30.4.17

L'eredità del poeta. Le strane idee del De André «filosofo» (Giovanni Vacca)

Tra gli innumerevoli volumi dedicati a De André, quello di Federico Premi Fabrizio De André un'ombra inquieta (Il Margine, 196 pagg., Euro 18) ha il merito di tentare un'interpretazione del pensiero del cantautore genovese a partire non dalle canzoni, come in genere si fa, ma dai manoscritti che l'artista ha lasciato e conservati presso il Centro Studi Fabrizio De André dell'Università di Siena.
Tali manoscritti, su fogli sparsi o in calce alle pagine dei libri appartenuti a De André, contengono commenti, chiose, annotazioni, pensieri sparsi che integrano e completano le idee che già vengono fuori dai testi delle sue composizioni, le quali però, è bene non dimenticarlo, erano quasi sempre il frutto della collaborazione con altri autori. DeAndré, che leggeva molto, scriveva anche molto e non solo in versi: una quantità di idee e di spunti che avrebbe certamente potuto aiutare a implementare la sua non enorme discografia (e il fatto che badasse alla qualità più che alla quantità va certamente a suo onore).
L'autore del libro, pur evocando ampiamente l'universo letterario e poetico di cui si è nutrito De André, sceglie sostanzialmente un approccio filosofico e colloca le meditazioni del cantautore in quel filone di pensiero che, da Nietzsche a Foucault, ha scardinato le «grandi narrazioni» della cultura occidentale predicando il relativismo, la decostruzione, lo sradicamento, il nomadismo: la sua poetica anarchica nasce dunque dalla reazione al grigiore della condizione di borghese, che gli apparteneva per nascita, il cui rovescio (nell'emarginazione, nella povertà, nella follia, sinonimi di vitalismo e di «autenticità») egli inseguirà, almeno idealmente, per tutta la vita. Un'ombra inquieta aiuta sicuramente a chiarire meglio la personalità di De André e a illuminare qualche verso enigmatico delle sue canzoni; tuttavia, nonostante l'indubbio valore dell'opera poetica e musicale dell'artista genovese (e l'assoluto rigore e la coerenza intellettuale con i quali ha dato vita alla sua produzione), il pensiero «filosofico» in prosa di Fabrizio De André lascia spesso perplessi, risultando talvolta ingenuo, contraddittorio, bucolicheggiante come quando, ad esempio, afferma che i mali della società risiedano nella città («la cui aria emancipa», diceva invece Guy Debord riprendendo Marx) oppure che l'uomo dovrebbe «assumere la natura come modello» per «una maggiore crescita spirituale». De André, insomma, che dei cantautori italiani è stato tra i migliori, era portato, proprio per la sua intelligenza e la sua sensibilità, a riflettere su tutto e a interrogarsi su tutto, risultando però non sempre convincente e brillante come lo è stato nella sua produzione artistica (forse perché era un artista e non un filosofo); e il fatto che ogni suo appunto venga studiato al microscopio testimonia quanto sia penetrato nell'immaginario collettivo del nostro paese. E a questo proposito, pur nell'originalità del suo lavoro, non si può non rilevare che anche Premi cade purtroppo in un tranello che sembra ormai inevitabile, quasi come se il negare significasse sminuire la figura di De André, e cioè che egli appartenga a tutti: «ogni italiano - scrive infatti l'autore - porta con sé una particella di Bocca di Rosa, Marinella o Piero». Insomma, in ogni italiano albergherebbero le istanze di giustizia sociale, di libertà individuale, di solidarietà e di antimilitarismo cui DeAndré ha dato voce. Ne siamo proprio sicuri?


Alias il manifesto, 5 giugno 2010

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