quadro di Bocklin, risento quella gioia strana e quella felice commozione che m'incoraggiano a far meglio; provo quel senso di felicità e di fede, che solo sa darmi la grande pittura».
Come avrebbe potuto seguirlo su questa strada il geniale fratellino? Sin da questo momento, lui si consacra a un autodidattismo selvaggio e girovago - e sognare maestri troppo lontani è forse più pericoloso che non averne per niente. Per Savinio, che adotterà lo pseudonimo da scrittore (dal '15) e poi da pittore (dal '24), la storia presto non avrà più insegnamenti da impartire. Rimarrà un certo disagio nei confronti dei ‘moderni', ma ci sarà spazio per posizioni del genere: «Trae maggior nutrimento dal passato chi rompe risolutamente con esso, come Picasso dalla pittura pompeiana, da Ingres» (Tommaso Moro e l'Utopia, '45). Predisponeva quindi, il Dioscuro minore, un terreno di memorie da collezionare e combinare a piacimento, di cui indagare se si vuole la scaturigine, secondo i termini di una libertà dilettantesca, sempre condotta dal principio del piacere. Come ha chiarito Debenedetti, le sue costruzioni narrative implicano un uso dell'intelligenza che può prescindere dall'ausilio della mano. Anche l'opera figurativa, perciò, varrà essenzialmente come «gioco segreto della felicità», e agli antipodi del feticcio dechirichiano. Per tornare a una definizione di Sciascia, cui siamo affezionatissimi: Savinio, come un Borges nostrano (Introduzione ai primi Scritti dispersi per Bompiani, '89). Magari negli anni di Monaco, in comune con il fratello, si consumava quell'attaccamento bavarese al mistero greco, ma senza per questo soggiacere a una martellante evocazione del fantasma bocklinano. Savinio riuscirà col tempo a forgiare un suo balocco inquietante, come un relitto incagliato a riva
dopo una tempesta, e a volte improvvisamente lasciato a ondeggiare sul mare.
De Chirico invece, a ventuno anni, si ricorda «stanco di Monaco e già in possesso di possibilità pittoriche non comuni, torna in Italia ove trascorre ancora un paio d'anni tra Firenze e Milano, senza però mai esporre, senza mai immischiarsi in combriccole e cenacoli artistici, ma lavorando e studiando continuamente» (Autobiografia, '19). Insomma, ancora: il solito delirio apologetico, che consente poco di vedere oltre. Proprio per quella mostra milanese del '19 sarebbe arrivata la celebre stroncatura di Roberto Longhi, su Il Tempo, Al dio ortopedico, dove la meccanica vuota dei manichini è smontata senza appello. Per il grande storico dell'arte, veri italiani moderni sono semmai Soffici e Carrà, che si erano formati con gli occhi aperti su Cézan-ne e su Giotto, e più a fondo sarebbe andato nel '37: «Il de Chirico, cresciuto in una tradizione per nulla italiana, evocava la pittura antica in una mera scenografia nostalgica», «il quattrocento diveniva il palcoscenico per l'opera dei pupi metafisici, per i convitati di pietra» (Carlo Carrà). Ma neanche per l'altro Dioscuro vi saranno parole tenere: «quell'avvelenatore di pozzi culturali che si chiama Alberto Savi-nio» (nella bellissima, per altri versi, Lettera a Giuliano - si tratta di Briganti - del '44).
I giovani, sempre con madre al seguito, si stanziano quindi a Firenze nel '10 e Alberto intanto ha composto un Poema fantastico di soggetto «approssimativamente mitologico». Tutto è pronto affinché alla fine dell'anno al Teatro della Pergola si tenga un «unico grande concerto orchestrale di Alberto de Chirico», solamente che gli orchestrali sono «tremendamente imbranati» (lettera di de Chirico a Gartz, 28-12-'10), perciò l'esecuzione viene trasferita a Monaco. Nella stessa sala dove Mascagni aveva mandato in delirio il pubblico, il 23 gennaio 1911, Alberto tiene la sua prima apparizione pubblica. Prima dell'esecuzione, tiene un discorso in francese sulla sua musica. I recensori tedeschi tuttavia sono abbastanza concordi: era «incomprensibile» la lingua parlata dal ragazzo, poco chiare le sue intenzioni, c'è chi si scaglia addirittura contro «la rovina e l'impotenza di un idealista privo di un'istruzione sistematica ma sicuramente non privo di talento», chi sospetta non si vada «oltre gli effetti a buon mercato» (molta documentazione è tratta dal notevole lavoro di Gerd Roos, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio. Ricordi e documenti. Monaco, Milano, Firenze 1906-1911, Bora, 1999). Ma a Monaco, nel 1911, la critica ufficiale è impegnata a serrare i ranghi contro la prima ondata di composizioni di Schonberg, e Alberto probabilmente paga dazio.
Direttamente dalla Baviera il ragazzo parte per Parigi mentre la madre ritorna, per fortuna, a Firenze. Saranno sei mesi di gran libertà, per Alberto, costellati da scoperte quali la Petruska di Stravinsky o le scenografie di Diaghilev, poi arriverà anche Giorgio. Di Monaco rimarrà il fantasma, e pare fondata quell'intuizione critica (Schmied, Paolo Baldacci) che vede nelle architetture klenziane della Konigsplatz i prototipi delle metafisiche Piazze d'Italia: «Ferrara è sorella in odore a Monaco di Baviera. Entrambe sanno di ceppo bruciato. Entrambe invitano al chiuso domestico, al gemutiich della casa» (Savinio, Ascolto il tuo cuore, città). È un paragone che echeggia anche nell'altro Dioscuro: «Monaco, capitale della Baviera, in quanto a clima e umidità, è identica a Ferrara» (De Chirico, Previati, «Il Convegno», '20).


“alias-domenica il manifesto”, 9 agosto 2015

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