28.4.17

L’importanza di essere scriba. Vita e non carriera di Gianni Clerici (Federico Ferrero)

«Ieri ho giocato a tennis, sono quasi vivo». Ieri l’altro, a Londra, non pago di sessant’anni di giri del mondo a inseguire gli Slam e le sue leggende, aveva assistito al solito atto tirannico di Novak Djokovic contro il suo beneamato Roger Federer, ultimo custode di un tennis classico che non è più. Il volo per Melbourne del prossimo gennaio, per gli Open d’Australia si intende, è stato depennato per precauzione, «ma ho sfiorato il tragitto in nave: trentaquattro magnifici giorni, finalmente avrei fatto un diario di viaggio. Però la compagnia non accetta gli over ottanta. Andrò e cercherò di convincerli: che mi facciano un esame, a loro scelta».
Farsi prendere per mano dalle storie di Gianni Clerici, autoironico e consapevolissimo giovanotto a metà del guado tra gli ottanta e i novanta, è come volare aggrappati al tappeto delle Mille e una notte. Si volteggia su una tavola di osteria dell’Oltrepò, con pinta di barbera obbligatoria sulla tovaglia a quadri e schermaglie verbali in compagnia dell’amico Gioann Brera, negli anni storici della redazione del Giorno (un dream team che ancor più oggi, in tempi grami, fa tremare le vene ai polsi: l’immaginifico boss, detto “principe della Zolla”, il suo protetto Clerici, Mario Fossati, Pilade Del Buono).
Eppure, l’anticarriera del narratore per eccellenza del tennis è stata parallela alle medaglie: «La mia unica carica in un giornale? La direzione della pagina dello sport di quel quotidiano: un giorno. Servì per mandare via uno cattivo, che non merita neanche di essere citato. Poi, Brera e io la affidammo a Giulio Signori, un genio nel fare i titoli, uno che scriveva bene di tutto». Erano gli anni in cui non esisteva ancora “la Repubblica”, che avrebbe strappato Clerici al quotidiano dell’Eni a fine anni ’80; “il Giorno” tirava 250 mila copie, il Corsera 600 mila, “La Stampa” e “l’Unità” 400 mila, internet non aveva ancora soppiantato l’edicola. Un altro mondo.
Un battito di ciglia e ci si ritrova a Montagnola, sulle tracce del sciòr Hesse: perché i liceali comuni, al più, Siddharta lo hanno letto o finto di apprezzarlo. Invece, Clerici trovò giusto andare a cercarlo in Svizzera. E lo trovò, preso a dipingere uno scorcio sul retro di casa.
Un respiro e zac!, si viene proiettati sul centrale di Wimbledon. Anzi, un po’ più in là: il Clerici Gianni atleta, ai Championships di Church Road, ci arrivò la prima volta in Cinquecento, imbarcandosi sul ferry boat alla volta di Dover dopo aver percorso in solitaria la Como-Calais. Giocò sul campo 16, un primo turno di lunedì dell’edizione 1953, «e persi contro Laszlo, uno jugoslavo che avevo strapazzato mesi prima sulla Costa Azzurra, tennista ancor più modesto di me. Per due set non capii nulla di quei rimbalzi», anche se il tempo del match gli fu sufficiente per accorgersi di due spettatori particolarmente interessati, emissari dell’ambasciata, mandati a dissuadere il suo avversario da legittimi propositi di richiesta di asilo politico. La guerra fredda, il patto di Varsavia, la Jugoslavia tenuta insieme dalla ferocia di Tito: sembra un altro pianeta, anzi, lo è.
Ancora un salto e giù, a rotta di collo per le viuzze di Pamplona, alla ricerca del significato esoterico della corrida, in compagnia di un tennista danese a dir poco stravagante (era il barbuto Torben Ulrich, curiosamente padre di Lars, il batterista della band dei Metallica) prima dell’incrocio, indimenticato, con Hemingway, sorpreso durante l’encierro di San Firmino seduto a bere anice al bar Txoko.
Se Bruce Chatwin fece un libro sulla sua irrequietezza di anima errante, il suo ammirato lettore Gianni Clerici (che aborre il “lei”) è l’irrequietezza. La sua ultima opera – altre due sono in ballo per l’anno venturo, non sia mai abbandonarsi al divano – è «una bio-eterografia. Ma sì, perché ho conosciuto gente più famosa e molto più interessante da raccontare», si schermisce, sfogliando Quello del tennis – Storia della mia vita e di uomini più noti di me. «Ho rinunciato alle cariche e viaggiato anche per scappare, per non lavorare in un giornale. Mi è andata bene così: fare il cosiddetto inviato speciale. Anche perché il giornalismo che mi piaceva, e che ogni tanto riuscivo a fare solo dopo aver seguito il fùtbal, il basket o lo sci, erano proprio i taccuini di viaggio. Ne ho in quantità. Purtroppo, ai miei tempi, quel genere non esisteva; gli unici a cimentarsi erano Nievo, il giovane Barzini, Guido Piovene».
Atleta, scrittore, giornalista, autore teatrale, commentatore in tivù con il sodale Rino Tommasi, una fama tollerata ma non agognata di quel del tennis («Vado a vedere nella mia libreria, ma sospetto di aver scritto 13 o 14 romanzi, più due libri di racconti e le poesie. Di tennis, in fondo, solo cinque: son mica tanti»): Clerici poteva essere tutto o anche niente, figlio di industriali «che aveva da mangiare senza bisogno di fare altro». Lo sforzo di rimanere monografici, anche conversando, è improponibile. È stato spesso in odore di un qualcosa che non si è realizzato «e in un certo senso sì, dico che ho vissuto l’esistenza del dilettante nel senso antico del termine: uno nato da buona famiglia cui fu concesso il lusso di attività che non avessero a che fare col lavoro». Quasi parlamentare per desiderio di Pannella, quasi presidente della federazione tennis; quasi disegnatore, quasi botanico, quasi mercante d’arte. «Ma essendo l’ultimo erede dei Clerici borghesi mi sono messo a fare il giornalista, direi per scarsissima fiducia nelle mie possibilità e per un obbligo sociale di guadagnare qualcosa».
La scorciatoia della letteratura da quotidiano, quella che Brera raccontava come il destino di «ricevere soldi e applausi dagli analfabeti» per la produzione di una prosa magari degnissima ma caduca, nata al mattino e già defunta la sera, per lui è stata una camicia di forza, seppure della miglior seta comasca: «È che per Brera era un destino: era nato povero, figlio di mezzadri. Aveva vari fratelli, ed era l’unico ad aver fatto l’università a Pavia, accettato al Ghisleri per meriti scolastici. Tra lui e me c’è stata questa differenza di origini, per cui col giornalismo lui doveva guadagnare, io no». Ecco perché, ogni tanto, Brera lo invitava a «piantarla col maledetto tennis» e prendere a organizzare dei party nella villa sul lago, magari per guadagnarsi la benevolenza di chi votava per lo Strega. Come Maria Bellonci, padrona di casa del salotto in cui il premio venne concepito, la prima a marchiarlo con la (presunta) diminutio del cronista tennistico: «“Lei è quello del tennis?”, mi chiese, soggiungendo che sapevo usare i congiuntivi e i condizionali». Come fosse, già nel 1965, un attributo di eccezione per i giornalisti sportivi.
Scherza, Clerici, sulle carte bruciate per indegnità, sulla vecchiaia che gabba ogni santo giorno vivendo e lavorando come due quarantenni in uno e, in omaggio all’insoddisfazione, sul libro che vorrebbe veramente scrivere: la biografia delle cose come non sono andate e dei fatti che non sono successi. Da ragazzo, ad Alassio, frequentava il figlio di Gino Cervi, i fratelli Spinola, Paolo Ambrogio e Giorgio Arlorio: altre occasioni di lasciare la racchetta e le pagine sportive dei quotidiani, eppure «chi lo sa perché, curiosamente mi sono tirato indietro pure quella volta ed è finita che non mi sono messo neanche nel cinema».
La giostra dei personaggi e degli aneddoti fa perdere la contezza del tempo e dello spazio, di ciò che è vero o solo verosimile, serio o burlesco, il filo del discorso sembra perdersi e invece no, perché il nesso tra Rod Laver e Oscar Wilde forse non si vede, ma c’è. Si finisce per atterrare sulle sorti del giornalismo ai tempi dei giornali col collo strozzato, dei contratti di solidarietà, delle informazioni polverizzate su Facebook e Twitter, della scrittura in estinzione. «E chi lo sa. Non avrei 85 anni, se sapessi dire chi sarei e cosa farei, se mai iniziassi a lavorare oggi. Una volta ho conosciuto per sbaglio a New York, dopo aver giocato un doppio con Dinkins, il sindaco nero che faceva deviare gli aerei perché non passassero su Flushing Meadows durante il torneo, il boss del New York Times. Mister Sulzberger. Mi disse: “Guardi che noi, tra dieci o quindici anni, non ci saremo più”. Invece si era sbagliato: la carta c’è ancora. Io non sono in grado di immaginare cosa capiterà, ma mi riesce difficile pensare che non possa sopravvivere una forma di scrittura. Per conto mio, ho sempre consigliato a tutti, quelli bravi intendo, di non scrivere di sport, magari sbagliando. Perché ci sono stati Ring Lardner e Damon Runyon, Hemingway stesso e John Fante, che sono nati nel giornalismo e poi diventati scrittori. Altri, non mi risultano».
Neppure Brera, che Umberto Eco definì un «Gadda spiegato al popolo» e l’etichetta, racconta Clerici, fu fonte di dispiacere per l’interessato – e pure per lui – perché diminutiva e, in definitiva, ingiusta. Con altra classe, Italo Calvino ebbe a dire che Gianni Clerici è uno scrittore prestato al tennis. Un prestito senza patto di riscatto, giacché il cronista dei successi di Ken Rosewall e Lew Hoad, Stan Smith e Nastase, Borg e McEnroe, Lendl e Becker, Sampras e Agassi fino ai mostri del nuovo millennio avrà sì trascorso la vita (fingendo?) di inseguire chissà quale conferma o accettazione terrena lontana dai campi da tennis ma, nel mentre, e forse non del tutto consapevolmente, ha provveduto a creare una maniera, una scuola – che risulta senza allievi – nel racconto dello sport. Il rifiuto di raccontare ciò che non ha visto e sentito con occhi e orecchie non mediati «dall’apparecchio», nome clericiano del televisore, ha vinto: i giornali hanno deforestato le tribune cancellando inviati e trasferte, Google ha soppiantato il reporter, le sale stampa si desertificano. Eppure lui c’è: l’unica concessione alla tecnologia, il portatile in vece della Olivetti Lettera 22, che non recava con sé problemi di connessione, maledette password, odiose reti wi-fi col lucchetto e altri stupidi orpelli hi-tech, utili a irreggimentare una mandria di pecore tecnologiche.
Leggendo gli articoli di Clerici, ridacchiava spesso il socio Rino, forse non saprai cosa è successo, ma capirai il perché. Vero: del resto, per le statistiche e le immagini in alta definizione, insomma, per raccontare l’ovvio, c’è la tivù, ci sono i telefonini, la banda larga. O forse non capirai niente della partita, perché avrà parlato di tutt’altro; ma sarai più ricco nel conoscere i fatti di quella sera di quarant’anni prima con l’omologo Bud Collins e Sergio Tacchini, in Sardegna, a sradicare l’insegna dei postfascisti, o saprai di quei mesi vissuti in Fleet Street, passando per l’apologia del dritto di Federer e la nostalgia per le racchette di legno, senza cui il gioco è diventato una faccenda riservata ai bruti. Viene da dire che, tra cento mestieri, Clerici forse non ha scelto il più adatto a sé; certamente, il migliore per noi.


Pagina 99, 12 dicembre 2015

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