29.6.17

Non possum... Una poesia di Toti Scialoja


Nec possum tecum vivere
nec sine te - stamani
lo grido sulle rive
dove vagano i cani.

Latro per te tra vetri
rotti e tettoie - il buio
mi spia da pochi metri 
- da vecchie feritoie.

Le sillabe della Sibilla 1983-1985, Scheiweiller, 1988

27.6.17

La cazzoeula è ... (Alberto Caratti)

La ricetta
Il piatto elenca ingredienti di base e resta a disposizione della tasca per arricchirsi. La nostra traccia sarà contenuta ma non povera. Per quattro commensali scegliamo costine di maiale che salvino attorno all’osso buona carne saporita. Salsiccia, cotenne e piedino.
Le componenti cerchiamole in cascina, nel lodigiano, assieme al salammo, detto verzino, uno a testa. Poniamo accanto alle carni cipolle, carote, sedano, lauro, timo e cavolo verza.
Facciamo sbollentare per togliere il grasso di eccesso cotenne, piedino e costine. Ritiriamo i tre ben scolati.
In una buona pentola a bordi alti rosoliamo la cipolla affettata con il burro e aggiungiamo via via cotenne, piedini spaccati in due. Imbiondite le carni copriamo con acqua.
Lasciamo evaporare a fuoco lento, aggiungiamo le costine e, dopo mezza ora circa, sedano e carote a fettine, poco lauro e poco timo.
A parte affidiamo al bollore, per una decina di minuti, i verzini. Aggiungiamo alla preparazione la salsiccia e il cavolo verza in foglie e, dopo dieci minuti, i verzini preparati. Altri dieci minuti porteranno a maturazione la cazzoeula umida e collosa. Controlliamo di sale e di pepe e serviamo (con o senza polenta).

Genealogia e origine
Quando sia nata, è un mistero. Di che cosa fosse fatta, una vera sorpresa.
Tre dizionari la definiscono cibreo, un miscuglio, un povero miscuglio.
«Cazola o Cazora. Termine di cuochi. Cibreo, manicaretto, fatto per lo più di polli. Anche i siciliani la chiamano Cazzolicchia e i sardi Cassola. Forse è voce rimastaci dopo il governo di Ferrante Gonzaga» (F. Cherubini, Vocabolario milanese - italiano, Milano 1814).
«Cibreo, Creste, Fegatini. Manicaretto composto di coratela (polmùn) e fegatini (fidech), colli e ali e creste di polli» (G. Bandi, Vocabolario milanese-italiano, Milano 1857).
«Diminutivo di cazza (fr. cassa) casseruola e mestola: mestola di ferro con cui i muratori prendono la calce. Cibreo di carne e verdura della cucina lombarda» (A. Panzini, Dizionario moderno, Milano 1905).
Il Dizionario gastronomico di E. Neiger (senza data, probabilmente anni ’20 del Novecento) definisce la «Cassola», «carne di maiale con verdura cotta in scarso brodo»: è la prima descrizione puntualmente rispondente a quella attuale. Chi ne vorrà registrare il modello più autorevole, consulti: Ottorina Perna Bozzi, Vecchia Milano in cucina, Martello-Giunti 1975 (in cui è adottata la grafia cazzoeula). Senza entrare nel merito degli ingredienti, non vanno taciuti i versi milanesi del dottor Giovanni Rajberti intitolati I fest de Natal (1853), e particolarmente quell’endecasillabo che registra: «luganeghit, cazzoeula e gran vinaja», come a dire «salsicce, bottaggio e tanto vino».
I comparatisti potranno infine divertirsi ritrovando la cazzoeula in molti ricettari rurali stranieri e citeranno ovviamente la potée che, solo in Francia, comporta numerose varianti regionali (albigese, alsaziana, borgognona, bretone, lorenese, alvergnate ecc. ecc.).

Postilla
I due testi, riguardanti la ricetta attuale e l'oscura origine sono parte di una più ampia sezione dedicata alla celebre pietanza milanese della rivista “La Gola”, anno VI n.3, febbraio 1987 e sono curati da Alberto Caratti con la collaborazione de «Il Collezionista».

Birichine di celluloide. Le donne nel cinema fascista (Enzo Rava)

«Fate figli, molti figli: il numero è potenza »: dato che questa era la mansione che il regime fascista affidava alle donne, di partorire soldati, si capisce come, nel cinema di quegli anni, i «tipi» femminili dominanti fossero pochini: l'ingenua, cioè la fidanzata destinata al talamo per la intensa riproduzione della specie; la grande peccatrice, contraltare del matrimonio sacro e indissolubile; la sana massaia meglio se contadina, garanzia della sanità della stirpe; la ricca ereditiera offerta ai sogni di evasione da una penosa realtà. A Venezia, al primo festival del 1932, mentre la Germania (prenazista) presentava un drammatico film sulla condizione femminile come Ragazze in uniforme, l’Italia, già fascista, applaudiva per Gli uomini che mascalzoni, il film restato invero graditissimo dato che, per quanto frivolmente amabile e nulla più, era pur sempre meglio delle pellicole di propaganda e d’eroismo a comando che sempre più dilagavano sugli schermi. Un filmetto dove l’eroina era, appunto, la commessa graziosa punto e basta, affascinata da un bel giovanotto che s’era spacciato per riccone, senza orizzonti, senza ambiente, senza storia.
L’ingenua venne da allora condita in tutte le salse, era Scampolo da una commedia già affermatasi a teatro, o Teresa Venerdì, ma restava comunque e sempre la ragazzina talvolta un po’ sciocchina talvolta furbetta, che riusciva infine a pilotare all’altare il farfallone; cosi, negli anni de L'angelo azzurro (la straordinaria figura femminile di Lola Lola, interpretata da Marlene Dietrich), di Estasi (dove la femminilità non era certo soltanto quel primo nudo integrale della storia del cinema), de La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, o, sia pure, anche di Accadde una notte, con quel clamoroso amore extramatrimoniale fra Claudette Colbert e Clark Gable e magari di Via col vento (l’indimenticabile ribelle Rossella O’ Hara) nella nostra neonata Cinecittà si confezionavano filmetti come Ore 9 lezione di chimica, tante ragazzine belline e sciocche, impegnate a imbrogliare i professori e a catturarsi un fidanzato.
Quello stesso fascismo che aveva drasticamente limitato l’accesso delle donne agli studi in particolare quelli superiori, che del resto aveva loro interdetto i pubblici impieghi e che — quando lavoravano — pagava loro salari e stipendi dimezzati rispetto a quelli dei maschi, amava idealizzarle, nel cinema come studentesse benestanti, impiegatine dalla permanente sempre in ordine, contadinelle dai grandi cappelli di paglia con il mazzolin dei fiori. Ma, consapevole che oltre alla preparazione verginale al parto multiplo l’amore era anche sesso e peccato, il cinema fascista parallelamente sfornava pellicole dove la donna era presentata come torta per consumi di lusso, budino alla crema per i riposi del guerriero: Luisa Ferida, Clara Calamai, chi ancora ?, erano le prosperose peccatrici di polpettoni storici che consentivano (riprendendo un filone magniloquente dell’Italia prebellica) di esibire orge, letti sfatti, violenze carnali.
Tuttavia, l’epoca restò caratterizzata come quella «dei telefoni bianchi»: alla ammirazione delle platee, la Cinecittà mussoliniana proponeva con ostinata frequenza, dive dai movimenti fataleggianti che, all’interno di lussuosi appartamenti, facevano uso intenso di quel mezzo di comunicazione che, appunto bianco, appariva fascinoso ed elegantissimo; si trattava di solito di commediole del tutto insignificanti (nessuno ne ricorda neppure i titoli) ma il cui fine evidente era quello di garantire alle donne — restituite alle mansioni domestiche per far posto alla crescente massa dei disoccupati maschili — che l’angelo del focolare poteva anche essere bello, ricco e indaffaratissimo in faccende di cuore. Ma peggio andò quando il già tanto lodato angelo dovette esser riportato alla svelta in fabbrica, perché i maschi venivano spediti alla conquista del mondo: nel cinema fascista di eroismo e di guerra, alla donna, ovviamente, non restava molto posto, Scipione l’Africano aveva troppo da fare a conquistare la «quarta sponda», per perdere tempo con le femminelle. Nei meno infami film del tempo, comunque, come Un pilota ritorna o Uomini sul fondo, alle donne era consentito far le crocerossine, le madri dei caduti e le spose in fedele attesa. Per quanti disperati sforzi di memoria si possano fare, non una figura femminile del tempo può essere ritrovata nel ricordo; avviata a diventare una caserma, l’Italia non aveva posto per le donne.
Se non nei sogni «romantici»: ecco infatti un altro filone del tempo, quello de La romantica avventura, abiti bianchi e violini, baci lievi sotto grandi alberi e happy end. In realtà, tagliata fuori dai problemi reali del Paese, e privata d’ogni libertà, quella cinematografia era insieme falsa ed impotente; erano gli anni, nel mondo, di film come Alessander Newskii, Ombre rosse, Tempi moderni, Alba tragica, e da noi per sfuggire a film come L'assedio dell’Alcazar, non restavano che gli idilli canori tipo Fuga a due voci: e ancora e sempre la donna come delicata sciocchina, ricca borghese, prostituta di lusso.
Poi, di colpo, una figura di donna vera, vibrante, appassionata, in un ambiente allucinante, disperata e tragica, la donna di Ossessione, la prima artigliata del neorealismo contro l’ipocrisia, il conformismo e la falsità dell’orpello del regime. Il fascismo entrava in agonia, di lì a poco proprio una figura di donna — in Roma città aperta — l’indimenticabile Magnani, sarebbe diventata il simbolo dell’amore e della libertà.


“Noi donne”, 23 aprile 1974

Ben e Claretta amanti di regime. Una stroncatura (Patrizia Carrano, 1974)

Nell'aprile del 1974 era in corso la campagna per il referendum voluto dai clericali per l'abrogazione della “legge Fortuna”, quella che nel 1970 aveva introdotto in Italia l'istituto del divorzio. Tra i sostenitori del Sì all'abrogazione era in prima fila Giorgio Almirante, il segretario del MSI neofascista, e con lui tutto l'apparato del suo partito di estrema destra. In prima fila per il No all'abrogazione c'era l'UDI (Unione Donne Italiane), la storica associazione delle donne di sinistra, a quel tempo in grande crescita, insieme alimentata e scossa del vento del femminismo. Per il 25 aprile il settimanale dell'UDI “Noi donne” pubblicò uno speciale dal titolo I fascisti: sempre gli stessi contro la donna, sul maschilismo nel ventennio e dopo il ventennio. Ci sono ben due articoli dedicati al cinema, uno del critico Enzo Rava centrato sulla figura femminile nei film italiani degli anni Trenta e un altro di Patrizia Carrano su un film recente, il Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani, una “stroncatura” molto ben riuscita. Non sono del tutto d'accordo con la Carrano a proposito del film, ma il suo pezzo mi pare un notevole esempio della critica femminista di quegli anni, degno di essere fatto conoscere anche a 43 anni di distanza dalla sua stesura. (S.L.L.)


Nell’ambiguo film di Lizzani
Mussolini ultimo atto
è chiara solo una cosa:
per il capo fascista
la moglie sta a casa
e l’amante nell’alcova

Il vero, assoluto protagonista del film Mussolini ultimo atto è l’amore di Claretta Petacci e di Ben, come lei affettuosamente chiamava «il duce». Solo che, probabilmente Lizzani s’è confuso, e ha creduto di girare un film sulla tragedia di Mayerling, una versione in costume anni quaranta di Giulietta e Romeo, una interpretazione romanzata in panni semimoderni di Paolo e Francesca, e non come invece lui stesso sostiene « la ricostruzione del grande dibattito intorno alla fine di Mussolini che si svolse a Milano, nei comandi tedeschi, nelle ambasciate alleate, nelle zone partigiane ».
Infatti più che all’epilogo d’una tragica pagina della nostra storia noi assistiamo alla fuga di due amanti braccati: lui tetro, compreso di apocalittici pensieri eppure dignitoso e presente a se stesso. Lei disperata, piangente, romantica, felice finalmente d’essere vicina al suo «lui», che ormai da tanti anni divideva non solo con la legittima consorte ma anche con tutte le altre occasionali visitatrici di palazzo Venezia. Già, perché come tutti gli amanti della tradizione i due non solo sono ostacolati nella loro ricerca di felicità dal mondo esterno (e cioè alleati, partigiani, tedeschi tutti mescolati in un unico calderone), ma anche da una condizione oggettiva: lui è sposato, ama fervidamente lei, ma non si stacca dal talamo nuziale; la tiene presso di sé ma intanto telefona alla moglie (e, mascalzone, le dice anche che è l’unica donna che abbia mai veramente amato, mandando in vacca cosi il sentimento che lo lega all’amata e insinuando in noi il dubbio che sia un farabutto). Salvo poi riabilitarsi quando, «costretto» a salvarsi e a indossare un cappotto tedesco per sfuggire alla cattura, chiede che anche lei possa essere sottratta alla furia del popolo (che guardacaso sono gli antifascisti italiani). Alla fine però, queste due vite, vincolate dall’amore e divise dal fato si riuniscono nella morte. E c’è anche da chiedersi se non andranno in paradiso.
Carlo Lizzani ha con questa sua ultima fatica fabbricato un polpettone degno della campagna elettorale di Almirante. Fu Almirante infatti a dichiarare alla televisione italiana che «i missini non rinnegavano la resistenza e i suoi valori, ma neppure il fascismo e il suo contributo alla storia d’Italia»: anche questo film non rinnega niente e sotto un falso pretesto di oggettività racconta la storia di un uomo sconfitto sul campo delle armi (l’inizio mostra una grande cartina con le conquiste tedesche che pian piano si riducono sino a diventare quella stretta lingua di terra in Italia e in Germania in cui si svolsero i fatti dell'aprile del ’45) al quale, forse un po' troppo frettolosamente, viene fatta la pelle. Il Mussolini di Lizzani assomiglia paurosamente a Napoleone, forse anche per colpa di Rod Steiger che già interpretò la figura del condottiero francese nel film di Bondarciuk. Noi tutti sappiamo che Napoleone era un guerrafondaio, che la sua era una politica d'imperialismo sfrenato, che la sua «grandeur» era l’espressione duna ideologia reazionaria (come prova del nove basta ricordare che le leggi napoleoniche, poi applicate anche in Italia sono il condensato della misoginia e che considerano la donna come un oggetto di proprietà del marito). Però è anche innegabile il fascino dell'imperatore, un fascino a cui i francesi ancora non si sono sottratti.
Ora non vorremmo che film come quello di Lizzani contribuissero a irreggimentare quella sparuta truppa di nostalgici che ancora inneggiano alle camicie nere fasciste. Il Mussolini di Lizzani è in fondo un uomo probo e dignitoso, uno statista che ha fatto errori di valutazione, e che ha sopravvalutato la forza dell'esercito tedesco, un politico intelligente tradito da quei tristi fantocci dei suoi generali. Che se non fossero stati cosi stupidi, non l’avrebbero neppure condotto alla rovina. Tradito dai suoi, tallonato dai tedeschi, braccato dagli inglesi e dagli italiani, Mussolini diventa da carnefice vittima. E i partigiani degli algidi killer di maniera. C’è un solo momento in cui il film abbandona le cupe voragini della confusione e del qualunquismo: ed è quando i partigiani della brigata Garibaldi mobilitano gli operai della fabbrica per ingannare la colonna tedesca: ma anche lo sventolio della bandiera rossa, sulla ciminiera dell’officina ha ben poca efficacia: lo stile è quello d’un carosello per la réclame della pasta dentifricia. Lo stesso colonnello Valerio non riesce a conquistarsi le simpatie del pubblico: certo ha il bel viso di Franco Nero, ma in fondo tutta la platea finisce con lo sperare nella fuga di Mussolini in Svizzera e nel gioire di tutti gli impicci che si frappongono al compimento della missione dei partigiani.
Due possono essere le ragioni di un film tanto disastroso e ambedue non fanno certo onore a Lizzani: la prima è una oggettiva ambiguità nelle intenzioni politiche, la seconda è invece una sostanziale onestà d'intenti tradita dall'incapacità di realizzarli. In ognuno dei due casi il verdetto è sconsolante: e pensare che Lizzani è un regista al quale dobbiamo un film sul fascismo, appunto, come Il processo di Verona. Anche Claretta, che vista l'importanza data al suo personaggio avrebbe potuto essere la giusta occasione per fare un discorso sulla donna «nera», fascista, legata fino alla fine al mito del duce, dell’eroe, vittima dell'ideologia che delle donne ha saputo fare solo delle vittime è, nel film di Lizzani, un personaggio che ha accenti più isterici che critici.

"Noi donne", 23 aprile 1974

Afa. Una poesia di Ernesto Regazzoni

Sogna.
Fa tanto caldo,
che l'alma non agogna
più che sorbetti, e rive di smeraldo,
e nenie di zampogna.
Fa tanto caldo!
Sogna.

Credi
tu alla Siberia,
e ai ghiacci e ai Samoiedi,
e a quell'altra leggenda poco seria
degli orsi alti sei piedi?
Tu, alla Siberia,
Credi?

Fole!
Il polo stesso,
in quest'ora di sole
dev'essere sudato, e cotto allesso
come l'umana prole.
Il polo stesso!
Fole.

Pure,
dietro il ventaglio
le pupille sicure
ponno sognare, lungi dal barbaglio.
Dietro il ventaglio,
pure!

E l'alma
anche si placa,
e si abbandona calma
a sé come un'almea, entro un'amaca,
all'ombra di una palma.
Anco si placa,
l'alma.

Nulla
(o, nulla invero!)
è più dolce, fanciulla
di questa sonnolenza di pensiero
che il tuo ventaglio culla.
Oh, nulla invero.
Nulla.

da Poesie, Martello, Milano, 1956

La tua bocca. Una poesia di Adonis (Siria, 1930)

La tua bocca è luce
nessun fulgore
è degno dei suoi orizzonti.

La tua bocca è luce
l'ombra è in un fiore.

26.6.17

Errori. Una ouverture appassionata (Valentino Parlato)

Quella che segue è la risposta alla domanda Quale credi sia stato l'errore più grosso che avete commesso?, che Giancarlo Greco rivolge a Valentino Parlato nel libro-intervista La rivoluzione non russa (Manni 2012), dedicato alla storia del “manifesto”. (S.L.L.)   
Valentino Parlato tra Vittorio Foa e Lucio Magri
Quello che fu all’origine della nascita della rivista e del quotidiano: l’illusione che nella seconda metà degli anni Sessanta fosse iniziata un’avanzata impetuosa e inarrestabile del movimento operaio. Fu l’abbaglio fondamentale ma anche il più provvidenziale. Nella lunga lista delle idee innate ce n’è una particolarmente resistente, difficile a morire, che vede nell’errore una sciagura. È un’idea stupida. La vita dell’uomo, dalla sua nascita alla sua morte, è un insieme di tentativi a volte azzeccati, a volte miseramente falliti. E se siamo uomini e non anime belle, lo si deve proprio a questo, alla capacità di rimettersi in piedi dopo la caduta. Come dice un proverbio francese: “Cadere sette volte, rialzarsi otto”. E aggiungerei che l’unico modo per tollerare il logorio quotidiano della battaglia politica è credere in un avvenire migliore che non si realizzerà mai, in mancanza del quale per molti il motore della militanza finisce per diventare l’interesse immediato, il realistico, pragmatico, postideologico arricchimento della propria parte. Come dimostrano i nostri conti in banca, noi del “manifesto” abbiamo perseguito la prima strada, credendo forse in illusioni vane, ma la cui eticità ha via via alimentato le battaglie del presente.
In questo senso, la speranza in una rivoluzione italiana ci diede energia per combattere, talvolta in solitudine, le malefatte e i disastri di oltre un trentennio. Difficile dire cosa sarebbe l’Italia senza la concreta difesa della democrazia che tanti come noi, pur vagheggiando un avvenire socialista, condussero giorno dopo giorno. Cosa sarebbe stato del nostro Paese se una parte delle sue coscienze non si fosse fermamente opposta a scenari e tentazioni autoritarie. Questo perché il capitolo sui nostri abbagli non abbia come colonna sonora una musica di requiem, bensì una ouverture tragica ma appassionata, e comunque una ouverture, dunque piena di speranza.

SENZA PROSPETTIVE (S.L.L.)

Mirabelli, Rosati e Serracchiani
Ma lo vogliono capire che senza un ritorno a proposte di sinistra tradizionale, "socialista" e "laburista", sulle questioni economiche e sociali, che senza politiche di diritti universali (e non di mance ora a questo ora a quello) e di redistribuzione tosta non hanno prospettive? che il blairismo è morto in tutta Europa (inclusa la Francia, dove Macron alla fine farà altre politiche)? Fanno come la Clinton, a testa bassa verso la sconfitta, fino a consegnare il paese al populismo peggiore, non importa da chi incarnato, sperando di recuperare con qualche regalia, con qualche mossetta, con qualche mezza frase di circostanza sulla giustizia sociale. Ma si rendono conto di quanti elettori popolari le loro scelte stanno allontanando dal voto e dalla speranza?

stato fb 26 giugno 2017

Alberto La Volpe. Un sindaco, un socialista (S.L.L.)

È morto anche Alberto La Volpe, socialista, a ottantatré anni, il 16 maggio scorso. 
Era nato a Napoli, viveva a Roma e, originario di Salina, si sentiva eoliano; ma con gli amici non mancava mai di ricordare come fondamentale per la sua identità il decennio della sua presenza in Umbria, come sindaco di Bastia Umbra, in quegli anni Settanta di conquiste e di speranze, tuttavia attraversati da inquietanti segni di involuzione. 
Fu eletto sindaco per la prima volta nel 1970 e completò il secondo mandato nel 1980. Nel 1973, per reagire al clima di violenze e di intimidazioni che i gruppi di estrema destra mettevano in atto in tutta Italia, negò l'utilizzazione della piazza per un provocatorio comizio neofascista. Fu considerato un abuso e La Volpe fu sospeso dalla carica. Tornò a capo dell'amministrazione di sinistra nelle elezioni del 1975.
Risultò sindaco adattissimo a una città piccola che stava crescendo nella popolazione, nel reddito, nel tenore di vita. Alcuni tra i “vecchi bastioli”, custodi di sorpassate gerarchie sociali, lo chiamavano “l'arabo” per la sua carnagione scura, ma subirono una sconfitta. I giovani operai, le donne, gli studenti, gli imprenditori più aperti, i quadri più giovani e attivi del Pci e del Psi, sostenevano La Volpe che contribuì a sprovincializzare l'ambiente con una lunga serie di realizzazioni e iniziative: consultorio, asilo nido, una nuova biblioteca comunale, un palazzetto per lo sport, piani di edilizia economica e popolari attenti all'estetica e alla qualità della vita, eventi di buon livello e attenzione alla crescita di gruppi culturali ed artistici locali. Per la progettazione di una piccola casa famiglia per i matti, appena liberati dai lager manicomiali, si affidò a Renzo Piano, che non chiese parcelle. La piccola e avveniristica casa mobile non è forse tra le cose migliori del celebre architetto, ma anche lui, al tempo impegnato per il Beaubourg, fu coinvolto da La Volpe nello svecchiamento della città. Lo stile della sua amministrazione consisteva soprattutto nel dare peso e responsabilità all'attivismo di base della cittadinanza. Cercò di evitare rapide e selvagge cementificazioni e di perseguire una crescita continua ma regolata, mantenendo fissa la barra del Piano Regolatore redatto da Astengo. La fine del suo mandato coincise nei fatti con il passaggio dall'urbanistica programmata all'urbanistica contrattata.
La Volpe soffrì molto per la catastrofe del suo partito e partecipò, restando sempre a sinistra, alle vicissitudini di ciò che ne rimase dopo Tangentopoli, per un breve periodo senatore e poi sottosegretario dei governi Prodi e D'Alema. Fu anche, in un tempo in cui quasi tutta la politica italiana diventava nei fatti filoisraeliana, presidente dell'associazione d'amicizia italo-palestinese: ogni tanto scherzava su quando a Bastia lo chiamavano “l'arabo”. Insieme a Nemer Hammad, ambasciatore del OLP in Italia, pubblicò nel 2002 un libro sulle vicende della Palestina e sulla lotta per una patria del suo popolo. A Perugia organizzammo noi di “micropolis” la presentazione del libro. C'era molta gente, ma nessuno dei notabili diessini o socialisti. 

micropolis, maggio 2017 

La poesia del lunedì. Antonio Machado (Siviglia 1875 - Collioure 1939)

Ogni amore è fantasia;
inventa l'anno, il giorno,
l'ora e la sua melodia;
inventa l'amante e anche
l'amata. Non è una prova
contro l'amore che l'amata
non sia mai esistita.

Da Tutte le poesie e prose scelte, I Meridiani, Mondadori 2010

80 anni fa. Mussolini alle donne italiane: "Come al tempo degli antichi romani"

Mussolini al centro di un gruppo di massaie rurali
La donna dev'essere la custode del focolare come al tempo degli antichi romani e dare la prima impronta alla prole che noi desideriamo numerosa e robusta. Le generazioni di pionieri e soldati necessarie alla difesa dell'impero saranno come voi le saprete fare.

dal discorso del 20 giugno 1937

25.6.17

Nazismo. Un Reich fondato sul lavoro coatto (Sergio Bologna)

Negli anni Ottanta del 900, alcuni storici “revisionisti” tendevano a negarne il carattere prevalentemente piccolo-borghese del nazismo tedesco e inserivano la classe operaia o una parte fondamentale di essa tra le componenti del nazionalsocialismo hitleriano. Alcune fondazioni e alcuni centri sociali italiani e tedeschi organizzarono proprio in quegli anni un ciclo di ricerche un ciclo di ricerche originali sul tema della base sociale del nazismo e della partecipazione operaia alla costruzione del regime. La libreria Calusca pubblicò nel 1994 i risultati di alcune ricerche in un volume collettaneo dal titolo Classe operaia e nazismo. Sergio Bologna, storico e sociologo del lavoro tuttora attivo, era autore di una relazione da cui è tratto questo estratto che fu pubblicato su “il manifesto”. A me sembra che per più di una ragione le scoperte e acquisizioni di quella ricerca siano oggi più importanti che allora. (S.L.L.)

Le politiche occupazionali del nazismo 
dopo la presa del potere
Il legame con uno «Stato sociale», su cui molto avevano puntato sia la socialdemocrazia che i sindacati per dare senso di cittadinanza alla classe operaia nella Repubblica di Weimar e per inculcare in tal modo fedeltà alle istituzioni repubblicane, si frantuma e questo scollamento contribuiva a creare un ulteriore senso di estraneità della classe rimasta senza lavoro nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni: quindi quando si dice che la classe operaia non difese adeguatamente la democrazia repubblicana occorre tenere presente che questa democrazia rappresentava ormai ben poco agli occhi del nucleo centrale della forza lavoro.
Ricacciando i disoccupati nel sistema dell’assistenza comunale si formava un esercito di persone che andavano a chiedere la carità a un funzionario che doveva, molto spesso sulla base di un’impressione soggettiva, giudicare dei loro bisogni; si formava così una massa di milioni di persone ricattabili e, quel che più importa per il successivo regime nazista, di schedati.

Disoccupazione nascosta
Ma non basta. Come abbiamo detto, il sussidio erogato dai Cornimi era soggetto all’obbligo di rimborso; si formava così una massa di indebitati a vita con le finanze comunali (nel 1935, con abile mossa, Hitler emise un decreto con cui venivano cancellati tutti i debiti degli assistiti nei confronti dei Comuni).
Queste circostanze spiegano allora perché, con il progredire della crisi, un numero sempre maggiore di persone rinunciò a ricorrere a qualunque forma di assistenza e andò ingrossando così sempre più il numero di coloro che non erano più registrati come disoccupati.
Nasce quindi il problema politico, economico, sociale e statistico della cosiddetta «disoccupazione nascosta» durante la Grande Crisi; all’inizio della crisi le persone che godono di un diritto al sussidio di disoccupazione sono la grande maggioranza di assistiti; nel 1933, mese di marzo, quando Hitler è già al potere e la disoccupazione raggiunge il suo culmine, sono diventati minoranza; la grande maggioranza è finita nel terzo contenitore, se immaginiamo questo sistema come un sistema di vasi comunicanti; si tratta di milioni di persone compietamente in balia del sistema comunale di assistenza alla povertà.
A questi vanno aggiunti naturalmente coloro che, stufi di essere sottoposti a un sistema altamente discrezionale, di essere schedati e per di più di dovere un domani rimborsare i magri sussidi, andavano a ingrossare le file della «disoccupazione nascosta».
(…) Nella memoria di chi ha vissuto quegli anni il rapporto con l’ufficio di assistenza è sempre di tipo conflittuale; sono testimonianze che si riferiscono sia al periodo della Grande inflazione (1923), sia al periodo successivo della Grande razionalizzazione (1924-1928), sia al periodo della Grande Crisi (1929-1933).
Questi avvenimenti riducono in povertà persone di diversi ceti sociali, impiegati, commercianti, artigiani, che si trovano a fare la coda assieme agli anziani, alle ex prostitute, alle donne sole con figli, ai marinai senza imbarco, agli operai di fabbrica disoccupati, a giovani coppie prive di mezzi, ad invalidi.

Burocrati arroganti
Una volta al giorno, una volta alla settimana, una volta al mese costoro devono convincere i funzionari di turno della legittimità delle loro richieste, devono raccontare le loro storie personali, ripeterle, con un misto di umiliazione e rassegnazione.
Il partito comunista, sin da quando il sistema di assistenza fu sancito per legge, fece opera di agitazione e mobilitazione tra gli aspiranti all’assistenza perché superassero, con comportamenti collettivi, l’intenzione della burocrazia di dividerli e perché non accettassero di presentarsi con atteggiamento dimesso ma con atteggiamento di chi rivendica un diritto.
In tal modo il comportamento degli assistiti, grazie alla propaganda comunista, divenne sempre più perentorio e aggressivo, creando forti reazioni nei funzionari e un irrigidimento della struttura. Nell’ultimo numero della rivista Werkstattgeschichte, vengono riportati le testimonianze di decine di episodi di assalti, di scontri, di minacce ai funzionari, con continui interventi della polizia.
(…) Se questa situazione provocava tensioni e disagi già nei periodo precedente alla Grande Crisi, si può immaginare quanti ne abbia provocati con lo scoppio e l’aggravarsi della crisi stessa e con il fatto che, come abbiamo visto, sul sistema di assistenza comunale si riversò di colpo una massa di milioni di persone, espulse dal sistema previdenziale statale; tuttavia fu proprio allora che il ruolo del sistema assistenziale, in quanto sistema di controllo e di schedatura, emerse in tutta la sua portata. Con il radicalizzarsi dei rapporti tra la struttura e l’assistito nel corso della Grande Crisi, la struttura stessa perde quasi del tutto il suo carattere di servizio sociale e diventa sempre più un sistema poliziesco supplente nei confronti delle parti più deboli della società.

Continuità statale
È qui che si innesta il sistema nazista. Uno degli argomenti di fondo della ricerca sugli emarginati nel periodo finale della Repubblica di Weimar riguarda il ruolo svolto dal sistema assistenziale. Su questo la nostra Fondazione ha fatto una ricerca molto importante, che riguarda la storia dell’assistenza comunale ad Amburgo (il volume, curato da Angelika Ebbinghaus, è uscito nel 1986 e ha per titolo Opfer und Täterinnen). Che cosa ha messo in luce questa ricerca? Che il personale della burocrazia assistenziale, in gran parte femminile, è passato senza traumi dal governo socialdemocratico al governo nazista. I nazisti hanno rilevato quasi tutto l’organico e gli hanno chiesto di lavorare come prima, cioè di continuare a esercitare la funzione di sorveglianza, controllo e schedatura e hanno costruito una struttura parallela di selezione degli emarginati, su basi biologiche e razziali.
La struttura assistenziale, fatta di operatori socio-sanitari oltre che di personale amministrativo, forniva una serie di informazioni sui singoli soggetti, sui singoli «casi», alla struttura che doveva intervenire sul piano della segregazione o dell’annientamento fisico delle persone (internamento in campi di lavoro, in cliniche psichiatriche, o sedicenti tali, dove venivano praticate la sterilizzazione forzata e altri interventi di «eugenetica»).
La maggioranza di queste persone venne ritenuta possibile di trattamenti di segregazione e di annientamento in quanto Asozialen, asociali, perché da troppo tempo disoccupati, perché avevano commesso piccoli delitti contro il patrimonio, perché si erano prostituiti, perché avevano malattie considerate ereditarie, perché erano portatori di invalidità gravi, perché avevano comportamenti matrimoniali e/o sessuali irregolari, perché avevano ripetutamente assunto comportamenti di protesta e antagonisti nei luoghi di lavoro o contro rappresentanti delle istituzioni (è il caso della maggioranza dei simpatizzanti comunisti), perché avevano cambiato troppo di frequenza residenza o semplicemente perché erano stati colti troppe volte su mezzi di trasporto pubblico senza biglietto.
Una larga parte dei poveri e degli emarginati venne quindi definita «asociale» sulla base delle informazioni raccolte dagli uffici di assistenza e riportate nelle schede personali ed avviati quindi a un processo di selezione che non fu soltanto un processo di selezione razziale ma anche un processo di selezione sociale.
La maggioranza degli internati nei campi, all’inizio del regime nazista, era composta da questi cosiddetti «asociali», che successivamente verranno chiamati con il termine di gemeinschaftsfremde («estranei alla comunità»). Ancora nel 1941 c’erano 110 mila detenuti tedeschi non ebrei nei campi di concentramento, internati come Asozialen. La politica di selezione della razza non è quindi nata su base etnica, ma è nata per affrontare la questione sociale, eliminando fisicamente gli emarginati. Su questo si è sviluppata la politica eugenetica nazista o, come fu chiamata, la «politica demografica» (Bevolkerungspolitik). I primi lager, i primi campi di concentramento furono le «case di lavoro» (Arbeitshauser), ossia gli ospizi dove erano alloggiati coloro che in cambio del sussidio di assistenza dovevano prestare un lavoro obbligatorio. È lì che è nato il sistema concentrazionario nazista.

Paghe in natura
In base alla legge del 1924, istituiva dell’assistenza ai poveri, veniva anche fissato per legge il lavoro coatto. Orbene, quando Hitler realizzò i primi provvedimenti di avviamento al lavoro per riassorbire a tappe forzate la disoccupazione, lo fece richiamandosi alla legge istitutiva del lavoro coatto. La legge del primo giugno 1933 (Gesetz zur Verminderung von Arbeitslosigkeit, ossia la «Legge per la riduzione della disoccupazione»), una delle leggi-quadro più importanti di politica attiva del lavoro, si richiama esplicitamente alle norme sul lavoro obbligatorio del 1924.
Il rapporto di lavoro è un rapporto che non dà diritto a una retribuzione, i servizi in natura che egli riceve, cioè vitto e alloggio, sono parte integrante dell’erogazione assistenziale, la quale si configura giuridicamente come un atto di diritto pubblico. Il riassorbimento della disoccupazione da parte del governo Hitler nei due anni successivi viene realizzato affidandosi a questo strumento di ordine giuridico.
Il regime nazista si vantò di avere riassorbito nel giro di due anni un numero di disoccupati pari a circa 8 milioni; non bisogna dimenticare che circa il 70 per cento dei posti di lavorocreati dalle politiche attive di occupazione del regime nazista riguardava lavori che facevano parte del grande programma di opere pubbliche di tipo infrastrutturale (come le autostrade). La forza-lavoro così impiegata rientrava nel quadro giuridico del lavoro obbligatorio (Pflichtarbeit). Questa è la ragione anche del crescente malcontento che si diffuse tra questi lavoratori e che negli anni 1935-36 diede luogo a quello che alcuni hanno definito un vero e proprio «ciclo di scioperi». Furono segnalate dalle autorità di polizia e dagli organi del partito nazista 260 fermate sul lavoro, la maggior parte delle quali si verificarono nei cantieri per la costruzione delle autostrade o in cantieri di altre opere pubbliche.
Gli scarsi dati a disposizione relativi alle figure che hanno svolto un molo di agitatori o di iniziatori
o di organizzatori di queste fermate, mettono comunque in evidenza che la grande maggioranza degli operai più attivi nelle protesta aveva dietro di sé esperienze, sia pure brevi, di prigionia e di internamento nei campi.

Militarizzazione forzata

Questi elementi, e il dato di fatto che la grande maggioranza dei lavoratori sono stati avviati al lavoro in maniera più o meno coatta, rendono poco credibile la tesi che il regime nazista sia stato un esempio molto avanzato di keynesismo. Più esatto sarebbe dire che il regime nazista ha combinato assieme alcune formule che potremmo chiamare keynesiane (finanziamento di opere pubbliche per creare posti di lavoro) con i meccanismi di tipo assistenziale ereditati dall’epoca weimariana e con un sistema di coercizione e di repressione dentro il quale il Lager è una componente essenziale della politica del lavoro. Insomma l’erogazione di spesa pubblica per riassorbire disoccupazione potè sussistere solo all'interno di un regime del lavoro dove non solo sono sospese le variabili di mercato ma sussiste una vastissima area in cui il lavoro è considerato al di fuori delle regole del codice civile ed è un fattore affidato in buona parte alla discrezionalità del potere esecutivo, cioè è un lavoro militarizzato. Dunque l’atteggiamento prevalente del nazismo nei confronti della classe operaia è quello che porta non alla sua promozione e/o emancipazione ma alla sua militarizzazione.

"il manifesto", 9 giugno 1994

Un'alba. Una poesia di Alfonso Gatto con il commento di Franco Fortini

Alfonso Gatto
Com'è spoglia la luna, è quasi l'alba.
Si staccano i convogli, nella piazza
bruna di terra il verde dei giardini
trema d'autunno nei cancelli.
È l'ora fioca in cui s'incide al freddo
la tua città deserta, appena un trotto
remoto di cavallo, l'attacchino
sposta dolce la scala lungo i muri
in un fruscìo di carta. La tua stanza
leggera come il sonno sarà nuova
e in un parato da campagna al sole
roseo d'autunno s'aprirà. La fredda
banchina dei mercati odora d'erba.
La porta verde della chiesa è il mare

Tutte le poesie, Mondadori, 2017

Franco Fortini
Un poeta ingiustamente dimenticato dopo che per molti anni fu avvicinato ai maggiori. Alfonso Gatto ebbe un animo non molto diverso da quello degli autori che han no vissuto e scritto nel ventennio antecedente la guerra e hanno amata la poesia come altri ama l’amore, ossia in un modo adolescente e patetico, spirituale e indolenzito.
Gatto ha avuto una capacità di disarticolazione delle immagini che è stata detta molto vicina alle libere associazioni dei surrealisti, mentre il suo lessico è rimasto quasi sempre nella tradizione. C’è un suo verso, il primo di una poesia che si intitola Un’alba in una raccolta che si chiama Arie e ricordi. È un verso endecasillabo perfetto: «Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba». Certo vi senti una cantabilità trasognata, che ricorda il D’Annunzio del Poema paradisiaco e il Pascoli, ma, più in genere, il teatro della discrezione e del silenzio di fine secolo. Ma quel «Come» all’inizio del verso rammenta certe aperture di Luzi. E ancor più ci senti o almeno mi pare vi si possa sentire un elemento che situa fermamente questo verso nel decennio che è occupato dall’età della Seconda guerra. È l’esclamativo assordato, diminuito, rattenuto, e smorzato dalla seconda metà del verso, che è quasi una voce seconda e quindi provoca un evidente effetto di dizione ad apertura di sipario. È come se iniziasse una scena, intimistica e desolata, vista da un abbaino di bohémiens o in un mattino di vagabondi insonni.
Seguono tre versi, due dei quali hanno il medesimo ritmo del primo mentre al quarto mancano due sillabe, e si crea così un vuoto, quasi una mancanza di respiro. «Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba. / Si staccano i convogli, nella piazza / bruna di terra il verde dei giardini / trema d’autunno nei cancelli.» Una assonanza, una rima interna. Ma tutto è nell’aggettivo: «spoglia». Quell’aggettivo nelle vicinanze del sostantivo «luna» era già in Ungaretti. «Spoglia» è anche quella del defunto. La luna è defunta e insieme dimessa e spogliata. È una proiezione di quella che, per Alfonso Gatto, sarebbe la caratteristica della umanità migliore intesa nel suo senso più tiepido, francescano, di una umiltà che non esclude la ribellione degli oppressi. Naturalmente, anche un autoritratto. Quella luna spoglia e quell’alba sono meno di Baudelaire che di Laforgue e di Apollinaire. È una luna da Pierrot lunare ma anche stanchezza, dolcezza, assopimento, stupefazione, rinuncia. L’alba è una delle più antiche parole della lirica europea; ma la povertà della luna, il «quasi» dell’incertezza ci fanno capire che qui essa si leva su saltimbanchi rosa di Picasso più nostalgici che reali, in una miseria spiritualistica e mistica attraversata anche dal brivido di un secolo senza pietà.


Da Breve novecento in Saggi ed epigrammi, I Meridiani, Mondadori, 2003

Firenze, 1912 + 1. Le Giubbe rosse, Dino Campana e Federigo Tozzi (Attilio Lolini)

Attilio Lolini, poeta tra i più autentici e letterato tra i più fini, è morto tre giorni fa nelle campagne del senese, ove viveva. È stato molto a lungo collaboratore del “manifesto”, ove – in occasione dell'uscita delle Bestie di Federigo Tozzi, ha pubblicato il pezzo che segue, ricostruzione vivace, acuta e appassionata di una pagina importante di storia letteraria. Il titolo, ispirato a un bel libro di Leonardo Sciascia, è mio. (S.L.L.)

Si torna a parlare di un celebre caffè fiorentino: Le giubbe rosse, di Piazza della repubblica e non soltanto perché oggi, un po’ nostalgicamente, vi si tengono dibattiti culturali e presentazioni di plaquettes, ma per via di un libro di Sebastiano Vassalli, edito da Einaudi: L’Alcova elettrica che ricostruisce, con straordinaria vivacità, il processo che, nel 1913 il Pubblico Ministero presso il Tribunale Civile e Penale di Firenze Albini intentò contro la rivista Lacerba, di Giovanni Papini (e contro il «diavolo» futurista) nella persona di Italo Tavolato autore di uno «scandaloso» articolo Elogio della prostituzione, «progettato» e scritto per aumentare le scarse vendite della traballante pubblicazione edita dal tipografo Vallecchi, allora ai suoi esordi di Editore.
Già Vassalli si era occupato de le Giubbe rosse nel suo romanzo-verità (sempre edito da Einaudi): La notte della cometa, che ricostruisce, con un’imponente e accurata documentazione in gran parte inedita, la vita di Dino Campana, il poeta «matto» di Marradi, malvisto da Papini e Soffici e dalla società letteraria che frequentava Le giubbe rosse, un caffè che continuerà la sua ragguardevole «storia» fino agli anni cinquanta.
L’atteggiamento di Campana, nei confronti degli scrittori editori di Lacerba e della Voce (ai quali manda i propri versi) è, in genere, di sprezzo: «Ho verificato che per fare qualcosa di leggibile bisogna essere bastonati a sangue. Io farei altrettanto con quasi tutti gli scrittori della Voce». Lui chiama i già celebri personaggi parvenus della letteratura in assoluto dispregio d’ogni tattica, delle regole del gioco letterario che sono poi, scrive Vassalli, il trasformismo, il servilismo, l’adattamento all’ambiente. Papini e Prezzolini (ma anche Soffici, Marinetti e compagnia) risponderanno adeguatamente; si accaniranno a tal punto su Campana ancora dopo molti anni dalla morte nel tentativo di annientarne la fama, di cancellarne la memoria e, vanamente, il genio.
Dino Campana
Fu messa in giro anche la problematica storiella della vendita dei Canti orfici ai clienti delle Giubbe rosse, unico testimone Marinetti, vendita che il poeta faceva strappando alcune pagine del libro e dicendo al compratore: «Tanto tu queste non le capiresti».
Per i letterati del già noto caffè Campana è, veramente, un personaggio imbarazzante; la sua miseria è spaventosa; cammina, scrive Vassalli, scalzo per risparmiare le scarpe che porta unite per i lacci, a tracolla dalla spalla sinistra. Dorme all'asilo notturno e va a fangiare alla famigerata Società per il pane quotidiano; in realta digiuna arrangiandosi a fare in po' di tutto, dal facchino al fattorino.
La storia è nota: Soffici, al quale Papini “dirotta” il giovane poeta perderà i Canti Orfici, senza neanche averli letti.
I futuristi, chiamati in soccorso a Lacerba hanno colonizzato» Firenze: il 13 dicembre al teatro Verdi hanno organizzato una serata : sono elegantissimi; si chiamano Marinetti, Carrà, Boccioni, Cangiullo; l’uomo dei boschi, Dino Campana cerca Soffici alla Giubbe Rosse ma non lo trova, si reca al Verdi; è schernito dallo stesso Boccioni che esclama: «Signoreiddio, c'è ancora gente che va in giro con la pidocchieria!».
«La cercavo», dice Campana a Soffici, che sfoggia un monocolo incastrato con disinvoltura nel sopracciglio sinistro, «per darle una poesia che ho scritto sopra un suo quadro».
Soffici è seccatissimo: «Non vede che stiamo concertando lo spettacolo di stasera, risponde, vada a comprarsi il biglietto, piuttosto».
Il pittore Carrà è ancora più spietato; rivolto a Campana dice : «Se ci promette di venire a teatro vestito solo d’una pelle di capra noialtri gli procuriamo un biglietto hommage, non è vero Soffici?»
Campana chiede notizie delle sue poesie: «Basta», urla Papini, «io non ne so nulla!», butta il tovagliolo sul tavolo. «Da quando s’esce con Lacerba — dice Marinetti sconsolato — nemmeno a tavola si sta in pace».
Un altro grande sfiorò le Giubbe rosse in quegli anni: Federigo Tozzi; anche a lui Papini dedicò la medesima attenzione.
Meno randagio di Campana ma non dissimile dal poeta di Marradi, Tozzi fu anche lui un grande camminatore, un ciclista in grado di pedalare da Siena a Roma, da Siena ad Ancona, che aveva in sprezzo gli uomini del caffè, la loro affettazione, le loro riviste e, in una parola, la loro mentalità. S’era invischiato in un’impresa come la rivista La Torre, in odio a Lacerba e ai costumi futuristi, con un personaggio come Domenico Giuliotti, fautore d’una destra terribile e pittoresca e gran nemico del «moderno» contro il quale chiamava ogni momento l’arma dei Carabinieri.
Federigo Tozzi
A Tozzi, in realtà, la politica interessava poco o nulla; la «congiura» contro Lacerba, o meglio la denuncia contro l’articolo di Tavolato: L’elogio della prostituzione, vede come attori il Giuliotti e il killer dello stesso: Ferdinando Paolieri, giornalista de La Nazionale.
Vassalli «ambienta» la scena della «congiura» a Siena in Piazza del Campo che, con ogni probabilità si svolse, invece, a Greve dove abitava Giuliotti e dove Tozzi si recava, spesso, in bicicletta tanto che una volta, sudatissimo e impolverato, fu fermato dai carabinieri che l’avevano scambiato per un famoso, e imprendibile, ladro di pollame.
Paolieri viene definito da Alberto Viviani: (autore di un introvabile ma interessantissimo libro edito nel 1933: Le Giubbe rosse): «bestemmiatore di piazza», a trentacinque anni, scrive Vassalli è un omaccione quasi completamente calvo, gran donnaiolo e autore da Nerbini: (detto lo Zanichelli dei sozzi) di romanzi pornografici da lui stesso scritti e tradotti. Tozzi, forse, lo detestava e anche Giuliotti non lo stimava molto; Paolieri «serviva», come giornalista e «spia», per la lotta che La Torre aveva dichiarato a Lacerba.
Nel maggio del 1913, racconta Viviani, avviene a Firenze, un memorabile incontro-scontro di Giovanni Papini con Federigo Tozzi; Viviani descrive Tozzi come un giovanottone vestito alla campagnola; «grassoccio e rubicondo, con l’aria di un prete di campagna vestito da uomo», tanto che Viviani — che gli era amico fin da bambino — non l’aveva neppure riconosciuto.
Ogni tanto Tozzi andava a Firenze, sia in bicicletta, sia con il treno: l’incontro con Viviani è casuale, quest’ultimo: «sull’angolo di Piazza Madonna con Via del Giglio, sta aspettando Papini che infatti di lì a poco arriva: a passo svelto e beccheggiante come l’albero di un navicello». Eccolo!, dice Viviani e a Tozzi si rizza subito il «pelo»: «come ai gatti quando stanno per azzuffarsi con il cane».
Papini saluta e rivolto a Tozzi dice: «Torno subito; mi aspetti. L’aspetto sicuro — risponde lo scrittore — non ho mica paura, sa?».
Papini sorrideva, nota Viviani con quel suo sorriso speciale che avrebbe levato gli schiaffi anche di mano ai santi, e sbirciava di sottocchi Tozzi che gli camminava a fianco sbuffando di caldo e di rabbia, ma più ancora per il desiderio di poter presto aggredire a suo modo il nemico.
La collera dello scrittore senese esplose di lì a poco, a voce alta e concitata ricopri d’improperi Lacerba, il futurismo e lo stesso Papini che, imperturbabile lo osservava più con curiosità che con interesse.
Tozzi così l’apostrofò: «Bécero, bécero: voialtri offendete tutti e non sapete dire o scrivere che parolacce. Ma vi si leverà noi il vizio; eh, ci credo...».
Il riferimento al «saggio» di Tavolato e agli stessi articoli di Papini: Gesù peccatore e Freghiamoci della politica, è esplicito. La Torre, la rivista di Tozzi, Paolieri e Giuliotti verrà, del resto, anche presentata alle Giubbe rosse, tra risa, sghignazzi: «Vedete — dice Ardengo Soffici — questo non è il giornale di Giuliotti ma di Dio. E’ Dio stesso che lo ispira».
Papini non reagisce alle invettive di Tozzi che fino a via de’ Pecori urlava all’indirizzo dell’autore di Un uomo finito. «Non voglio perdere il treno — disse — sennò verrei fin dentro a quel caffeaccio per dirvi a tutti il fatto mio».
«Venga un'altra volta — -gli propose subito Papini — noi ci siamo sempre».
Di lì a qualche giorno, racconta Viviani, Tozzi capitò davvero a le Giubbe rosse; ma quasi nessuno se ne accorse perché s’era messo a un tavolino mezzo nascosto tra la seconda e la terza sala. Non inveì contro nessuno, sapendo bene che Papini, Soffici, Lacerba e la stessa rivista La Torre non lo interessavano per nulla, lontano com'erano dal suo vero mondo, dai suoi interessi di scrittore. Giuliotti verrà “descritto” con feroce ironia nel suo ultimo libro, Gli egoisti. Morrà giovane a Roma, otto anni prima di Dino Campana. Pampini sopravviverà per tanti lunghissimi anni non rendendosi conto che quel giovanotto accaldato e vociferante che lo apostrofava ferocemente in via de' Pecori, era tra i maggiori scrittori del Novecento.


“il manifesto”, 19 aprile 1987

Dio e tarlo. Una favoletta di Federigo Tozzi

Nel tinaio, sotto un vecchio barile che aveva perduto anche i cerchi, ritrovo una tavola di sorbo. Perdio! Se mi riesce a segarla come voglio, mi ci viene un bel tagliere. Prima, con la lima a triangolo, arroto i denti della sega, poi mi metto all’opera. E’ legno così duro che, per quanto consumi tutta la sugna che tenevo incartata su la cappa del camino, non giungo alla fine. La sega brucia e diventa pavonazza. E, poi, non mi riesce d’andare a filo. Allora prendo un accettino e concio la tavola alla meglio. Quando ho quasi finito, m’accorgo che c'è un buco fatto da un tarlo. Lo voglio trovare! Spacco nel mezzo la tavola; e in fondo al buco, che gira quasi come una spirale, lo trovo; bianco e tenero, con una puntina rossa. Lo lascio stare: io sono Dio, ed egli è un solitario dentro una Tebaide.

da Bestie, a cura di Vincenzo Cerami, Theoria, 1987

Leibovitz-Sontag. C'eravamo tanto amate (Marcello Sorgi)

Una coppia, la vita di una coppia eccentrica di donne che si amano e cercano di condividere tutto dei loro strani giorni, del lavoro, dei viaggi, delle case disseminate in giro per il mondo, degli alberghi più belli, delle navi, degli aerei, delle città e dei deserti. Annie Leibovitz, la famosa fotografa, e Susan Sontag, la scrittrice simbolo della sinistra americana, si conoscono alla fine del 1988 e restano insieme per quindici anni, anche se mai, pubblicamente, lo riconosceranno. Il ricordo che la Leibovitz ha dedicato a Susan, morta due anni fa di cancro, è un atto di amore e di rispetto per la loro storia. Ma Annie si aspetta che faccia «molto discutere, soprattutto per la decisione di pubblicare anche le immagini di Susan malata, sofferente per le cure e appena morta, nel suo feretro».
In uscita la prossima settimana dall'editore Jonathan Cape, il libro, intitolato con un espediente A Photographer Life, si può già sfogliare in questi giorni. La Sontag, con il suo sguardo terribile e penetrante, la sua inconfondibile frezza di capelli bianchi, il suo look sciatto da intellettuale tormentata, ne è la supeiprotagonista, Annie restando, in realtà, la maggior parte delle volte, dietro l'obiettivo della macchina fotografica. C'è, all'inizio, un'immagine di Susan in viaggio, sullo sfondo delle tenebre che stanno per avvolgerla del deserto giordano. E c'è, a un certo punto, lei appena sveglia su un letto sfatto, e ancora pieno di passione, dell'hotel Quisisana di Capri: Annie s'è appena alzata per fermare il ricordo di un momento speciale. C'è la foto simbolo - per loro due - della collezione di sassi di Susan, che Annie vide subito nell'appartamento della scrittrice dov'era andata la prima volta per fotografarla «e per ovvie ragioni è rimasta come un simbolo del nostro incontro». Poi, ci sono un'infinità di foto legate a servizi della Leibovitz in giro per il mondo in cui Susan doveva, anche contro la sua volontà, accompagnarla per infonderle sicurezza, foto di attori e attrici e scrittori, personaggi, amici e personaggi del loro lavoro: Demi Moore e Arnold Schwarzenegger, Andrew Wylie, l'agente letterario, a passeggio con Susan sulla spiaggia di Southampton, e l'assistente Karla Eoff, sullo sfondo dell'enorme libreria dello studio della scrittrice, nel suo appartamento newyorkese di West 24 Street.
C'è una foto di Susan nuda e felice, abbandonata in estasi tra le lenzuola. Innamorate, inseparabili, litigiose, com'è facile immaginare in due personalità e due caratteri come i loro, «eppure - spiega Annie - non avremmo mai accettato di considerarci compagne o partner, queste parole non facevano parte del nostro vocabolario. Ci siamo sempre considerate amiche». Anche se poi, spiega chi le ha conosciute insieme, la loro storia è sempre stata una specie di match, un continuo saliscendi, tra Annie che amava far baldoria e Susan che si è sempre considerata una letterata seria e che ha fatto della serietà il suo tratto distintivo, salvo proporre a sorpresa, magari all'ultimo minuto, di andare a vedere un film comico di Keanu Reeves.
Annie aveva 39 anni quando la vide per la prima volta, e Susan 55: ma dalle immagini, anche a dispetto dell'interessata, esce tutto l'aspetto vulnerabile del carattere della Sontag. «Per me - racconta oggi Annie - Susan era proprio la persona che speravo di incontrare. Quando ci siamo viste, è stato un momento meraviglioso, era come se una spingesse l'altra a dare il meglio di sé». Susan è una scrittrice «cult», di fama mondiale. Annie è già una fotografa famosa. Viene da una famiglia middle class, padre nell'aviazione, madre insegnante e casalinga con sei figli, ha studiato a San Francisco fotografia, ha esordito a Rolling Stone nel momento magico della rivista, e dopo 13 anni è approdata a Vanity Fair. Per lei, che ha sempre lavorato da sola, lo studio affollato di assistenti che il nuovo editore le ha messo a disposizione è più che altro un impaccio. Mentre a poco a poco, dopo aver conosciuto Susan, si accorgerà di non poter fare a meno della sua presenza, per superare l'ansia che si porterà sempre dietro sul lavoro.
Il momento in cui la storia è messa a dura prova è quando Susan scopre i primi segni della malattia e Annie si accorge di desiderare un figlio. Forse all'inizio Susan sarà stata «ambigua», questo almeno è il ricordo di Annie, rispetto all'idea della sua maternità, ma alla fine la sosterrà. La fotograferà, nuda, incinta, di profilo, poco prima del parto - ed è una delle rare presenze della Leibovitz nel libro. E Sarah, la sua prima figlia, nascerà quasi ai piedi del letto di ospedale su cui Susan è adagiata per il primo ciclo di cure.
Qui le immagini della scrittrice, piegata dalla malattia, cominciano a essere dure da vedere. «Ci sarà qualcuno - ammette Annie -che giudicherà discutibile la scelta di pubblicarle, anche se io, prima di farlo, ho consultato la cerchia dei nostri amici più cari». Si vede Susan seduta con un'infermiera che le attacca la flebo della chemioterapia. La si rivede magrissima, invecchiata e con i capelli molto corti. Ancora lei su una barella che sta per essere caricata su un piccolo aereo, per tornare a casa. «E dai suoi occhi, dallo sguardo, emerge tutto il suo coraggio, il senso della sfida, il desiderio di vivere e scrivere altri libri», annota malinconicamente la Leibovitz.
Siamo agli ultimi giorni. Annie si divide tra Susan, alla fine, e suo padre anche lui in gravi condizioni in Florida. L'ultimo giorno di terapia di Susan decide di partire. «La baciai e le dissi "Ti amo", lei rispose: "Ti amo anch'io"». Sulla porta chiede a David, il figlio di Susan, se pensa che avrà il tempo di tornare e rivederla viva: «Ce la farai», dice David. Ma già la sera, nell'ultima telefonata dalla Florida, le notizie sono sconfortanti. Susan muore mentre Annie cerca di prendere un aereo per raggiungerla, il mattino dopo. La troverà distesa sul feretro, le mani giunte, un piede allungato sull'altro. Annie estrae dallo scrigno dei suoi ricordi un dettaglio disperato: «Non ho voluto nessun moke up, nessuna merda su di lei».
Due anni dopo, questo libro di Annie su Susan e su loro due è un omaggio al desiderio della scrittrice di vedere in qualche modo raccolto il diario della propria esistenza, e insieme, come sempre quando una persona se ne va, il tentativo di farla durare nella memoria. Leibovitz ha avuto altri due figli, con la fecondazione artificiale, l'aiuto di un compagno disponibile e di un utero in affitto. «Sono stata un po' incosciente - confessa -, non pensavo che sarebbero arrivati due gemelli». Ma adesso che «il momento più difficile è passato», il pensiero è a questo libro e a «Susan che mi dà ancora molto. Ogni giorno».


“La Stampa”, 11 ottobre 2006

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