19.4.17

Mafie in Umbria. Minacce e piombo (Alessia Chiriatti, Carmine Gazzanni - marzo 2016)

Riprendo qui un articolo dal dossier pubblicato da "narcomafie" sulle mafie in Umbria a marzo dello scorso anno. Per l'inchiesta a cui soprattutto ci si riferisce, Quarto passo, si sta celebrando a Perugia un processo con la vigile attenzione di Libera Umbria, che si è costituita parte civile. (S.L.L.)
Teste d’agnello, ricatti, uccisioni e sparatorie. 
Camorra e ’ndrangheta non hanno portato in Umbria 
solo il fiuto per gli affari, 
ma anche quei metodi violenti 
e quelle azioni eclatanti che incutono timore

Le teste mozzate di agnello lasciate davanti a casa o ai luoghi di lavoro non sono forme di intimidazione che avvengono solo in Calabria. Anche la “’ndrangheta 2.0”, quella imprenditoriale e affaristica, ricorre alle minacce più cruente anche nella tranquilla Umbria.

Gli avvertimenti del clan. Nell’ordinanza Quarto Passo si trova la vicenda di Maria Grazia Monfreda, amministratrice unica della finanziaria Loan srl. A lei si sarebbero rivolti i boss Cataldo Ceravolo e Mario Campiso, entrambi originari di Cirò (Catanzaro), per un prestito di 125mila euro, che sarebbero serviti per lavori edili mai realizzati. Ma quando la Monfreda pensa di rivolgersi a un avvocato, partono le minacce, sempre più pesanti, sempre più incalzanti. Campiso, sempre in base a quanto riportato nelle carte, le ricorda che «aveva dei parenti mafiosi in Calabria» o che l’avrebbe «sotterrata»; Ceravolo, per tramite di un suo sodale, Salvatore Facente (anche lui indagato), le fa un discorso ancora più esplicito: «Ricordati bene che se piangono i figli miei piangeranno anche i figli degli altri perché dal carcere prima o poi si esce». Monfreda è poi vittima anche di pesanti intimidazioni: un giorno trova davanti la porta del suo ufficio una testa mozzata di agnello. Un chiaro segnale lanciato a lei e alla sua famiglia, ribadito dallo stesso Ceravolo in un’altra intercettazione del 2013: «Che cazzo me ne frega di loro a me. Adesso ammazzo tutti!».
Il modus operandi è esattamente quello della tradizione mafiosa, anche a Perugia. Così, se decidi di non accettare la protezione malavitosa, se provi a resistere, la ’ndrangheta alza il livello dello scontro. Per esempio dando alle fiamme il tuo capannone, come accaduto all’imprenditore edile Salvatore Virecci. È il 9 settembre 2012, quando il suo deposito in Via Alessandro Volta, a Ponte San Giovanni, viene incendiato. Come si legge ancora negli atti processuali, «le attività intercettive già in corso nei confronti degli appartenenti al sodalizio, consentivano di evidenziare che Campiso Mario, Ceravolo Cataldo, Paletta Natalino e Lombardo Antonio stavano recapitando a imprenditori perugini» vere e proprie «imbasciate, anche per il tramite di terze persone». Ma qui la vicenda è ancora più complessa: l’incendio, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, non segue una richiesta di estorsione, ma la anticipa. Un avvertimento preventivo. Puntuale, infatti, tre giorni dopo, il 12 settembre, ancora loro, Salvatore Facente e Cataldo Ceravolo, mandano a Virecci un’imbasciata. E a parlargli va ancora lei, Maria Grazia Monfreda, costretta dal sodalizio mafioso. Il discorso della Monfreda è chiaro: «Devi stare attento perché potrebbero venire anche nel cantiere di Balanzano (un altro cantiere, più grande, di proprietà di Virecci, ndr) e provocarti qualcosa di più grosso», le sue parole. Ma non solo. La Monfreda fa anche un nome per la protezione. Quello di Ceravolo. Non stupisce, allora, che secondo quanto emerso dalle ultime operazioni delle forze dell’ordine, esista anche un vero e proprio listino prezzi per gli atti intimidatori: spezzare le gambe o appiccare un incendio può arrivare a costare anche 7 o 8 mila euro.

Morire di mafia. È il 28 maggio 2005 quando Roberto Provenzano, piccolo imprenditore edile del perugino, viene freddato. Quella sera compra un dolce in una pasticceria di Ponte Felcino, rientra in casa intorno alle 19 e lo mette in frigo. Per cena prepara un piatto di pasta al sugo, non esce di casa. Forse qualcuno bussa alla sua porta, lui apre. Va in bagno a sciacquarsi il viso. Il suo assassino a quel punto gli spara un solo colpo alla tempia, mentre l’acqua del rubinetto ancora scorre. Provenzano muore così. Per debiti di droga, si dirà. Per la morte dell’uomo originario di Maida, della provincia di Catanzaro - il quale, secondo gli inquirenti, era anche invischiato nel reclutamento di manodopera in nero per alcune aziende del perugino - non è mai stato trovato l’esecutore materiale. Ma oggi, dalle ultime indagini portate avanti dal Ros, scopriamo qualche tassello in più. Un tassello determinante, che individua i mandanti in Salvatore Papaianni e Vincenzo Bartolo, boss calabresi, originari anch’essi di Cirò, appartenenti alla famiglia dei Farao-Marincola, che agli inizi del 2000 comandavano il commercio di droga. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, Provenzano avrebbe commesso uno “sgarro” nei confronti di un altro boss della mala, Giuseppe Affatato. «L’omicidio - si legge nelle dichiarazioni - era stato necessario per dei problemi legati ad una partita di stupefacente». L’imprenditore sarebbe stato punito per essersi impossessato di una partita di droga, senza poi restituire il ricavato. Affatato, a quel punto, si sarebbe rivolto a Papaianni e a Bartolo che avrebbero deciso per la morte dell’imprenditore, pedinato per intere settimane da un altro affiliato, Platon Guasi. Proprio Guasi, come rivela un’intercettazione ambientale, qualche giorno prima dell’omicidio, parla con Gregorio Procopio, ritenuto per anni l’esecutore materiale dell’assassinio, prima dell’assoluzione definitiva in Cassazione. Ebbene, Procopio dice a Platon: «Basta che vieni tu però. Tu solo vieni perché se mi dice certe cose mi dispiace spararlo. Ci sei tu sparo, ma se non vieni tu no».

Il “clan degli ex pentiti". Quello di Provenzano, però, non è l’unico omicidio dai contorni poco chiari avvenuto in territorio umbro. Passano due anni e il 28 settembre
2007, è la volta di Salvatore Conte, pregiudicato napoletano. L’uomo è a cena con amici e l’ex compagna. «La sera prima della scomparsa di Salvatore presso la nostra abitazione di San Sisto (un quartiere di Perugia, ndr) -racconterà la donna davanti agli inquirenti qualche mese dopo - abbiamo avuto a cena degli amici di Salvatore: tale Fausto (Lipari, esponente del clan di Casal di Principe, finito in manette nel 1998 nell’ambito dell’operazione Spartacus, ndr), i suoi figli e la loro baby sitter [...] Durante la cena arrivava un poliziotto vestito in borghese che consegnava a Salvatore un foglio relativo a un processo che lui aveva a Caserta il 2 ottobre». Perché un poliziotto era andato a casa di Conte? Salvatore era un pentito, ex affiliato al clan camorristico dei Torre. O, meglio, un falso pentito. Conte, insieme ad altri ex (falsi) collaboratori di giustizia, aveva creato un nuovo sodalizio criminale attivo in quegli anni in Umbria e noto come il “clan degli ex pentiti”, molto vicino ai casalesi. Parliamo di Salvatore Roberto Menzo, Paolo Carpisassi, Marcello Russo. Sono stati proprio loro - Menzo, Carpisassi e Russo - a organizzare il rapimento e l’uccisione di Conte. Ma lo si saprà solo mesi dopo, quando il corpo verrà ritrovato, nel novembre 2007, in un terreno dei boschi eugubini. Menzo, sostiene la magistratura, fu il mandante dell’assassinio eseguito materialmente da Paolo Carpisassi (condannato in via definitiva alla pena di 15 anni e 8 mesi) e Marcello Russo (trovato cadavere nel carcere lombardo di Voghera nel 2010) con la complicità di Silvano Benemio (2 anni e 4 mesi) e Luigi Ceccarelli (2 anni e 8 mesi).
Da quanto emerso, Conte sarebbe stato attirato in un terreno nella zona di Castel del Piano, dove il clan aveva manifestato l’intenzione di aprire una clinica privata con l’appoggio di un medico perugino. Qui fu ucciso e sepolto nei boschi di Gubbio, dove venne ritrovato, come detto, due mesi dopo. Perché i suoi ex sodali avevano deciso di eliminarlo? La risposta l’ha data il gip del Tribunale di Perugia, Carla Giangamboni, nell’ordinanza di custodia cautelare del giugno 2010: «L’omicidio di Salvatore Conte [...] ispirato da Salvatore Menzo e materialmente commesso da Marcello Russo, a sua volta deceduto era stato deciso allorché il Conte, forte consumatore di cocaina, era divenuto inaffidabile e conseguentemente pericoloso». Peraltro Menzo, condannato a riguardo in primo grado a 18 anni e sei mesi di carcere, soltanto pochi mesi fa è tornato agli onori della cronaca: uscito per decorrenza dei termini di custodia cautelare in attesa del processo d’appello, si era trasferito in provincia di Siena. In realtà stava pianificando la fuga in Belize, prima che venisse scoperto e rinchiuso in carcere.

Armati fino ai denti. Il quadro delineato finora vede camorra e ’ndrangheta godere di una presenza stabile in territorio umbro, sia come “filiali" (nel caso della camorra) sia come gruppo autoctono (come nel caso ’ndranghetistico). Certo è che in regione hanno importato non solo affari, ma anche metodi. Non è un caso che un altro capitolo importante del giro d’affari illecito è costituito dal traffico d’armi. Restiamo ancora sul clan degli ex pentiti. Dalle carte dell’inchiesta, colpisce la tranquillità con cui si andava in giro armati: «Eh, Carlo! Io ho le cose addosso... Forse non hai capito? C’ho kalashnikov... pistole... Che devo venire al ristorante così?». A parlare sono Marcello Russo e Carlo Contini. I due devono vedersi in una pizzeria di Ponte San Giovanni. Contini, però, suggerisce a Russo di posare le armi. «Allora sto lasciando a lui (qualcuno che era nella sua macchina, ndr) per venire pulito da te... No, ma non.. tutto a posto, già lasciato tutto fuori... hai capito? E che so scemo... al ristorante? Che vengo da te vestito?». A rendere l’idea di quanto il clima fosse costantemente caldo, è un altro episodio, raccontato in un interrogatorio del 2008 da Paolo Carpisassi: «Ricordo che una sera alla fine di giugno - inizi di luglio 2007 avevo appuntamento al distributore Ip di via Piccolpasso a Perugia con Fausto Lipari (di cui già abbiamo parlato, ndr) in quanto dovevamo parlare di affari. Nell’occasione notai che il Lipari era in compagnia di due persone che parlavano con accento campano. Dai discorsi e dalle telefonate effettuate dai tre capii che i due campani vantavano un credito nei confronti di un conoscente del Lipari e che quest’ultimo si doveva attivare per il pagamento». Questa persona era proprio Salvatore Conte e i debiti contratti erano per una partita di cocaina non onorata. Tanto che, racconta ancora Carpisassi, «il Conte mi chiese di trovare un posto idoneo all’aperto dove poter incontrare i signori che io avevo casualmente conosciuto. Il luogo doveva essere abbastanza isolato qualora vi fosse stata necessità di un conflitto a fuoco. Non trovai alcun luogo e l’incontro avvenne a casa di Conte. Nella circostanza, Conte fece armare sia me che Marcello Russo. Io avevo una pisola calibro 22, mentre il Russo aveva una pistola calibro 7,65». E fu, probabilmente, solo un caso che l’incontro non si trasformò in tragedia. Grande disponibilità di armi, dunque. Tanto per la camorra quanto (e forse più) per la ’ndrangheta. Con la conseguenza paradossale che il traffico di armi perugino è utile anche per rifornire la Calabria. A gestire il commercio sono soprattutto gli albanesi. Nell’inchiesta Quarto Passo c’è un intero capitolo sulla disponibilità di armi in mano ai clan. In un’intercettazione è il cirotano Vincenzo Martino ad affermare di avere nella sua disponibilità (e in quella dell’organizzazione) numerose armi da fuoco e munizioni. E la trattativa di acquisto veniva intavolata sempre con il “capo” degli albanesi, Ervis Lyte, per l’enorme possibilità di acquisto che offriva («...se tu vieni a casa mia...vieni a casa mia..., tu non sai...tutte armi...cioè... pistole così...armi dal...dalla... dalla penna, alle pistole...e fino ammitragliera quella che c’hanno...»). Non solo pistole o fucili. Ma anche lo sniper o la TT-33 Tokarev, arma da guerra prodotta nell’ex Unione Sovietica e oggi disponibile solo in Albania e Russia. Tutte armi utili e indispensabili per la ’ndrangheta. Soprattutto in Calabria, come detto. Martino lo dice chiaramente: «servono veramente giù, giù mi servono veramente».

“narcomafie”, marzo/aprile 2016   

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