31.8.17

Capponada ligure, caponata siciliana, capuneit della Valsesia. Intrugli da taverna? (S.L.L.)

Dall'alto la capponada con la galletta,
la coponada di melenzane
e le capuneit fritte da intingere nella fonduta
Ho, a suo tempo, postato, da un piccolo grande libro di Huguette Couffignal (La cucina povera, Rizzoli, 1976), la ricetta della capponada o capponadda genovese e ligure ed ho io stesso sottolineato le notevoli differenze con la capunata e la capunatina siciliane, scrivendo che tra le due preparazioni l'unica cosa in comune sono alcuni ingredienti (i capperi e le olive, per la precisione). Vedi, se vuoi, il link: http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2011/06/la-capponata-ligure-da-la-cucina-povera.html .
Vincenzo Genovese che di recente (29 febbraio 2016) si è occupato di capponada in un buon sito gastronomico “La Cucina Italiana” (http://www.lacucinaitaliana.it) si spinge oltre. Così, infatti, racconta il piatto freddo rivierasco:
Su questo piatto tipico della costa genovese si fa davvero fatica a mettersi d’accordo, sia per quanto riguarda l’etimologia del nome, che per il luogo esatto di provenienza e per gli ingredienti della ricetta originale. Una cosa però è certa: questa insalata di mare sui generis non c’entra nulla con la caponata di melanzane siciliana, un piatto completamente diverso che arriva dall’altra parte dell’Italia.
Basta guardare la lista degli ingredienti per capire perché la capponadda fosse il piatto perfetto per marinai, pescatori e rematori delle galere, impegnati in lunghe traversate durante i secoli di dominio del tirreno da parte della Repubblica di Genova. Veloce da preparare, non richiede cottura e valorizza gli alimenti disponibili in mare e nell’entroterra della Liguria. L’ingrediente di base sono proprio le “gallette del marinaio”, un pane secco e schiacciato che ben si conservava nelle imbarcazioni, imbevute di acqua e aceto.  
Anche il condimento è povero e facilmente reperibile: aglio, olio, acciughe, olive e capperi (il pomodori e le uova sode sono aggiunte più moderne, spesso i marinai se le sognavano…). Unica concessione al palato era l’uso del “mosciame”, una preparazione di filetto di pesce essiccato: oggi si usa la ventresca di tonno, in passato la carne dei delfini che si impigliavano nelle reti dei pescatori. Pronunciato mösciame in genovese, era apprezzato al punto da far pensare che il nome derivi dal termine dialettale muscio (persona dai gusti difficili), anche se la spiegazione più plausibile porta al vocabolo arabo mossammed (cosa dura e secca), diventato mojama in spagnolo. [...] 
Sull’origine del nome della capponadda ci sono versioni contrastanti. C’è chi sostiene che il termine derivi dal latino caupona (taverna), a rimarcare la provenienza popolare del piatto, e chi suggerisce un’ipotesi più sofisticata: “capón de galea” era il nome ironico che si dava al pane duro dei marinai, richiamando la prelibata carne del cappone, appannaggio solo delle mense dei nobili genovesi. La carta d’identità della capponadda è incerta anche alla voce “luogo di nascita”: vari paesi della riviera di Levante se ne contendono la cittadinanza, neanche si trattasse di Cristoforo Colombo. È possibile che la sua prima apparizione sia avvenuta sui leudi, le imbarcazioni a vela con le quali i pescatori di Camogli andavano a pescare le acciughe in mare aperto. Proprio a San Rocco di Camogli (come a Chiavari del resto) hanno avuto l’idea di allestire una sagra della capponadda. 
Nonostante il nome, la capponadda non c’entra niente con la caponata di melanzane tipica della Sicilia. Di dubbia legittimità anche la parentela con il cappon magro, piatto tradizionale ligure a base di pesce e verdure con cui condivide l’origine del nome ma, a quanto pare, non della ricetta. Piuttosto, è ravvisabile un legame con la panzanella toscana, un classico “piatto di riciclo”, ideato per non buttare il pane raffermo”.

Vincenzo Genovese lo ripete due volte: nessun rapporto con caponate e caponatine siciliane, cosa che anch'io ho sempre pensato.
Ma è davvero così? Due piccole scoperte mi hanno inoculato il dubbio.
La prima: in un servizio giornalistico sulla Valsesia trovo notizia delle capuneit o caponeit, preparazioni che non sembrano avere rapporti né con la specialità siciliana né con quella ligure, ma che hanno quasi lo stesso nome. Si tratta di involtini di foglie di verza o di bieta a foglie larghe o di romice, che ricordano quelli preparati con le foglie di vite in Grecia o in Turchia. Dentro le foglie di verdura che poi richiudono quelli della Valsesia mettono impasti di carne e salame macinati, formaggio e aromi; poi le friggono per servirle caldissime con o senza salse.
La seconda è la traduzione-definizione di capunata sul vocabolario siciliano-italiano del Traina, che risale agli anni 70 dell'Ottocento: “Manicaretto ov'entra del pesce, petronciani (sic!) o carciofi ed altri condimenti, e si mangia per lo più freddo”. Ho trovato in rete l'ipotesi che la melanzana (o petronciana) abbia sostituito l'originario pesce, il pesce capuni, ma la definizione sottolinea una compresenza di pesce e verdura più che una alternatività.
La distanza tra l'originaria capunata sicula (senza le evoluzioni degli ultimi 150 anni) e la caponnadda ligure sembra così ridursi notevolmente. Il pesce (e probabilmente l'aceto) c'è nell'una e nell'altra preparazione, che sono entrambe piatti freddi, di facile somministrazione. Resta, a complicare le cose, la Valsesia, ove il piatto è caldo e gli ingredienti sono molto diversi, ma è possibile che gli involtini si preparassero (e si preparino) prima, per friggerli rapidamente al momento del consumo. 
L'unica spiegazione congetturabile e plausibile del nome comune la intravedo nella caupona, peraltro citata da Genovese, la taverna dove si mangiava e si beveva e dove i caupones, gli osti della malora (la parola contiene un non so che di spregiativo: caupones sapientiae scrive Tertulliano per indicare coloro che vendono sapere dopo averlo adulterato) maneggiavano il cibo per spingere al consumo del vino. I vocabolari latini attestano anche un verbo, cauponari, usato metaforicamente per indicare ogni tipo di manipolazione, non solo quella che si fa in cucina. Non sarà che termini come capunata, capponada, caponeit in origine indicassero tutti un generico “intruglio da taverna”?

I funerali di Togliatti (Giorgio Amendola)

Podgorny, Longo, Kruscev e Lama portano a braccio il feretro di Palmiro Togliatti
Venne il momento della partenza del corteo. Alla bara furono resi gli ultimi commossi saluti. Una donna inginocchiata continuò a pregare, quando già la salma era stata portata a braccia fuori dal palazzo.
Quarantotto ore era continuata la lenta, ordinata, reverente sfilata. I comportamenti diversi indicavano la vastità del tributo reso da donne, fanciulli, uomini così diversi, per condizioni sociali, orientamenti politici e ideali e fedi religiose, eppure uniti in uno stesso cordoglio. Accanto al giovane operaio, ancora in tuta, dritto nel saluto proletario del pugno chiuso (ignaro, evidentemente, di quanto quel gesto fosse sgradito a Togliatti, che amava piuttosto la mano tesa, da amico
ad amico), vi erano le donne e gli uomini che esprimevano, malgrado le vane scomuniche, il loro sentimento coi gesti naturali della religione cattolica, fino al bacio dato al drappo rosso o al nastro tricolore. E quanti bambini recati dai genitori a dare quel tributo, perché crescessero col ricordo di quel giorno, nel quale anch’essi avevano partecipato alla manifestazione nazionale che concludeva non solo la vita di un uomo, ma un grande periodo della storia nazionale.
E tutti erano passati, compagni, amici ed avversari politici. Uno dei primi ad arrivare era stato Guido Carli, il governatore della Banca d’Italia, severamente criticato da Togliatti nell’ultimo discorso pronunciato alla Camera. E nell’abbraccio di Pietro Nenni, il suo pianto commosso scioglieva i nodi di decennali rapporti unitari, e di incontri e di scontri, e di dure polemiche, che avevano indissolubilmente legato i destini dei due dirigenti del movimento operaio italiano. Il pianto solitario di un vecchio compagno, criticato e severamente trattato da Togliatti, diceva il dolore di chi era stato sorpreso da quella morte, in quel momento, senza che fosse più possibile un ravvicinamento e una spiegazione.
Chi ha potuto per ore ed ore salutare ed abbracciare amici, compagni, cittadini, non dimenticherà mai il significato di quell’omaggio, composto e commosso, manifestazione di un nuovo costume civile e democratico, fatto di umana tolleranza e di fermezza disciplinata e responsabile. È il nuovo costume democratico che si esprimerà più tardi nel comportamento del popolo milanese raccolto in piazza del Duomo, dopo l’eccidio fascista di piazza Fontana, o a Brescia, più avanti. E quel costume era già un frutto dell’opera di educazione svolta da Togliatti, la fermezza, l’autocontrollo, e, insieme, un senso di commossa fraternità. E quel costume era già una vittoria importante su un retaggio rissoso, scomposto e vanitosamente personalistico, tramandato da un passato di opportunismo servile e di bigotta ipocrisia. Era già l’affermazione di una Italia nuova, moderna, che si affermerà dieci anni più tardi nella vittoria dei « no » contro il referendum.
Davanti alla salma di Togliatti, si era avuto l’incontro, da lui preparato, tra operai ed intellettuali, tra la gente semplice del lavoro e gli uomini della scienza e dell'arte, quell’unità della nazione che era stata lo scopo al quale aveva dedicato la sua vita, perché quella unione è la condizione dell'ascesa e del progresso dell’Italia verso il socialismo.
La bara fu sollevata ed uscì alla grande luce del pomeriggio romano, nel contrasto acutissimo tra il silenzio della grande folla, rotto soltanto dai singhiozzi e dalle preghiere, e il giuoco violento dei colori, le rosse bandiere, i tricolori, le bianche camicie degli uomini e le vesti policrome delle donne. C’era anche il nero di un gruppo di suore. Il cielo, man mano che il corteo procedeva lento verso piazza San Giovanni, si tingeva di rosso, ed il verde scuro dei pini si stagliava netto.
Roma si era tutta raccolta per salutare Togliatti. Dicemmo poi che eravamo un milione. Moltiplicata per cento e per mille era la stessa folla che era passata davanti alla salma di Togliatti, nell'atrio del palazzo di via delle Botteghe Oscure, la stessa per comportamento e gesti naturali, con una più marcata affermazione regionale, da parte degli uomini e delle donne venuti dal Nord o dal Sud, dei modi con cui da sempre si esprime in ogni famiglia il dolore per la perdita di un padre.
E questo era il sentimento che accomunava tutti, la coscienza di essere diventati orfani, di avere perso una guida ed una protezione. Chi aveva scritto (e chi scrive ancora) che Togliatti era freddo, distante, incapace di stabilire un contatto umano con la gente, dovrebbe chiedersi, se avesse onestà intellettuale, perché la sua morte suscitò simile partecipazione. Solamente la grande folla raccolta un anno prima in piazza San Pietro per salutare la salma di papa Giovanni poteva reggere il confronto. E, probabilmente, erano in gran parte le stesse donne e gli stessi uomini, accompagnati anche quella volta dai loro figlioli. Essi avevano compreso e raccolto l’essenziale del messaggio di fraternità e di unità lanciato da uomini pur così diversi, e pur fieramente combattenti, e coraggiosi.
Di quel giorno non deve andare perduta la lezione di unità nazionale. I funerali di Togliatti non possono restare nel ricordo soltanto come i funerali di un capo di partito. C’era il partito, c’era la nazione e c'era, insieme, e per le stesse ragioni, l’internazionale. L’anello che legava tutto era quel sentimento nazionale, quella Patria riconquistata, sotto la sua guida, dalla classe operaia, e non solo nell'eroismo della Resistenza ma, soprattutto, nell'amara disciplina della ricostruzione, e nella lunga interminabile battaglia del rinnovamento.
I funerali di Togliatti furono quelli di un grande capo della Nazione italiana che, con l’aiuto del suo partito, l’aveva guidata, trasformata, educata.
Arrivò la salma a San Giovanni, e, davanti alla salma, cominciò la giostra dei discorsi. Tutti erano stanchi, piegati più che dalla fatica, dal tumulto delle emozioni. In quella solenne piazza San Giovanni Togliatti aveva parlato a lungo poco più di un mese prima. Era stato un discorso di lotta, contro i pericoli sempre risorgenti nel nostro paese della destra autoritaria e del fascismo. Quel giorno egli sembrava che non volesse staccarsi più dal microfono, mentre il popolo accoglieva, con intelligente sensibilità, la lezione di strategia politica. Quella sera c’era stato sul palco chi, tra gli amici più stretti, aveva espresso le sue preoccupazioni per la fatica sopportata da Togliatti, malgrado il suo non buono stato di salute. Ma nessuno aveva avuto il coraggio di tentare di fermarlo, come se in quel prolungamento oratorio, per lui inconsueto, si esprimesse, inconsapevole, la volontà di non perdere quell’occasione di contatto diretto con il popolo di Roma. Molti vogliono ricordarlo in quell’ultimo gesto, ampio e fraterno, di commiato.
Sono passati dieci anni. L’Italia sembra ancora una volta sommersa dal fango. È sconvolta dalle bombe fasciste, ferita nelle sue istituzioni democratiche, rosa da una crisi economica aggravata dal cinico egoismo dei profittatori. Eppure, se anche in questo momento, la fiducia nella intelligenza politica e nella ferma combattività del popolo italiano non viene meno, è anche perché il ricordo di quel giorno torna a temprare le volontà. Quelle donne e quegli uomini raccolti quel pomeriggio, e i milioni riuniti nella stessa ora in tutta Italia, sono sempre presenti, fedeli a quel ricordo e all’impegno preso quel giorno. E i fanciulli recati per mano a quel funerale, e i giovanetti schierati in prima fila, sono cresciuti, sono oggi i giovani combattenti chiamati a continuare l’opera di Togliatti.

Postilla 
Il testo fu scritto nel 1974 per I comunisti raccontano, curato da Massimo Massara e Carlo Salinari, che raccoglieva mese per mese, come inserto del "Calendario del Popolo", testimonianze dall'interno sulla storia del Pci. Il volume completo fu diffuso all'inizio del 1975 da Teti, l'editore della rivista. 

“Di Craxi non salvo nulla”. Riccardo Barenghi intervista Pietro Ingrao (2010)

Ripete le stesse parole che pronunciò in quello storico discorso all'XI congresso del Pci, nel 1966: «Cari compagni, non mi avete convinto». Allora si rivolgeva ai suoi compagni di partito che l'avevano sconfitto nella battaglia congressuale, oggi si parla di Craxi e della lettera che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato alla vedova dell'ex leader socialista morto dieci anni fa. Quindi, in qualche modo si parla ancora dei suoi ex compagni di partito e di battaglie interne, non a caso nel Pci Napolitano fu, dopo Giorgio Amendola, il rivale del leader della sinistra comunista, ossia Pietro Ingrao.

Ingrao, cos'è che oggi non la convince?
Ho trovato francamente esagerate tutte le cose che ho letto in questi giorni, non credo che una rivalutazione di Craxi - nel mondo comunista si sarebbe chiamata con un orrendo termine: riabilitazione - sia politicamente giusta e corretta.

Ma Napolitano, e non solo lui, sostiene che ci furono luci e ombre nella politica di Craxi...
Potrei dire che Napolitano è stato molto generoso, anche troppo. Io comunque non condivido il suo giudizio, molte chiacchiere ma non una parola dura, anche cattiva. Sinceramente io luci non ne vedo, perché nel corso di quegli anni molto aspri per la vicenda politico-sociale del nostro Paese, Craxi si è schierato con la parte più conservatrice della Dc, con Forlani e Andreotti e non certo con Zaccagnini. E contemporaneamente ci ha fatto la guerra, a noi comunisti. Dopo la morte di Moro venne fuori la sua natura di anticomunista che non aveva alcuna intenzione di promuovere l'unità delle sinistre. Un progetto politico che invece avrebbe potuto contribuire a rinnovare la società. Ecco perché ho sempre sostenuto che Craxi era un conservatore.

Ma molti al contrario dicono che fosse un uomo di sinistra e per di più un innovatore...
Ma manco per idea. Era distante anni luce da un socialista come Riccardo Lombardi, lui sì di sinistra insieme ad altri nel Psi. Craxi era un'altra cosa, e francamente non vedo proprio dove abbia innovato, semmai ha usato la sua spregiudicatezza per crearsi spazio nel quadro politico. Ma allora entriamo in un'altra categoria, quella dei politicanti...

Eppure molti suoi ex compagni di partito, per esempio Piero Fassino, lo hanno rivalutato in questi anni. Secondo lei perché?
Risponderei in poche parole che per me dicono tutto: perché c'è un forte vento di destra che spira sull'Italia.

E della questione di Tangentopoli, lei che idea s'è fatto?
Sulla vicenda strettamente giudiziaria che ha riguardato Craxi non mi va di intervenire. Capisco la delicatezza che il Presidente della Repubblica ha usato nell'affrontare questo capitolo difficile, ma anche qui non mi sento di condividere i suoi giudizi.

Ma lei di Craxi non salva nulla?
Nulla, proprio nulla. Perché ha agito in modo negativo nella vicenda politica italiana. E anche qui, mi dispiace, pur capendo il garbo del Capo dello Stato, non posso riconoscermi nel quadro che ha delineato.

E invece del suo esilio ad Hammamet che giudizio dà?
Ecco, qui invece vedo un orgoglio umano nella sventura, un orgoglio che rispetto.

La Stampa, 19 gennaio 2010

Settecento napoletano. L'ambiguo illuminismo di Re Carlo (Giuseppe Grilli)

Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia (1735 - 1754), poi re di Spagna
[…] Mi riferisco, ovviamente, alla grande, biennale, rilettura del re borbone che la cultura accademica (e non) napoletana ha di recente proposto su una restaurabile e ritrovata solidarietà dell’Europa mediterranea lungo la direttrice Parigi - Madrid - Napoli. Con la enorme, accumulativa esperienza della Civiltà del ’700 a Napoli (1734-1799), due volumi bellissimi, luccicanti e densissimi di catalogo (Firenze, 1980: «Centro Di») ricchi di contributi di Mario Praz, Raffaele Aiello, Ferdinando Bologna, Alvar González Palacios, Anthony Blunt e molti altri; con due convegni, uno inaugurale e uno, conclusivo, nell’aprile di quest’anno dedicato esplicitamente al rapporto tra i Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna; con le feste, le cene e le altre rappresentazioni di pubblico danaro, tra cui una nuova messa in scena settecentesca di Roberto De Simone (l’Opera buffa del venerdì santo), la città è sembrata ritrovare se stessa e la propria vocazione eterna. Ci si riferisce, naturalmente, a quella napoletanità aggressiva e boriosa, ma anche ingenua, che fissa un unico tratto tra Virgilio e Cangiullo e invoca intermediari Boccaccio e Marino.
Si tratta di un destino e di una vocazione ambigui, però. Il settecento borbonico esprime le sue utopie illuministe nelle grandi proposizioni enciclopediche della cultura centralista e dirigista della Parigi assolutista, ma si proietta a Madrid e a Napoli anche come distopia e orrore di qualsiasi diverso futuro. Impiantatisi in Spagna nel 1714 i Borbone due anni dopo trasformano con il decreto di Nuova Pianta il vecchio e ormai decrepito Grande Impero euroamericano in un fiammante e suppostamente modernissimo Regno di Spagna. La Corona di Aragona viene cancellata con un provvedimento amministrativo e, quando qualche decennio dopo gli spagnoli potranno tornare nell’Italia meridionale essendo stata ormai rotta la continuità di legittimazione, con un gesto di regale volontà si decide di dotare, con Carlo, il Regno meridionale di un monarca proprio e di un’idea di nazione che, secondo gli imperativi dell’ideologia borbonica, coincide strettamente con lo statalismo burocratico. È forse proprio questa la grande utopia del ’700 europeo. Non il razionalismo dei siti reali, le città artificiali e immaginarie, il tessere e il disfare continui e inconcludenti dell’intervenzionismo mercantilista e del laicismo politico, non il mecenatismo e le strabilianti scoperte archeologiche (di nuovo Pompei, Ercolano e le rovine antiche!), ma la capacità di costruire una grande metafora postbarocca del potere.
Quello settecentesco e borbonico fu infatti un sistema che seppe essere coerente con i propri princìpi e seppe illustrarli anche con azioni politiche decise come le espulsioni dei gesuiti che si susseguirono su tutto il «territorio» borbonico dell’Europa del XVIII secolo. Anche se oggi un gesuita smaliziato come Miquel Batilori non ha difficoltà a smascherare con garbo e smitizzare di fatto il coraggio del ministro di re Carlo ricordando tra le righe di una comunicazione congressuale che le scuole e le università sottratte alla Compagnia oscurantista e latifondista accumularono in pochissimi anni un tale deficit finanziario di gestione da imporre per pagare debiti indilazionabili l’alienazione dei beni di dotazione e la loro svendita ai soli acquirenti disponibili sul mercato: i padroni dei restanti latifondi, gli esecrati e temibili Baroni.
D’altra parte il potere e la società postbarocche eressero e coltivarono i propri miti ai margini e in presenza di autentici propositi razionalisti. Non furono più i miti dell’esclusione e del separatismo: l’onore e la razza con cui si coniugavano — nel teatro elisabettiano o nei drammi spagnoli del secolo d’oro — la partecipazione rassicurante alla cultura di un Grande Impero e il riflusso infamante dalla storia nel privato. (Se ne veda un esempio suggestivo e singolarmente rivelatore nella sua divergenza nella Risposta a Suor Filotea di Suor Juana Inés de la Cruz pubblicata dalle edizioni La Rosa a cura di Angelo Morino e Dacia Maraini, ove si dimostra come l’Impero escludeva sì il diverso da sé, ma garantiva comunque una voce di grandezza alla sua periferia, una doppia periferia: messicana e femminile!).
Certo, i miti del ’700 furono razionalisti, o si presentavano come tali, e polemicamente antibarocchi: come il mito centrale, quello ricordato da Antonio Elorza nel convegno napoletano citato sopra il mito, cioè, di quell’economia civile equilibrata in contrapposizione all’economia squilibrata della società degli stati (nobiltà, clero). Un mito che porta con sé la gloria di rifondare umanisticamente un’istanza etico-politica e l’infamia di scontare proprio nel sottosviluppo economico e sociale comune al sud dell’Italia e alla Spagna borboniche, il fondamento materiale del desiderio inappagato di razionalità e di progresso mancati.
Così della grande città illuminista da edificare attorno alla reggia di Caserta del magnifico re Carlo e del suo real architetto è rimasto da ammirare lo scenario moderno e abbandonato e già ci si chiede quale mai potrà essere la sorte della nuovissima metropoli postmoderna sorta sulle rovine antiche e le sopravvivenze moderne se ci si appresta, come pare, ad abbandonare al più presto anche quella.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1982

30.8.17

Gerolamo Cardano, medico e pensatore. Un ritratto del Rinascimento (Paolo Mauri)

Le «vite» contano. Ogni epoca ha le sue biografie «tipo» da spacciare, i suoi santi da mettere sugli altari. Eroi, generali, poeti, imperatori, divi e divine, campioni: l’inventario degli uomini con qualità (che piacciono tanto agli uomini senza qualità) è vasto, infinito. Che cosa cerchiamo, in una biografia? L’informazione, certo, ma anche il «modello». Ogni epoca, senza neppure volerlo, riscrive se stessa nelle biografie degli uomini che le appartengono o di quelli che sceglie dal passato perché «altamente rappresentativi». L’etica del capitalismo ha inventato la biografia del povero che diventa, con i suoi mezzi, milionario (dall’ago al milione); l’etica del divismo esige biografie scritte a puntate — attraverso i mass-media — che assecondino o creino i gusti del pubblico. La maggior parte delle biografie di consumo scritte oggi sono, di fatto, semplici sceneggiature, o, se si preferisce, romanzi popolari che hanno per tema fisso «un eroe del nostro tempo».
Genere basso nella sua forma attuale più svaccata, la biografia può vantare antenati illustri e soprattutto una continuità significativa, dai tempi antichi ad oggi. Nel biografo, è vero, dorme spesso l’agiografo: ma il ritratto del grande non è necessariamente adulatorio. Ogni riga della breve biografia riassuntiva che Tacito dedica a Tiberio sul finire del sesto libro degli Annali è un esempio illustre di quanto la biografia possa essere spietata o maligna.
Con l'autobiografia il discorso è diverso. Scegliere di essere il biografo di se stesso è impresa riservata a pochi, poiché dietro il suo eroe il biografo si nasconde, ma nell’autobiografia l’uomo raccontato sei proprio tu, e allora bisogna pure che tu pensi: ho qualcosa di veramente grande da raccontare.
Gerolamo Cardano, uomo del Rinascimento, medico illustre e pensatore, di cui ora si ripubblica il libro Della mia vita (a cura di Alfonso Ingegno, Serra e Riva) aveva senza dubbio un altissimo concetto di se stesso. Né questa apologia del proprio vivere e operare, stesa in tarda età, oltre i settant’anni, tra il settembre 1575 e il maggio 1576, nasce senza precise intenzioni. Ma c’è un momento in cui un libro o riesce a sopravvivere all’occasione per cui è nato, o muore con essa. Se sopravvive, non ha più bisogno — per essere letto — che l’intenzione sia messa in evidenza. Lasciamola lì, per adesso. Direi che il motivo per cui il libro del Cardano merita oggi di essere letto sta, prima ancora che nei suoi contenuti, nel suo «impianto». Finalmente, verrebbe voglia di dire, un libro che non si legge come un romanzo, ma piuttosto come un catalogo ragionato.

Giocatore di scacchi
Cardano ha infatti ripercorso la propria vita, ha descritto il proprio corpo, ha enumerato le sue glorie, i suoi dispiaceri, le sue virtù e debolezze inventariandole per temi: sicché in cinquantaquattro capitoletti o «voci», senza essere costretto a tener dietro ad un «filo», il lettore può ritrovare il suo uomo. A brani o a «brandelli». Come se leggesse un piccolo trattato enciclopedico su un unico tema. Il lettore può dunque correre in su o in giù, per dritto o rovescio: il libro è in questo senso docile; non oppone resistenze. Può cominciare da argomenti pettegoli: «Calunnie, diffamazioni, insidie di accusatori»; può far conoscenza con particolari fisici («Modo di camminare e riflessione») o con curiosità («Vestiario»). C’è da chiedersi: ma da dove si comincia a «conoscere» un uomo? Da dentro (per esempio, come recita il capitoletto XXII, dai «Sentimenti religiosi e pietà») o da fuori («Statura e aspetto fisico»), dai suoi rapporti con gli altri («I miei rapporti con gli altri uomini») o da quanto altri hanno detto su di lui?
Un uomo è ciò che mangia, dirà qualcuno molto più tardi. Nel dire rapidamente delle sue «abitudini di vita» Cardano riepiloga meticolosamente i modi quotidiani del suo agire, quante ore di sonno gli servono in salute o in malattia, quali cibi ama mangiare e come li ha variati e cucinati nel corso del tempo, gli esercizi per mantenersi in forza. Agli esercizi in particolare è poi dedicato un altro paragrafo. Ma se desideri sapere altro, non hai che da chiedere: Cardano; non avrà esitazione a denigrare la sua scarsa resistenza alle tentazioni del gioco: dadi e scacchi in prima fila. «Mi sono dedicato per parecchi anni ad entrambi i giochi: agli scacchi per più di quaranta, ai dadi per circa venticinque e in tanti anni ho giocato, mi vergogno a dirlo, ogni giorno». Tuttavia agli scacchi Cardano (lo ricorda subito dopo aver ammesso con con vergogna la sua debolezza) ha dedicato un libro nel quale «ho scoperto parecchi problemi notevoli».
Possiamo indugiare intorno all’uomo Cardano, entrare nelle varie case da lui abitate, sapere quali vestiti si mette addosso, quali malattie ha avuto e come è guarito da esse. Ma Cardano ovviamente non è tutto qui. E allora dovremo seguirlo per altre strade, sino a scoprire in tutte le sue luci e le sue ombre questo singolare protagonista.
Quando Cardano scrive queste pagine ha superato — come ricordavamo — i settant’anni. Ha guarito re e dignitari, ha viaggiato, ha insegnato e disputato in celebri università. L’elenco dei libri scritti da lui è piuttosto lungo, quello dei libri che parlano di lui (in ambedue i casi puntigliosamente annotati) ancora di più. È arrivato molto in alto, nella professione soprattutto, ma si è distinto anche nelle matematiche, dando del filo da torcere a Tartaglia, e in altri campi non meno difficoltosi. È in buona sostanza un misantropo, o forse lo è divenuto col passare del tempo e l’accumularsi delle disgrazie sul suo cammino. I corpi sono sgradevoli, puzzano, sono invasi dai pidocchi, recita Cardano dandoci di scorcio una lezioncina sull’igiene dell’epoca. «Se poi guardo all’anima, quale animale è più malvagio, ingannatore, infido dell’uomo?». Un figlio gli è morto in maniera particolarmente dolorosa: giustiziato per aver commesso uxoricidio. E di questo Cardano non sa darsi pace. Vede ovunque congiure di nemici. Cammina a testa bassa. Qui incontriamo un elemento prezioso: una pietra.
Questa pietra è in grado di dirci moltissime cose su Gerolamo Cardano. Ascoltiamolo: «Nel 1560, di maggio, in seguito al dolore per la morte di mio figlio, avevo perduto a poco a poco il sonno (...) Pregai allora Dio di avere misericordia di me: in effetti correvo il rischio che quel non dormire senza interruzioni mi portasse alla morte o alla pazzia (...) Lo pregai allora di farmi morire, cosa che è concessa a tutti gli uomini, ed andai a distendermi sul letto».

Il ronzio nell'orecchio
Preso da un sonno improvviso, Cardano sente una voce che gli parla e gli raccomanda di portare alla bocca lo smeraldo che teneva appeso al collo. Così facendo, e per tutto il tempo che avesse tenuto la pietra vicino alla bocca, il ricordo del figlio, il dolore e tutto quanto sarebbe stato dimenticato. La faccenda durò un anno e mezzo. «Nel frattempo, quando mangiavo o facevo lezione e non potevo usufruire dell’ausilio dello smeraldo, mi torcevo dal dolore sino a sudare mortalmente».
Predestinazione e magia. Per tutta la vita Cardano sa (o crede di sapere) d’essere destinato a cose grandi. D’essere assistito da uno spirito particolare. È vero ch’egli sbaglia clamorosamente il proprio oroscopo (secondo le sue previsioni doveva morire poco dopo i quarant’anni), ma le «assistenze» straordinarie non gli mancheranno.
Come imparò il latino? Ascoltiamolo di nuovo. «Mi chiedo chi fu colui che mi vendette un Apuleio latino quando avevo già, se non sbaglio, vent’anni e scomparve. Fino a quel giorno non ero stato a scuola che una volta, non avevo nessuna conoscenza della lingua e avevo comprato il volume come uno sciocco perché era dorato: l’indomani leggevo il latino come adesso e la stessa cosa si verificò, quasi contemporaneamente, con il greco, lo spagnolo e il francese».
Un particolare ronzio nell'orecchio lo avvertiva se qualcuno tramava contro di lui e gli indicava persino la provenienza e l’esito dei discorsi. Miracoli, capacità di prevedere le cose, sogni premonitori: Cardano non tralascia una sola tappa del suo viaggio nel meraviglioso, del suo essere, nel bene e nel male, un uomo d’eccezione.
«Un’altra mia caratteristica naturale è che la mia carne talvolta odora di zolfo, d’incenso e di altre sostanze. Zolfo e incenso: era dunque Cardano un diavolo o un angelo? Dicendo dei suoi successi non sa bene nemmeno lui a che cosa deve di più, se all’intelligenza o a Dio, alla magia o alla scienza, che con la magia in tanti modi egli rimescola. Ma ascoltiamolo ancora: «Tra gli eventi naturali di cui sono stato testimone, il primo e il più eccezionale è stato quello di essere nato in questa nostra età, nella quale per la prima volta si è conosciuto tutto il mondo».
L’elogio del proprio tempo è comune agli uomini del Rinascimento, così come l’intrecciarsi di scienza e magia e le discussioni infinite su quale magia fosse positiva e quale negativa. Cardano non fa eccezione in questo senso: egli sente d’essere un uomo eccezionale in un tempo eccezionale. Questo innanzitutto lo spinge a scrivere di sé, anche se l’apologia di se stesso doveva anche metterlo al riparo da altre e penose accuse da lui sopportate in vecchiaia. Cardano fu infatti incarcerato per motivi religiosi e costretto poi ad una abiura. L'apologia, nelle sue intenzioni, doveva porlo al riparo da ogni altra accusa, da ogni sospetto di eresia. Ma a noi questo, oggi, non interessa più di tanto. Il libro, come ho detto, è andato al di là dell’intenzione. È diventato un magnifico ritratto dal vero di un uomo del Rinascimento. Un magnifico ritratto del Rinascimento attraverso uno dei suoi uomini. E non è un caso. Roy Pascal ha scritto che l’autobiografia è un genere squisitamente europeo, sconosciuto in Oriente. Una ragione ci deve essere: è una affermazione che fa meditare. «Un’età dinamica, grande e significativa», ha scritto Àgnes Heller, «delle personalità dinamiche, grandi e significative: è questo il terreno di per se stesso fertile per l’autobiografia». Ed è per questo, aggiunge, che due vite così diverse, come quelle di Cardano e di Cellini, ci parlano dello stesso mondo.
Un mondo che non del tutto a torto si compiaceva di se stesso. «Non ci resta ormai», aveva scritto Cardano, dopo aver detto delle meraviglie delle scoperte geografiche, della polvere da sparo e della stampa, «che conquistare il cielo». Ma poco sopra aveva scritto: «Non c'è quindi dubbio, che per conservare la giusta proporzione nelle cose umane, avranno luogo in futuro grandi calamità». E ancora: «Ma sarebbe follia dell’uomo dimenticare la vanità del tutto e la nostra ignoranza dei primi princìpi, seppure sarebbe superbia non ammirare queste scoperte».
Gerolamo Cardano terminò il libro Della mia vita nel maggio del 1576. Il 20 settembre dello stesso anno moriva a Roma.


“la Repubblica”, ritaglio senza data, ma 1982

Sinonimi ed eufemismi. Il nuovo Tommaseo (Umberto Eco, 1973)

Dalla periferia dell'impero raccoglie in volume testi di Umberto Eco già pubblicati in quotidiani e periodici tra il 1973 e il 1976. Quello che segue, un articolo a suo tempo stampato su “L'Espresso”, merita forse qualche aggiornamento nell'esemplificazione, ma mi sembra tuttora utile a capire i significati reconditi di alcune abitudini linguistiche oltre che molto divertente, come capita spesso con gli scritti di Eco. (S.L.L.)

Facciamo conto di ricevere una lettera che dica: “A causa della decelerazione del tasso d’incremento, dopo attenta presa in considerazione da parte del nostro area manager, si prowede a disdettare l’acquisto dello stock di container per strumentazioni di installatori termo-idraulici da voi proposti, della cui affidabilità peraltro non si intrawedono concrete possibilità. Il nostro buyer, che aveva perfezionato i precedenti contatti, è stato sollevato dal suo incarico, come da xerox attergato”.
Il significato della comunicazione è: “dato che la nostra azienda sta andando a rotoli, il ragioniere che controlla i nostri commessi viaggiatori in provincia ha deciso di non comperare più quella rimanenza di scatole di latta per stagnini - che tra l’altro sembrano attaccate con lo sputo. Quel disgraziato che aveva preso l’impegno per conto nostro è stato scaraventato fuori dai piedi come vedete dalla fotocopia della lettera di licenziamento attaccata qui dietro”.
La seconda lettera ha lo stesso significato della prima, la quale è praticamente costruita facendo uso di termini o frasi che sono sinonimi delle altre. Come si vede, usando i sinonimi si dicono quasi le stesse cose, e sembra di dirle meglio, o in modo più gentile e scientifico. Il rischio è che chi riceve la lettera non la capisca, ma sovente questo non è un male.
Non è nemmeno male, però, riflettere sull’uso dei sinonimi nella nostra società. Anzitutto chiediamoci cosa sia un sinonimo.
Secondo l’opinione comune è una parola che ha lo stesso significato di un’altra, pur avendo suono diverso, come “ora” e “adesso”, oppure “scuro” e “buio”. I buoni dizionari sanno tuttavia che di sinonimi assoluti non ne esistono, e due parole possono dire la stessa cosa dicendola tuttavia in modo diverso, con diverso accento, da un altro punto di vista, o addirittura esprimendo due atteggiamenti culturali e sociali, come accada a uno sciagurato che si permetta di dire ancora “prora” invece di “prua”.
Sappiamo tutti che oggi, quando qualcuno dice “la mia barca” intende “il mio panfilo”, ma è chiaro che si tratta di un panfilo molto più grande del solito e che chi parla vuol fare sapere che ha parecchi soldi e molta modestia. In questo caso più che di un sinonimo si tratta di un eufemismo. D’altra parte i logici, quando hanno cercato di chiarire il significato di un termine attraverso il ricorso al sinonimo, si sono accorti che ciò che caratterizza un sinonimo è proprio il fatto di far scivolare il significato (allargarlo, restringerlo, deformarlo). Per cui possiamo dire senza esitazioni che un sinonimo (tranne casi rarissimi) non è mai neutrale. L’uso dei sinonimi è sempre ideologico. Al minimo manifesta origini e preferenze regionali, in un paese come il nostro in cui, a causa delle influenze dialettali, ci sono più sinonimi che in altri paesi: così che accade che una stessa cosa possa essere uno sfilatino o un filoncino di pane; un paio di stringhe, di aghetti, di legacci, di legaccioli, di lacci, di laccetti o di lacciuoli per scarpe; una tapparella, una serranda o un avvolgibile; una vasca, una tinozza o una bagnarola; una seconda colazione o un pranzo; un pranzo o una cena; un succhiotto o una tettarella; uno stagnino, uno stagnaio, uno stagnaro, un lattoniere, un fontaniere, un lanternaio, un trombaio, un idraulico o un installatore termo-idraulico (e non conta come lo si chiami, perché tanto non c’è più e se c’è non viene mai).
In altri casi il preferire il sinonimo più recente al termine desueto indica volontà politica, come accade a chi dica collaboratrice domestica invece di serva, portabagagli invece di facchino, netturbino invece di spazzino, esercente invece di bottegaio, agente di custodia invece di secondino. E altre volte ancora la variazione riqualifica e corregge le mansioni, perché una babysitter non è proprio una bambinaia (come vorrebbero i puristi, gran nemici di molti sinonimi esterofilizzanti), e tanto per cominciare non allatta e poi fa quel mestiere solo alcune ore al giorno. E un panificatore non è solo un panettiere, ma di solito un panettiere potente e cattivo, che imbosca gli spaghetti.
E che interi repertori di sinonimi si formano all’interno di linguaggi settoriali e specializzati e ivi acquistano pesi diversi, nel bene come nel male: per cui un buon codicillo alla rilettura di un moderno dizionario dei sinonimi è il libro appena apparso a cura di Gian Luigi Beccaria (I linguaggi settoriali in Italia, Bompiani) da cui sto traendo la maggior parte di questi esempi.
Ci sono per esempio espressioni sinonime con una funzione che il linguista Maurizio Dardano ha definito “straniante” e che servono a rendere meno brusco il senso: come dire “si provvede a fare” anziché “si fa”, “si dà luogo all’ascolto” invece di “si ascolta”, “si intravvede la possibilità di” invece di “si spera che”. E queste sono ancora sostituzioni innocue. Ma con un procedimento analogo si arriva ai tecnicismi economico-politici già lungamente analizzati, dove un’espressione finge di dire la stessa cosa ma di fatto la attenua e non la dice. Vedi, specie di questi tempi, le acrobazie sostitutive per non parlare di svalutazione, indicandola come allineamento monetario, allineamento selettivo delle monete o slittamento dei titoli. O l’aumento dei prezzi che diventa assestamento, ritocco, variazione delle tariffe. O il licenziamento su grande scala che pudicamente si maschera da piano di alleggerimento, o vaga minaccia di un aumento della manodopera disponibile. Mentre la crisi economica, che fa troppo 1929, diventa decelerazione del tasso d’incremento, recessione o raffreddamento dell’economia.
D'altra parte i politici hanno, nel loro gergo specifico, molte espressioni consolatorie, per cui una secca perdita elettorale diventa emorragia di voti e quando un gruppo di cittadini li manda a quel paese si parla di sindrome di rigetto.
In questi casi l’apparente sinonimo, che sinonimo non è più, ha chiara funzione di copertura retorica e - come già si è osservato - serve a comunicare qualcosa da un gruppo di potere all’altro senza che la massa dei cittadini se ne renda conto. Altre volte il linguaggio politico conosce sinonimi che, da eufemistici che erano, sono diventati ora talmente trasparenti da denunciare le origini ideologiche di chi li usa: vedasi la chiarezza con cui possiamo individuare l’opinione di chi, parlando dei congolesi, li classifichi tra i paesi sottosviluppati, i paesi in via di sviluppo, i paesi non allineati, i paesi del Terzo Mondo, i paesi nuovi o i paesi sfruttati. Così come possiamo sapere cosa pensa della cultura chi scelga di indicare gli intellettuali di sinistra come culturame, compagni di strada, utili idioti, teste d’uovo, borghesi onesti o intellettuali organici alla classe.
Ci sono poi, sempre nell’universo politico, parole che hanno struttura omonima e vengono usate in contesti diversi come sinonimi di qualcos’altro. Per esempio “rivoluzione” vuole di fatto dire cose diverse. In un contesto borghese classico è stato sinonimo di “passione, liberalismo, anarchia, barbarie, male, tradimento, sovversione”, nel campo marxista sta oggi a significare varie modalità di presa del potere o di rifiuto del potere altrui, a seconda dei gruppi in cui viene usato, mentre nell’universo giovanile può persino significare accettazione dello status quo purché ci sia droga a sufficienza, e nell’universo consumistico indica ormai tutto, dalla presentazione di un nuovo rasoio elettrico alle videocassette.
Una sorte non diversa ha assunto “democrazia”, e basti pensare a due espressioni come “convergenza democratica” e “protesta democratica”: nel primo caso sta parlando l’onorevole Moro, nel secondo è un articolo dell 'Unità su una sfilata frontista per il Cile. Tanto che si potrebbe indicare, come regola di disambiguazione, questo criterio: quando “democratico” o “democrazia” è accompagnato da un termine che suona inquietante per i borghesi è una categoria della sinistra (come in repubblica democratica, forte risposta democratica, pronta reazione democratica); quando invece è accompagnato da termini presi a prestito dal linguaggio tecnologico o dall’etica cattolica (come programma, ordine, solidarietà, vocazione) tutto ciò che è democratico è anche cristiano. Ma le regole contestuali sono molto più complesse e spesso il cittadino è indifeso di fronte a questi omonimi che sono sinonimi di troppe cose.
Al massimo può capire quando una espressione è sinonimo di “gli Altri” e cioè “i cattivi”: tale è il significato complessivo di espressioni come “revisionismo, frammentarismo, opportunismo, deviazionismo, pressappochismo, moderatismo, scissionismo, aperturismo, avventurismo, immobilismo, riformismo”. In tutti questi casi si può dire al cittadino smarrito di intendere “quelli che non la pensano come noi” e come primo orientamento è sicuro di non sbagliare.
Ma il sinonimo non trionfa solo in politica come strumento di copertura retorica. Imposto dalla società dei consumi, dalla divulgazione dissennata, dal linguaggio snobistico, esso è a disposizione dell’utente incauto come sinonimo illecito. Si veda quanto succede per la terminologia psichiatrica e psicanalitica entrata nell’uso comune: chiunque sia di malumore è un nevrotico, se non gli piacciono i fagioli ha un complesso, se non ha capito una cosa ha un blocco mentale, se l’ha capita e ci pensa sempre è paranoico, se cambia idea è schizofrenico, se è strambo è psicotico, se dice bugie è mitomane; sino al punto in cui viene usato come sinonimo l’antonimo, e cioè la parola di significato opposto, come accade a molti che per dire che qualcuno ha una passione per qualcosa dicono che “ha una fobìa per”.
Infine il linguaggio della cronaca giornalistica ci ha abituati a dei sinonimi che definiremo tuttofare. Ma più che sinonimi sono verbi o aggettivi sclerotizzati che aderiscono ad altri termini con tale passiva tenacia da aver perso ogni significato. Di questi aveva dato tempo fa un gustoso dizionarietto Cesare Garelli nel suo La burolingua quotidiana, il coltello da cucina usato per commettere il delitto sarà sempre “acuminato”, il discorso dell’uomo politico è “abile”, o “acuto” (il che vale anche per il saggio del “brillante sociologo” - dove sociologo è qualsiasi intellettuale non crociano); “arzillo” sarà sempre il vecchietto di cui si celebra l’avanzata età, “bianca coltre” la neve annunciata dai telegiornali, “brillante” l’operazione dei carabinieri, “delicato” l’intervento chirurgico, “squallido” il rapporto degli amanti suicidi, “esemplare” la sentenza, “in fase di avanzato approntamento” il disegno di legge, “ingenti” i danni, “innominabile” l’atto di un “turpe individuo”, “movimentato” l’inseguimento (talora anche “rocambolesco”). “Per cause non accertate” avvengono i tragici incidenti, al compier dei quali si offre agli occhi degli astanti un “raccapricciante spettacolo”, “rigoroso” è il riserbo degli inquirenti, “signore” è la persona con cui si polemizza, “spettacolare” l’incidente stradale che non dà luogo a raccapriccianti spettacoli, “stringente” l’interrogatorio, “valente” il giornalista la cui scomparsa provoca “profondo cordoglio” e che di solito ha contribuito a diffondere le espressioni appena elencate.
E che la lingua, nella sua duttilità e complessità, provvede soluzioni sia per chiarire un discorso che per occultare i fatti e complicare meglio un problema; e provvede anche sinonimi per evitare le espressioni sclerotizzate. E dunque che esistano sinonimi non è male: ma certo è male usarli senza chiarirne le implicazioni e peggio ancora è rimanerne vittima. Per cui, meglio di un dizionario dei sinonimi, sarebbe diffondere un dizionario degli antonimi, e cioè delle espressioni che significano ormai il loro contrario. Così che anche i bambini a scuola sappiano che se un giovane morto in guerra “si è offerto in olocausto”, ciò vuol dire che qualcun altro lo “ha sollevato dall’incarico” di vivente. E che lui non era d’accordo, ovvero che “non manifestava una assoluta identità di vedute” con gli stati maggiori.


In Dalla periferia dell'impero, La nave di Teseo, Milano, 2016 (prima edizione 1977)

Ho sognato della mia bella. Una poesia di Nazim Hikmet


Ho sognato della mia bella
m’è apparsa sopra i rami
passava come la luna
tra una nuvola e l’altra
andava e io la seguivo
mi fermavo e lei si fermava
la guardavo e lei mi guardava
e tutto è finito qui.

1947

da Poesie d'amore, Oscar Mondadori, 1991 - Traduzione di Joyce Lussu

I tuoi occhi. Una poesia di Nazim Hikmet

Kafe Ara, Istambul
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che tu venga all’ospedale o in prigione
nei tuoi occhi porti sempre il sole.

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
questa fine di maggio, dalle parti d’Antalya,
sono così, le spighe, di primo mattino;

i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
quante volte hanno pianto davanti a me
son rimasti tutti nudi, i tuoi occhi,
nudi e immensi come gli occhi di un bimbo
ma non un giorno han perso il loro sole;

i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che s’illanguidiscano un poco, i tuoi occhi
gioiosi, immensamente intelligenti, perfetti:
allora saprò far echeggiare il mondo
del mio amore.

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
così sono d’autunno i castagneti di Bursa
le foglie dopo la pioggia
e in ogni stagione e ad ogni ora, Istanbul.


(1948)

da Poesie d'amore, Oscar Mondadori 1991 - Traduzione di Joyce Lussu

29.8.17

Che cosa sognano gli alberi. Una poesia di Leo Romero (New Mexico, 1950)

Gli alberi sognano l’acqua
Sognano oceani pieni d’acqua
Svegliano i bambini
in piena notte
e fanno venir loro sete

Nei loro sogni
gli alberi si sradicano
Fuggono via dalle persone
e diventano pesci

I pescatori li inseguono
con enormi reti
Ed è allora che gli alberi si svegliano


da “Poesia”, anno XIII n.138 aprile 2000 - Traduzione Franco Bacchiegga

Gilbert Bécaud. Un melodismo di suoni dolci (Marco Ranaldi)

Quando scomparve Charles Trenet, c’era rimasto solo Gilbert Bécaud a rappresentare quel modo così francese e così unico d’essere chanteur ma anche cantautore, uno dei più raffinati e delicati. Ora Gilbert Bécaud si è spento, dopo aver compiuto i suoi 74 anni, portati con grande entusiasmo e con lo spirito di sempre, con lo spirito del musicista innamorato del suo modo unico di fare il cantante, l’autore, l’attore.
Nato a Tolone il 29 ottobre 1927, François Gilbert Silly (suo vero nome), inizia ben presto lo studio del pianoforte, trasferendosi in seguito al Conservatorio di Nice; sicuramente gli studi giovanili gli saranno utili per fare del cantante Bécaud anche un sicuro pianista, dal tocco raffinato e da una buona tecnica.
Sembra che nella sua vita da giovane studente sia apparso anche uno dei padri del moderno pianismo come Ignacy Paderewskji, particolare questo sicuramente importante per comprendere anche la vena creativa di Bécaud, romantico, estremamente portato verso un melodismo di dolci suoni, supportato dal suo pianoforte e da arrangiamenti sinfonici. Non è un caso che una delle sue più belle canzoni: Le pianiste de Varsovie, recupera il suono di Frederich Chopin, la delicatezza della pagina classica, del canto delicato e riservato.
Giovane pianista, speranzoso di esibirsi, Bécaud arriva naturalmente a Parigi dove suona in diversi night club e dove fa la conoscenza del cantante Jacques Pills, del quale diventa il sicuro accompagnatore. Il fortuito incontro permetterà a Bécaud di conoscere e di collaborare con Edith Piaf, sposa di Pills. La Piaf sarà pronta ad incoraggiare il giovane autore a scrivere e ad interpretare le proprie canzoni. Oramai la strada è aperta e il cantante francese approderà nel 1954 a l’Olympia con uno spettacolo che rimarrà nella storia per l’enorme carica e il sicuro swing. Il successo varca i confini della Francia, tante che in poco tempo il suo nome è conosciuto soprattutto in America e quando nel 1966 arriva a Broadway, rimane in cartellone per tre settimane.
In Italia fu interprete per la Rai di Sai che ti dico, dove cantava anche in italiano canzoni come Bagno di mezzanotte, Son tornato da te, Come un bambino. Gino Paoli, Ornella Vanoni hanno spesso cantato suoi classici.


il manifesto, 19 dicembre 2001  

La Vespa firmata Dalì

Secondo “Le vie del gusto”, settembre 2009, che dedica un lungo servizio al mito della Vespa, l'esemplare più prezioso sarebbe quello griffato da Salvador Dalì. Il veicolo, un modello 150, apparteneva a Santiago Guillen e Antonio Veciana, studenti dell'università di Madrid che amavano girare il mondo in Vespa. È il 1962 quando i due, a Cadaquez, incontrano Dalì che, affascinato dai loro avventurosi racconti, decide di “parteciparvi apponendo sulla fiancata la propria firma e disegnandovi il nome della sua amata Gala.
La Vespa firmata Dalì fu esposta per la prima volta nel 1990 a Girona, in occasione del raduno internazionale dei vespisti, poi al Guggenheim di New York e al Beaubourg di Parigi. Oggi la si può visitare a Pontedera, al Museo Piaggio.

Magnani e stagnatari. Nanni Svampa, io e mia sorella. (S.L.L.)


Nella raccolta di canti popolari milanesi e lombardi che Nanni Svampa curò sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, La mia morosa cara (Di Carlo,1977), la sezione dei mestieri scomparsi o in via di estinzione inizia con la canzone sullo stagnino ambulante (magnan), in una versione che Svampa aveva già cantato e inciso nel settimo dei dodici volumi-LP realizzati insieme a Michele Straniero.
Eccone il testo.

DONNE DONNE GH’E CHÌ EL MAGNAN

Donne donne gh’è chi ’l magnano
che 'l gh’ha voeuja de lavora
e se gh’avi quajcoss de fà giustà
tosann gh’è chi el magnan
che 'l gh’ha voeuja de lavora.

Salta foeura ona sposotta
cont in man 'na pignatta rotta:
E se me la giustii propi de galantòmm
mi si ve la darla de nascosi del mè omm.

El marito apos a l’uscio
el gh’aveva sentito tutto
el salta foeura cont on tarèll in man
e pim e pum e pam su la crapa del magnan.

El magnano el dis nagotta
e ’l va via con la crapa rotta
senza ciamà dottór nè avocati
el s’è stagnàa la crapa al post di sò pignatt

senza ciamà dottór nè avocatt
el s’è stagnàa la crapa al post di sò pignatt.

Nanni Svampa fa seguire al testo un commento puntuale:
E questa una delle più vecchie canzoni che hanno per protagonista un artigiano ambulante. Il “magnano”, cioè lo stagnino, infatti girava per le strade delle città e dei paesi con le sue pentole a tracolla e lanciava il grido alle donne di casa perché gli portassero le "pignatte” rotte da aggiustare. A Milano in particolare si ricorda che spesso lo stagnino gridava: “Magnanoo!... Magna-nò!!!” per sottolineare la povertà del suo mestiere e muovere a compassione le donne. Questa, come altre canzoni autenticamente popolari ispirate ai mestieri, non parla solo del lavoro, ma, come dice Michele L. Straniero (v.) “poiché in certe situazioni si cerca quantomeno di stare allegri, ecco i temi spostarsi e allargarsi, la canzonetta farsi amorosa e frizzante”.

Ho conoscenza di un canto popolare siciliano sullo stesso tema, che ha con l'omologo milanese più di un punto di contatto: l'attacco, in primo luogo, il grido di richiamo di lu stagnataru, e l'arietta frizzante di cui parla Straniero. L'ho sentito da un gruppo cefaludese alla “Città del Mare” di Terrasini, ove ero in vacanza con Leila e Carmela nell'estate del 1975. Chiesi notizie agli esecutori: parlarono di una diffusione sulla costa nord della Sicilia, da Cefalù al messinese, con proiezione verso l'interno, le Madonie e i Nebrodi. Non ho mai verificato la fondatezza di queste notizie né cercato in raccolte di canti popolari siciliani il testo, che peraltro – a quanto mi risulta – non è entrato nel tipico repertorio degli interpreti più noti. 
In compenso l'ho mandato a mente e cantato in tante occasioni conviviali, da solo o insieme a mia sorella Piera, che, oltre ad accompagnare il canto con la chitarra, ha inventato una particolare modalità esecutiva, una progressiva accelerazione del ritmo nelle ripetizioni del ritornello, con esiti di divertimento notevoli. 
Piera, autrice di nuove canzoni siciliane, spesso in collaborazione con eccellenti poeti, esegue spesso nei suoi concerti - in omaggio a Rosa Balistreri - alcuni “pezzi” tradizionali. Il canto dello stagnataru lo fa molto di rado, solo come “fuori programma”, ma quando lo interpreta oltre a riempirlo dell'energia vocale e dell'intensità drammatica che caratterizzano la sua arte, lo profuma con un pizzico di malizia.
Ecco comunque il testo, nel mio dialetto campobellese.

AFFACCIATIVI FIMMINI BEDDHI CA C'È LU STAGNATARU
Affacciaticivi, fimmini beddhi,
ca c'è lu stagnataru
ca stagna padeddhi!

S'affacciaiu na signorina
vosi stagnata la so padiddhina.
S'affacciaiu na signorina
vosi stagnata la so padiddhina.
Ci la stagnavu d'intra e di fora
la padiddhina ci vinni chiù nova.

Affacciaticivi, fimmini beddhi,
ca c'è lu stagnataru
ca stagna padeddhi!

S'affacciaiu na “sposa bella”
vosi stagnata la so padeddha.
S'affacciaiu na “sposa bella”
vosi stagnata la so padeddha.
Ci la stagnavu d'intra e di fora
la padeddha ci vinni chiù nova.

Affacciaticivi, fimmini beddhi,
ca c'è lu stagnataru
ca stagna padeddhi!

S'affacciaiu na cammarera
vosi stagnata la ciuculatera.
S'affacciaiu na cammarera
vosi stagnata la ciuculatera.
Ci la stagnavu d'intra e di fora
la ciuculatera ci vinni chiù nova.

Affacciaticivi, fimmini beddhi,
ca c'è lu stagnataru
ca stagna padeddhi!

S'affacciaiu na vicchiazza
vosi stagnata la so padiddhazza.
S'affacciaiu na vicchiazza
vosi stagnata la so padiddhazza.
Ci la stagnavu d'intra e di fora
la padiddhazza non vinni chiù nova.

Cu li vecchi 'un c'è guadagnu,
ci appizzi sempri lu ramu e lu stagnu.
Cu li vecchi 'un c'è guadagnu,
ci appizzi sempri lu ramu e lu stagnu.

Qui, a differenza che nel canto lombardo, l'elemento erotico non è esplicitato, ma si distende in una serie di doppi sensi. Manca del tutto, invece, l'elemento moralistico, cioè la punizione a suon di botte in testa dell'insidioso ambulante. L'unica pena che gli tocca consiste nell'obbligo di intervenire senza discriminazioni su tutte le padelle femminili, incluse quelle un po' consumate delle vecchie con le quali si rischia di sprecare rame e stagno.

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