2.4.17

Nell’Eden si parlava così (Umberto Eco)

Maria Corti
Ogni buona indagine filologica ha l’andamento di una indagine poliziesca: si tratta, per un gioco di congetture, di costruire una storia che dia ragione di tanti indizi sparsi, altrimenti inspiegabili. In questi ultimi anni si stanno infittendo gli studi che pongono in rapporto le diagnosi mediche, le ricerche filologiche e storiografiche, le attribuzioni degli esperti d’arte, le teorie filosofiche del sapere ipotetico-deduttivo, e i metodi di Sherlook Holmes (ed è anzi in preparazione in America una antologia di questi studi). Ora le cento pagine di questo Dante a un nuovo crocevia di Maria Corti potrebbero essere lette proprio come una indagine svolta da questa Miss Marple della semiologia letteraria. Ci vuole ovviamente un lettore non distratto, capace di seguire il suo gioco erudito, che per l’appunto viene a inaugurare una nuova collana di studi della Società Dantesca Italiana.
La storia incomincia nel paradiso terrestre, e ne parla Dante nel suo De vulgari eloquentia, trattatello letto da moltissimi, ma che a quanto pare riserva ancora delle sorprese a chi voglia leggerlo ancora alla luce degli studi più recenti di storia della linguistica. In verità non è mai stato chiaro, in tutta la tradizione scritturale, se Dio abbia consegnato ad Adamo una lingua bella e fatta (l’ebraico, che poi ai tempi della torre di Babele si frantuma nella pluralità delle lingue umane), o se sia Adamo di sua iniziativa a dare nomi alle cose (inventando l’ebraico).
Ma se fosse così, e visto che per inventare una lingua, come osservavano i padri della Chiesa, ci vuole un bel po’ di tempo, come parlava intanto Dio ad Adamo?
Ricordiamo che, dopo Dante, e almeno sino al Seicento e oltre, molti studiosi si interrogano sulla lingua ’’adamica”, e propongono lingue artificiali che ne ricostruiscano di modello universale. E in fin dei conti, gli utopisti dei vari esperanti, gli studiosi di semantiche formali, i logici di tradizione leibniziana, i grammatici generativi alla Chomsky, e persino gli operatori di linguaggi per computer, inseguono ancora lo stesso sogno. E lo stesso sogno inseguivano i ’’modisti” medievali, i quali avevano scelto il latino (mentre ormai già trionfavano i volgari) come modello per una grammatica universale che (essi pensavano) doveva funzionare in modo uguale, in profondo, in tutte e per tutte le lingue.
Rileggendo il testo dantesco, la Corti mostra che Dio nel paradiso terrestre non dà ad Adamo una lingua bella e fatta, ma le forme innate e universali che presiedono al funzionamento di ogni lingua, e una capacità di stabilire nomi in accordo con le cose. Capacità che si perde con la confusione babelica. Ora, il progetto di ricuperare queste forme universali era proprio dei ’’modisti” i quali, ci ricorda Maria Corti, erano tutti legati alla tradizione averroistica, e la ragione è semplice: per pensare una forma universale di tutte le lingue (e cercare di ricostruirla) occorre ritenere che l’intelletto ’'possibile” non sia individuale ma comune a tutti gli uomini. Eresia averroistica, appunto, o aristotelismo radicale, condannato ferocemente alla fine del Duecento, e di cui si rende colpevole quel Sigieri di Brabante che, perseguitato dalle autorità ecclesiastiche e morto malamente, viene da Dante (guarda caso) messo in Paradiso.
Maria Corti mostra, documenti alla mano, che a Bologna, dove Dante presumibilmente scrive il De vulgari, fioriva una scuola di modisti averroisti, e che il De vulgari cita ad ogni passo, con evidentissimi calchi linguistici, i testi dei modisti. Ma a questo punto l'inchiesta va al di là del De vulgari e investe le altre opere di Dante. Dio non parla ad Adamo nella lingua ebraica, che Adamo deve ancora inventare: gli parla attraverso gli eventi naturali. Salvo che i mistici vittorini vedono in questo parlare per sostanze concrete una allegoria di quel linguaggio ’’estatico” mediante il quale la divinità comunica col mistico. Dante, gran lettore dei vittorini, cerca di ricuperare col suo ’’volgare illustre” un linguaggio poetico che «liberi la lingua dai grumi contingenti e ricuperi il fantasma di una purezza poetica universale, dove rinasce il rapporto di necessità e ’’consequentia” tra le ”res” e i ’’nomina” che c’era alla creazione del mondo». Ma nel far questo Dante si incontra con un’altra tradizione bolognese, questa volta quella giuridica dei glossatori; i quali da un lato sono tra i primi a parlare di quelli che chiameremmo oggi i ’’codici” linguistici, come produzione sociale variabile nel tempo e nello spazio (di cui parla a lungo anche il De vulgari), ma dall’altro insistono su un concetto che Dante cita a più riprese, quello che le parole debbono essere la conseguenza delle cose. Dante coglie questa idea e la porta molto al di là delle intenzioni dei glossatori, in armonia con le suggestioni che riceveva dai mistici della scuola di San Vittore. E Maria Corti la ricostruisce, come scheletro occulto del lungo viaggio dantesco attraverso i problemi del linguaggio: nel paradiso terrestre Dio parlava ad Adamo in una lingua naturale e universale; con la confusione posi-babelica le lingue naturali non sono più universali; i modisti lavorano a ricostruire una lingua di nuovo universale ma non naturale; infine, i poeti del volgare illustre debbono tendere a ricreare una lingua, capace di significate ciò che Amore detta dentro, di nuovo naturale (come ogni volgare) ma universale, retta, da leggi di necessità poetica, in armonia con le cose, ritrovando una situazione di armonia edenica.
Così gli elementi apparentemente sconnessi di una serie di storie culturali si compongono, in questa come in ogni indagine riuscita, in un’unica storia che restituisce un senso al tutto. Con eleganza e facilità, quasi che Agatha Conan Corti ci dicesse, con un bel sorriso: «Elementare, caro Watson».


"L'Espresso", ritaglio senza data, ma 1981

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