19.6.17

L'Iliade. Il rumore della guerra nei versi di Omero (Jolanda Insana)

Tra i ritagli ritrovati prezioso mi pare questo saggio sull'Iliade di Jolanda Insana, scritto in occasione di una nuova traduzione. La poetessa e scrittrice messinese da poco scomparsa non ha ancora trovato un posto di primo piano nelle storie letterarie. Lo merita anche per il grande acume con cui legge i classici, premessa indispensabile di una scrittura che non di rado affonda nella realtà la lama della parola con un vigore paragonabile alla grande poesia antica. (S.L.L.)
Jolanda Insana
Allo stesso modo che su un atto di tradimento, vendetta e lite ha la sua fondazione una città o civiltà o religione (da Caino e Abele, a Romolo e Remo, Giuda e Cristo), così la letteratura greca ha fondamento e principio a partire da un gesto di prevaricazione: l’offesa di Agamennone che sottrae ad Achille la bella Briseide. L'Iliade, infatti, si apre sul conflitto tra i due eroi dentro il più vasto conflitto di popoli, ed è il racconto di una guerra dentro il racconto della guerra di Troia al suo decimo anno. E non solo. È anche moltiplicazione della contesa: contesa tra uomini, contesa tra uomini e dei, contesa tra dei, contesa intorno al corpo di Patroclo, contesa intorno al corpo di Ettore: éris e néikos, contesa e discordia, sono le parole più ricorrenti, per quanto siano controbilanciate da parole di philòtes, di amore. È discordia di affetti e di linguaggio, ferinità di parole: «divorare il fegato a morsi» - dice Ecuba imprecando contro Achille, «fare a pezzi e divorare la carne cruda» (di Ettore) dice Achille.

Scrittura e male
Sempre oltraggio e dolore. Priamo denuncia così la sua più grande sventura: «ho osato portare alle labbra le mani dell’uomo che ha ucciso mio figlio». E se da una parte domina l’opposizione tra lyssa e sophrosyne, furia e controllo di sé, rabbia e padronanza, dall’altra si impone l’affermazione dei valori di forza e bellezza che fanno la grandezza morale dell’eroe: il nesso tra bellezza e valore morale - che include anche la Philophrosyne. la disponibilità ad amare - è così radicato nel pensiero greco che passerà anche nella lirica («chi è bello/ è bello a vedersi/ ma chi vale / di colpo è anche bello» si legge in un frammento di Saffo).
Ma perché la letteratura greca comincia con la guerra e il mondo greco si riconosce in questo epos in funzione di memoria collettiva? Si tratta di un movimento mimetico della scrittura verso la realtà e la storia, anche se l’Iliade non è un diario di guerra e neppure un’invenzione fantastica sciolta da ogni legame di storicità? Può essere, e allora ci si domanda se è perché la discordia (al contrario di quanto credeva Empedocle) funziona come elemento combinatorio e generatore che muove il mondo e rinsalda le relazioni in modo che sul caos si ricomponga l’ordine e dalla perdita nasca il desiderio, o nostalgia delle cose perdute - onore e affetti, città e oggetti materiali; o invece la parola muove dall’offesa, dalla rissa, perché scrittura e male si stringono inesorabilmente, generando poi dal suo corpo originario altri corpi letterari, altri generi, altri versi? Ma allora davvero la pace sarebbe non-evento, tempo di stasi contrario alla scrittura che stasi non è ma conflittuale energia che si dispiega per maschere armamentari e sonnacchiamenti?

Traduttori a orecchio
Fra quattro anni cade il bicentenario della Morte di Ettore, il rifacimento in versi che Melchiorre Cesarotti in chiave piuttosto patetica trasse dalla sua precedente traduzione in prosa dell’Iliade. In quegli stessi anni il giovane Foscolo comincia i suoi «Esperimenti di traduzione dell’Iliade» e nel 1803 pubblica i primi frammenti. Le vicende di Foscolo traduttore formano un capitolo a parte, una particolare appendice alla sua attività letteraria non soltanto per le curiosità linguistiche e le sfide stilistiche suscitate, come succede alla maggioranza dei poeti traduttori. E del resto Foscolo è letto come poeta e sperimentatore in proprio, e non come traduttore che affida il suo nome al nome di un altro, la sua voce a un’altra voce.
Diversa la sua posizione rispetto al Monti, il «traduttore dei traduttori». Tradurre è per lui un appassionato e disperante esercizio (fondamentale peraltro alla costruzione del suo proprio linguaggio, dai sonetti alle Grazie), ma è anche tensione interpretativa delle umane vicende, del mito che dà senso al mondo ricucendo le lacerazioni drammatiche. In grado di sentire la sostanza fonica e di percepire ogni possibile estensione semantica o espansione temporale del greco, Foscolo è spinto a rendere «le minime idee concomitanti d’ogni parola che solo danno tinta e movimento al significato primitivo». Ma è un impegno che non favorisce un lavoro sistematico, la traduzione di un’opera intera, per impossibilità di tempo, di energie.
Di lì a poco, nel 1810, esce la traduzione di tutti i 24 canti dell’Iliade a opera del Monti, dopo quattro anni di lavoro. Paradossalmente la fortuna di Monti si deve all’ignoranza del greco (la sua conoscenza è insufficiente alla comprensione di passi e passaggi), sicché aggira e raggira il problema di trasportare le parole da una lingua all’altra, ricorrendo alle traduzioni di Cesarotti e ad altre in latino. Interessato più al quadro che al dettaglio, al racconto più che alla parola, e utilizzando come calco ritmico-tonale l’Eneide di Annibai Caro (ma anche alte movenze bibliche), scrive la partitura di una musica pittoresca, fascino di risonanti emozioni; e poeta più dell’orecchio che del cuore (secondo la definizione leopardiana) mette a frutto le sue capacità e senza sforzo riesco a coniugare epos e pathos: non deve inventare, la materia è bell’e pronta, fissata per sempre. Dimostrando, indirettamente, che la letteratura gira su se stessa in un vortice auto-proliferante, che le parole figliano parole e da sorelline minori nascono sorelline maggiori o viceversa, ma creando così uno iato profondo tra l’originale e la copia, sicché l’Iliade che un tempo si leggeva a scuola non era tanto Omero quanto Monti. Purtroppo oggi non si legge quasi più, nonostante l’accessibilità delle traduzioni novecentesche di Romagnoli, Calzecchi Onesti, Vitali o Tonna. Fino all’ultima di Maria Grazia Ciani (marsilio, 1990), con un commento straordinario e un ricco apparato bibliografico diviso per temi, a cura di Elisa Avezzù.
Sono, e sono state, traduzioni tutte necessarie. Infatti, mentre l’originale non invecchia ma resiste e vive nella sua lingua e nello svolgimento della sua storia, la traduzione (o parafrasi, volgarizzamento, rifacimento o adattamento) è sempre effimera, epocale o stagionale, nel rispecchiamento di lessico e umore delle varie temperie culturali, - e dunque destinata a deperimento, a insostenibile leggibilità.
Perciò questa nuova traduzione è opportuna e necessaria, ma anche diversa da tutte le altre: perché se l’Iliade greca è una e unica, sempre uguale a se stessa (indipendentemente dal problema della trasmissione per possibili interpolazioni e aggiunte successive, fino alla vulgata pisistratea), le traduzioni invece sono costituzionalmente tutte diverse tra loro per la molteplice alterità di autori e tempi, lingua e stile. Maria Grazia Ciani ha fatto una traduzione in prosa, piana e scorrevole, che poggia però su un sottofondo metrico, su un’eco di ritmo non immediatamente percepibile come se per rischio di cantabilità fosse frenato o camuffato; ma in una lettura scandita, dentro la riga continua si avvertono numerosi i blocchi sonori endecasillabici (che è il movimento tipico dell’italiano), oltre a certe lontanissime risonanze da cantare popolare.

Risvolti buffi nella tragedia
Per assecondare questo ritmo nascosto come corrente dentro un fiume, la traduttrice crea minimi e significativi spostamenti, senza nulla sacrificare né oltraggiare, sempre inseguendo nella nostra lingua la pregnanza del nesso originale. La lingua assolutamente priva di enfasi si adagia in pienezza di senso e di suono, senza falsi accorciamenti, senza superflue aggiunte, e soprattutto non tende mai a spiegare: semplicemente racconta, dice, ricreando fin dove è possibile il giro della frase, paratattico più che ipotattico, e restituendo sapore arcaico alla leggenda di un mondo arcaico.
Leggendo l’Iliade come un antico copione di guerra, capita di scordare l’orrore dei «mucchi di morti» o il clamore delle armi, e di provare invece un senso di liberazione fino alla risata, davanti alla rappresentazione, a tratti comica, della guerra guerreggiata. Pare proprio un gran copione, non privo di risvolti buffi nel crescendo di trucchi beffe e travestimenti, come se un intento caustico e corrosivo della forza e del coraggio stravolgesse il pianto in riso, la tragedia in commedia, uomini e dei in pupi o manichini a molla. A partire dalla considerazione che i mortali «simili a foglie, ora rigogliosi fioriscono e dei frutti della terra si nutrono, ora appassiscono e muoiono», è un continuo balletto, un accelerato movimento teatrale al limite della spettacolarità, con suoni e luci, masse e comparse, primi attori e prime donne, eroi e deboli combattenti male armati, da tutti maltrattati, anche dagli dei.
Nel palcoscenico chiuso tra i fiumi Scamandro e Simoenta, la città con le mura (palco degli spettatori troiani e di Elena che indica per nome gli attori in campo) e la barriera delle navi - scenario archetipo di tutte le guerre! -, si succedono quadri e scene con fondali di finta nebbia, piogge di sangue, tempeste di polvere, ventri squarciati e ventraglie rovesciate a terra, teste tagliate insieme con l’elmo, parusìe divine e disvelamenti, cavalli che piangono «brucianti lacrime» o predicono la sorte, la morte. E non manca né il lancio di frecce e sassi, né il rancio dei soldati, né il sadismo coniugale di Zeus che minacciando Era di frustate aggiunge: «Non ricordi quando ti sospesi in alto, con due incudini ai piedi e intorno ai polsi una catena d’oro, indistruttibile, e tu pendevi in aria, tra le nuvole; erano sdegnati gli dei del vasto Olimpo, ma non potevano venirti vicino e liberarti; se ne coglievo uno, lo scagliavo oltre la soglia finché toccava il suolo senza respiro».
Tra inseguiti e inseguitori c’è chi corre ad attaccare e chi corre a salvare, ma «è difficile salvare tutti gli eroi»; e ci sono eroi ingigantiti e fiumi incendiati; e vola il bellissimo carro con cui Era e Atena, sfrenate guerriere, atterrano sul campo di battaglia. Feriti dai mortali negli scontri cruenti, gli dei tornano a casa a farsi consolare e medicare: in rapida successione Diomede ferisce Afrodite al braccio, sul polso, si volge contro Apollo ma atterrito dal dio si ritira e invece ferisce al ventre addirittura Ares, il dio della guerra. Come i mortali anche gli dei ricorrono agli infami colpi bassi: Apollo colpisce alle spalle Patroclo così che agevolmente Ettore può trafiggerlo con la sua lancia. E poi c’è lo Scamandro «pieno di morti» che non può riversare nel mare divino le sue acque bellissime, e prende umane sembianze e parla e impreca, e rovescia cadaveri sulla riva, e corre e insegue Achille, finché non è divorato dal fuoco. E succede che sul più grande scompiglio la tenebra cali come un sipario per il sabotaggio di Era che accorcia la giornata affrettando il corso del sole.

Generali sull’Olimpo
Il comando militare, insediato sull’Olimpo, è saldo in mano a Zeus che decide il quando e il come di manovre e interventi, duelli e anonimi combattimenti. La vita dei mortali però non è in mano sua. Tutto è predeterminato, a ognuno tocca la sua parte, il suo pezzo di sorte, la moira, e nascere significa andare incontro alla propria sorte per darle compimento, mentre morire significa «lasciare la luce del sole», non potere più né vedere né essere visti: vista e vita si equivalgono, così come vedere coincide etimologicamente con sapere (oida «so» ha la radice id di horao «vedo»). La luce è anche luce metafisica, luce della ragione. Così prega Aiace: «Padre Zeus, libera da questa nebbia i figli degli Achei, fa chiaro, fa che i nostri occhi vedano; e poi, se così ti piace, facci morire, sì, ma nella luce»; nell’Aiace di Sofocle risulta chiaramente come la tenebra, l’omerica «notte cupa che scende sugli occhi», non sia soltanto morte ma follia, perdita della luce della ragione. E come non ricordare che anche Zeus-Diòs ha nome nella luce, il dies latino?
Dunque, non ci sono paure irrazionali, gli dei non hanno spaventosa forma animale. Sono come gli uomini ma un po’ più grandi, e come gli uomini patiscono e piangono, sono gelosi bizzosi e litigiosi: mediatore Efesto, litigano Era e Zeus, come in terra litigano Agamennone e Achille, mediatore Nestore. Zeus, padrone e signore come un Basilèus miceneo, ha le sue umane debolezze di cui approfitta Era tramando inganni; e quando senza spiegazioni vieta la partecipazione degli dei alle azioni militari, Era si fa prestare da Afrodite la magica cintura «ricamata e variopinta dov’erano racchiusi tutti gli incanti, amore, desiderio, dolci parole e la seduzione che rapisce la mente dell’uomo più saggio»; lo raggiunge «sulla vetta più alta dell’Ida» da dove spia e controlla il movimento di truppe e mezzi; lo seduce e lo addormenta con l’aiuto di Hypnos, il Sonno, presentato come fratello di Thànatos, la Morte. Così, con subdola arte femminile, Era mette momentaneamente fuori del gioco della guerra, della polemoscopia, il dispotico comandante supremo, e torna ad aiutare gli Achei incalzati dai Troiani.
Più tardi però «ride di gioia il cuore di Zeus quando vede entrare in conflitto gli dei»: è lui che ha tolto il divieto e scatena dèi contro dèi nella violenta battaglia del canto 21, dove insulti e colpi vanno in accelerata: «Cagna sfrontata, perché semini discordia?» urla Ares ad Atena, colpendo con la sua lunga lancia «l’egida a frange» della dea che non ha paura e afferrato un macigno colpisce al collo il dio «mai sazio di guerra» e l’atterra, ma arriva Afrodite e lo prende per mano e lo rincuora e lo porta via; Atena implacata li insegue, «con la forte mano colpì la dea al petto», e i due finiscono a terra; mentre in un altro punto del campo Era aggrediva Artemide e le strappava l’arco dalle spalle, e «con questo, ridendo, la colpiva sulle orecchie»; in lacrime fugge la «leonessa dei monti», corre da Zeus, sulle ginocchia del padre siede piangendo (e le trema il peplo divino) e fa la sua denuncia: «La tua sposa, padre, mi ha maltrattata, Era dalle candide braccia, che fra gli dei porta discordia e contesa». Dunque, éris e néikos, discordia e contesa, sono in cielo e in terra.
Lo spazio scenico è potentemente illuminato dalle armi che riflettono la luce del sole e dell’eroe sempre riconoscibile nella sua tipologia e nei topos linguistici, nelle formule ricorrenti per lo più nella stessa sede dell’esametro. Simile a un lampo è la lunga spada impugnata da Poseidone; mandano bagliori i mozzi d’argento e il giogo d’oro del carro divino; «splendido come il sole» è Achille in armi; «splendente» è la fiamma che invade il fiume e la riva, e bruciano le acque belle, bruciano gli olmi, i salici e i tamerischi, e soffrono anguille e pesci che nei gorghi guizzano stremati dal soffio del fuoco. «Fuoco arde sulla testa di Achille», fiamme sprigiona il suo corpo, quando compare sul fossato e atterrisce i Troiani tanto che lasciano la presa del corpo di Patroclo morto. L’apparenza vale essenza, l’eroe morto non va oltraggiato, anzi rimarginando le ferite uomini e dei ne preservano la bellezza; non si indossano impunemente le armi di un altro perché è come appropriarsi della sua identità, ma Ettore lo fa con le armi di Achille, segnando così la propria sorte.

Leggende di guerra
Oltre alla luce dominano i suoni: il rimbombo della terra, lo zoccolìo dei cavalli, lo scalpiccìo dei piedi, il sibilo, delle frecce, il frastuono del fiume irato o del vasto Ellesponto che si solleva verso le tende e le navi, l’urlo di uomini e dei, e più potente di tutti è l’urlo di Achille replicato da Atena: nell’urlo prende forma e corpo il dolore, nel dolore-àchos ha il suo nome l’eroe, nel dolore riconosce la guerra; e il dolore per la morte di Patroclo lo trascina sulla scena.
Nel silenzio campale lo spettatore assiste all'ultima scena su cui cala il sipario: la grande riconciliazione tra Priamo e Achille che, congiunti nel pianto nel ricordo e nel dolore, «a lungo si contemplano», contemplando l’uno nell’altro l’umana fragilità, e chiudono nell'animo l'angoscia, e scelgono la vita con le sue ragioni e i suoi riti, e dopo tanto digiuno mangiano e bevono. Per Achille che finalmente dorme con Briséide si compiono le parole di Teti: «E’ bello unirsi a una donna, in amore».
Al lettore, risucchiato nei gorghi dell'immaginario collettivo e sollevato da qualche risata, non resta che sciogliere le tensioni, liberandosi da aggressività ossessioni e fobie. E si svuota secondo quella nozione di catarsi genialmente introdotta da Aristotele, che figlio di un medico, conosceva bene le parole di uso terapeutico, e usa catarsi nel senso proprio di purgarsi: metaforicamente lo spettatore si libera del peso del ventre. E ci si domanda se è la stessa la catarsi del telespettatore che in questi giorni orrendi segue la guerra sul video, passando da un canale all’altro. Ma la guerra è altra cosa dalla leggenda di guerra, altra cosa i traccianti luminosi sul video dalla vertigine di chi li ha sulla testa.

L’effetto liberatorio

L’effetto liberatorio dell'Iliade che in ampi giri leggendari è affidato a tecniche di spiazzamento interruzione e spostamento, non appare casuale ma controllatissimo per rimandi e corrispondenze puntuali, a conferma che a tracciare il percorso c’è la regia di un solo autore - si chiami o non si chiami Omero. Il quale ama il gioco di specchi, di leggende dentro leggende, di guerre dentro altre guerre, fino a una precedente guerra contro Troia a opera di Eracle che «con sei sole navi e un pugno di uomini, davastò la città di Ilio, ne fece deserte le strade», per l'offesa di Laomedonte che gli aveva negato i cavalli, - il compenso pattuito per liberare la città da un terribile mostro marino.

"il manifesto - la talpa libri", 8 febbraio 1991

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