21.4.17

Winckelmann. La strana morte del signor Giovanni (Giancarlo Marmori)

PARIGI
Con un elegante libretto un poco dilettantesco, intitolato «Signor Giovanni» (Balland editore), Dominique Fernandez ritorna sulla tragica fine di Johan Joachim Winckelmann, il famoso erudito tedesco, archeologo e teorico del neoclassicismo, morto assassinato in una locanda, a Trieste, l'8 giugno del 1768. Poiché non tutti conoscono i particolari di questo omicidio Pignorandoli, non si è in grado di valutare la versione che Fernandez ne propone, sarà opportuno, se non addirittura necessario, ricapitolare gli avvenimenti.
Dunque, ai primi di giugno di quel 1768, Winckelmann scende all'«Osteria Grande», di Trieste, proveniente da Vienna e diretto a Roma. Vuole il caso che l'albergatore lo alloggi in una camera accanto a quella occupata da certo Francesco Arcangeli, che è un lestofante. Si tratta infatti di un pistoiese di «bassi parenti», già condannato a quattro anni di reclusione per certi furti da lui commessi nelle case viennesi in cui serviva da cuoco; quindi bandito dagli Stati austriaci e clandestino in città. I due stringono subito amicizia, cenano assieme, conversano di notte nella camera dell'uno o dell'altro, oppure passeggiano sulle banchine del porto. Succede insomma che, col pretesto di volersi imbarcare su un introvabile veliero in rotta per Ancona o per Venezia, da dove proseguire poi per la capitale pontificia, il grande Winckelmann si attardi a Trieste : passa ore e ore con il lazzarone Arcangeli e commette addirittura l'imprudenza di mostrargli delle medaglie d'argento e d'oro regalategli dall'imperatrice Maria Teresa; una, stupenda, raffigura il profilo del principe del Lichtenstein.
È in quel momento che l'ex cuoco scellerato — almeno così si direbbe — concepisce il disegno omicida, a scopo di rapina. Compra un coltello e un po' di spago per farne un laccio, cioè per strangolare l'archeologo ed impedirgli così di gridare, mentre lo pugnala. Si arriva alla sera dell'8 giugno. Winckelmann si intrattiene con Arcangeli nella camera di costui; seduto a un tavolino, parla all'altro che gli gira attorno. Quel che segue è spaventevole, è bestiale. Arcangeli si porta alle spalle di Winckelmann e gli stringe d'improvviso la corda al collo; ma 1'altro riesce ad allentare la stretta, poi si difende a mani nude contro il pugnale e lotta con l'aggressore, rotolando con lui sul pavimento e ricevendo, intanto, ben sette coltellate al petto, alle gambe ed al ventre. Winckelmann urla, l'assassino scappa, una cameriera accorre, il cliente tedesco le compare davanti, in cima alle scale, pallido come uno spettro. Il laccio gli pende dal collo, il sangue gli imbratta la camicia zampillando dalle ferite. Winckelmann viene adagiato nel suo letto. Dopo sette ore di «spasimi e di acerbissimi dolori» — come si legge nella patetica «distinta relazione del premeditato, atroce, proditorio omicidio» dell'illustre grecista — muore verso le quattro del mattino. L'omicida, reo confesso, verrà giustiziato il 20 luglio, davanti all'ingresso dell'«Osteria Grande».
Questi i fatti essenziali, così come ci sono stati tramandati da alcuni documenti e scritti dell'epoca o di poco successivi. Oltre al testo citato, si possono consultare le anonime «Memorie per servire alla vita del signor Giovanni Winckelmann», il «Viaggio in Germania» di Bartolomeo Cavaceppi e «L'ultima settimana della vita di Giovanni Winckelmann” descritta da Domenico De Rossetti, sulla base degli atti originale dell'istruttoria e del processo.
I magistrati giunsero alla conclusione che l'Arcangeli aveva pugnalato a morte il suo vicino di camera per appropriarsi delle monete d'argento e d'oro, cioè pe rcupidigia e niente più. Più sottile e meno timorata la storiografia contemporanea ha fornito l'ipotesi che al movente del furto se ne sia mescolato un altro, di natura omosessuale.
Veniamo ora ll'interpretazione avanzata da Dominique Fernandez in queste sue poche ma gradevoli pagine di analisi della morte del grande teorico del «bello in arte. Va premesso che il testo di Fernandez si presenta in parte come un dialogo platonico tra due persone che sostano davanti alla tomba di Winckelmann, sepolto sulla collina di San Giusto: un dialogo che perciò riecheggia il conversare di Socrate salito, insieme a un allievo, su qualche ameno poggio di Atene.
L'originalità dell'interpretazione di Fernandez non consiste tanto nel postulato d'un rapporto omosessuale tra vittima e carnefice, quanto nel fantasticare letterario circa un «collasso di colpevolezza» da parte del morente Winckelmann. La tesi è la seguente: il cinquantenne studioso, che fino allora aveva accarezzato solo efèbi di porfido o di marmo palio, s'era lasciato sedurre, per la prima volta in vita sua, dall'occasione di praticare la nuda e indubbiamente cruda sodomia. Ma in punto di morte si vergognò della propria «caduta», ne fu atterrito. Che Winckelmann intrattenesse un rapporto omosessuale con il suo assassino, è probabile. Intanto, lo studioso avrebbe potuto comodamente salire su una diligenza diretta a Roma, invece di aspettare a Trieste un improbabile bastimento in partenza per Venezia o per Ancona. Inoltre, trafitto da sette coltellate, egli sembrò soprattutto preoccupato di avvalorare la versione secondo cui ad assalirlo era stato un ladro e non un amante; difatti sottolineò, davanti ai commissari della polizia asburgica, l'inestimabile valore delle sue medaglie. Ancora: Winckelmann si rifiutò di rivelare la propria identità, temendo forse uno scandalo postumo ; d'altronde, s'era presentato all'albergatore con il vago e mozartiano pseudonimo di «signor Giovanni». Va aggiunto che non pronunciò mai il nome del suo assassino in fuga, quasi si augurasse che sfuggisse alla cattura, che la loro coppia funesta rimanesse anonima in eterno. E come non giudicare singolari le cene notturne di Winckelmann nella camera di Arcangeli, l'intimià tra uno studioso dal prestigio internazionale ed un rozzo furfante?
Non dimentichiamo che Winckelmann era allora bibliotecario del Cardinale Albani, Prefetto delle Antichità del Vaticano, Segretario della Biblioteca Pontificia, Antiquario della Camera Apostolica e Prefetto delle Antichità di Roma. Era una «luce». Ascoltato da un'immensa platea di ammiratori, Winckelmann esaltava da anni i canoni della bellezza umana, specialmente virile, trasmessaci dai greci. Sosteneva che quella bellezza consiste in un che di ineffabile, da copiare devotamente, in una «nobile semplicità», in una «calma magnificenza», espresse, ad esempio, dall'Apollo del Belvedere.
Turpe e vile, in contrasto, il commensale, il trentaquattrenne Arcangeli, piuttosto basso, più grasso che magro, bruttino e, per giunta, butterato dal vaiolo. È lecito chiedersi allora come mai un cultore del sublime anatomico, e del connesso equilibrio spirituale, sia precipitato — se mai precipitò — ai piedi d'un individuo tanto losco, quanto sgradevole e ignorante. Alla domanda, retorica ma legittima, Fernandez risponde sostenendo che Winckelmann, in quelle notti e in quei giorni tiepidi di giugno, venne colto da una sorta di voluttuoso «delirio di caduta» nella sordida concretezza carnale. In altri termini, e grazie ad una dialettica apparentemente paradossale tra idee eccelse ed impulsi tellurici, lo studioso tedesco sarebbe piombato, dalla contemplazione della statuaria ellenica, ai piedi d'un cuoco ladro, ripugnante e quasi analfabeta.
Si resta sbalorditi di fronte a questa ipotesi, a questo immedesimarsi dell'autore nell'incauto e sventurato “Signor Giovanni”. Secondo i documenti, Winckelmann fu ucciso a scopo di rapina, non già per contenziosi omosessuali intorno a complicate competenze amatorie. A meno di trovare prove documentarie negli archivi, non sapremo mai se il prestigioso autore del Laocoonte, dell'Antinoo o del Gladiatore borghese, si smarrì davvero – come vuole Fernandez – tra le braccia di un laido individuo, incontrato per caso. Per poi vergognarsene in punto di morte.


“la Repubblica”, 7 febbraio 1981

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