26.4.17

La nave è immobile. “La linea d'ombra” di Joseph Conrad (Alberto Asor Rosa)

La casa editrice Einaudi ha ripubblicato ancora una volta The Shadow Line di Joseph Conrad La linea d' ombra nella traduzione di Maria Jesi e con la bella prefazione di Cesare Pavese, apparsa per la prima volta nel 1947. Si tratta di uno dei più bei racconti che siano mai usciti dalla penna di un uomo. Di misura assolutamente classica un centinaio di pagine circa, non molto più lungo, dunque, delle più lunghe novelle del Decameron di Giovanni Boccaccio, concentra in questo breve spazio il senso di un'esperienza, e di un passaggio, assolutamente decisivi nella storia di un uomo. È, in sintesi, un racconto sul destino: poiché quanto vi accade non discende mai o quasi mai dalla libera scelta, dalla volontà dei singoli personaggi e in particolare del protagonista: ma è un intreccio di caso e di volontà, un conflitto d'ingenue aspirazioni umane e d'imperscrutabili forze naturali, il cui esito è imponderabile e soprattutto imprevedibile.
Siamo ben al di là della soglia culturale dell'homo faber: siamo nel dominio di quell'uomo moderno, che sa soltanto di esserci ed ha soltanto il problema di come esserci. La trama è semplice, lineare, ma, per quanto ben nota, vale la pena di riassumerla, perché già in essa, come in tutti i grandi racconti, viene fuori l'evidenza del racconto stesso. Il protagonista è un giovane ufficiale di marina, che ha passato diciotto mesi della sua vita su di una eccellente nave a vapore, che scorrazza a trasportar merci sui lontani mari dell'Oriente. “Poi, i diciotto mesi trascorsi, pieni di esperienze così varie e nuove, mi sembravano tetri e prosaici giorni perduti. Sentivo come dire? che non potevo trarne alcuna verità”. Cos'è accaduto? È accaduto che il giovane ha oltrepassato la linea d'ombra: quella che separa la prima giovinezza, fatta di trasporti, entusiasmi, ingenuità e delirii d'ansia e di attesa, dalla seconda giovinezza, o prima maturità, in cui la vita comincia a ritirare le sue promesse. Il giovane, premuto da questa oscura coscienza del destino mediocre che avanza, si congeda: si congeda per sempre, e decide di tornare in patria, senza neanche saper bene a fare che cosa.
Questo è importante. La storia comincia quando il protagonista ha già attraversato la linea d'ombra. Quanto accade poi nel racconto è un'improvvisa, imprevista virata su di un mare che avrebbe potuto essere da quel momento in poi un'eterna distruttiva bonaccia, l'eterna vita comune di tutti i giorni. A quel giovane di cui, significativamente, non sapremo mai il nome e che parla in prima persona sarà concesso, prima di rientrare presumibilmente sulle grandi rotte così conosciute della vita umana normale, di sperimentare l'avventura, la dimensione eccezionale dell'esistenza. Ma, forse non a caso, il suo cimento non consisterà nel misurarsi con una grande tempesta ma, appunto, con una grande, smisurata, quasi inconcepibile bonaccia. Nei giorni che trascorre a terra, il giovane viene fortunosamente a sapere che si cerca un capitano per una nave rimastane priva a causa della morte di quello precedente, nella rada di Bangkok: e afferra al volo l'occasione della sua vita. Veramente, verso questa occasione il giovane è spinto quasi a viva forza da un certo capitan Giles, Genio (benefico? malefico? per dirlo, bisognerebbe formulare un giudizio sugli eventi, proprio ciò che è difficile fare) del suo destino.
Il racconto, del resto, è costellato di queste presenze umane, che, pur restando estremamente concrete e definite, assumono una significazione estremamente e misteriosamente simbolica: il capitano morto, vera sublimazione della malvagità e della violenza; il secondo di bordo, Burns, emblema vivente di un'ostinata disperazione, che oscilla tra la rabbia, la malattia e la follia; e soprattutto il dignitoso, elegante e coraggioso Ransome, cuoco e cameriere, che porta il male racchiuso coscientemente nel petto fedele, ma non esiterà ad esporre la sua vita allo sforzo quando sarà necessario portare la nave in salvo. Il giovane, che da questo momento sarà per tutti il capitano, raggiunge la sua nave a Bangkok; e quando la vede per la prima volta è come folgorato dalla sua bellezza e dalla sua sobria eleganza. È amore, dunque, quello di cui in questo racconto si parla, amore e disillusione (come sempre, verrebbe fatto di dire): amore per un oggetto inanimato, che ha però la consistenza e la grazia d'un corpo femminile; amore per la propria autorealizzazione, che attraverso quell'oggetto finalmente può compiersi; e disillusione, anche, per l'inganno che la nave porta nel suo corpo.
L'amore è, nel giovane capitano, l'effetto di una doppia illuminazione. Il giovane capitano e questo è un particolare tutt'altro che indifferente si realizza, regredendo dalla nave a vapore alla nave a vela; regredisce storicamente, dico, perché gli capita di vivere in un momento in cui il vapore, la soluzione del futuro, e la vela, la soluzione del passato, sono ancora alternativi fra loro; ma da un punto di vista sostanziale, il vapore si può stimare, ma solo la vela si può amare, e, mentre il giovane cresce verso la maturità, si permette il maggior lusso della sua vita, quello di andare contro corrente, verso il sogno infantile d'un'ala di gabbiano bianca dispiegata sul mare. Inoltre, l'amore autentico non può essere il frutto di un'attesa pazientemente costruita, il compenso per un servizio fedele: perché c'è qualcosa di sgradevole nel concetto di compenso. Ciò che si fa, si fa per amor proprio, per amor della nave, per amor della vita che si è scelta, non per amor del compenso: si ama, perché ci si ama, e ci si ama se il senso del meraviglioso, il trionfo dell'inaspettato, il sentimento della presenza di un potere più alto, accompagnano, anche per brevi istanti, la nostra infima storia: fuori delle carriere e delle burocrazie, verso il fantastico.
Ma, non appena messo piede a bordo della nave subito amata, il giovane capitano ha modo d'accorgersi che qualcosa non funziona: il secondo, Burns, vive nella tragica aura del conflitto sostenuto con il precedente capitano, malvagio e disperato, che passava le caldi notti tropicali a suonare il violino nella sua cabina e che era morto maledicendo la nave e il suo equipaggio. Ammalatosi terribilmente anche lui, Burns viene sbarcato, ma il giovane capitano non sa resistere alle sue implorazioni quando giunge il momento di partire: Burns torna a bordo, accompagnando con il suo delirio e con la visione del suo corpo stecchito l'intero viaggio della nave, riemergendo solo alla fine della vicenda dalla sua malattia, come per testimoniare il trionfo da lui personalmente conseguito, ma a prezzo di uno sforzo sovrumano, sulla maledizione del capitano scomparso. Nonostante i saggi consigli di un medico, il giovane capitano vuole ad ogni costo partire. Partire? La nave, appena uscita dalla rada, s'immerge in una terribile, snervante bonaccia, che refoli di vento, senza una regola né una direzione precisa, riescono a malapena ad interrompere di tanto in tanto, ma solo per dar vita ad un beffardo e ingannevole gioco di derive. Intanto, la malattia mostra d'aver piantato radici profonde a bordo; i marinai si ammalano uno dietro l'altro; gli unici sani restano Ransome, che tuttavia porta già il suo male dentro il petto, e il giovane capitano, che soffre la sua sanità come un'aggravante della propria colpa. Qui non c'è molto da riassumere. Sono cinquanta semplici pagine, in cui Conrad compie il miracolo d' interiorizzare completamente il confronto smisurato tra l'uomo e la natura e di spiritualizzare al tempo stesso ogni più piccolo movimento naturale. È la storia di una immobilità materiale, che diventa esistenziale e poi metafisica: “Con l'ancora levata e le vele spiegate la mia nave rimaneva immobile, simile a un modello di veliero posto tra le luci e le ombre di un marmo levigato. In quella misteriosa calma delle forze immense dell' universo non era possibile distinguere la terra dall'acqua.... In quell'immobilità il morbo freme e dilaga, inarrestabile: i marinai si riducono, poco a poco, a povere larve. Ma siccome sono un buon equipaggio, continueranno fino allo stremo ad esercitare l'umile e straziante manovra delle vele e il governo del timone”.
Il climax della vicenda si raggiunge quando il giovane capitano scopre che il vecchio capitano, il morto, ha svuotato le bottiglie di chinino, con cui i marinai colpiti dalla febbre potevano esser curati, sostituendolo con una polvere grigia qualsiasi, una sabbia inutile. Il giovane capitano è preso da un panico indicibile, da un rimorso senza speranza. Tutto ricade ormai sulle sue spalle, ed egli pensa al tempo stesso d' essere l'unico responsabile della sciagura della sua ciurma. Quando tutto sembra ormai perduto, e il giovane capitano fantastica d'una nave colma di morti che bordeggia quasi immobile su di un mare che sembra fatto pietra, arriva una nuvolaglia precorritrice di tempesta. Ma neanche questo preannuncio di movimento può ormai placare l'inquietudine profonda del giovane protagonista: “C'è qualcosa nel cielo, come una corruzione, una decomposizione dell'aria, calma come sempre. Eppure non sono che semplici nuvole che potrebbero portare vento o pioggia. Strano che debba essere tanto turbato. Mi sento sotto il peso dei miei peccati...”.
L' ultima notte è oscura e cieca come le tenebre della creazione. Affacciandosi dal bordo della nave, su quell'immensità senza fine, il giovane capitano avverte il sapore del nulla. Tutto sembra perduto, ma quelli a bordo ancora dotati di un solo briciolo di forza, preparano con uno sforzo strenuo tutto quello che è necessario per affrontare la tempesta: e, se mai vela è stata serrata da pura forza spirituale, questa è stata certo la nostra, perché, ad esser precisi, muscoli per quella manovra non ce n'erano più, fatta eccezione per noi che formavamo sul ponte un gruppetto sparuto. Il pensiero si fa forza, perché la volontà lo vuole. Suo malgrado trasformato in eroe, il protagonista fronteggia, per sé e per gli altri, la violenza del fortunale, piegato, al tempo stesso, dall'onda incontenibile della colpa commessa: “Io stavo in piedi tra i miei uomini come torre ferma, inaccessibile al male, cosciente solo dell'infermità dell'anima mia...”. La tempesta, infine, porta con sé il vento; e il vento porta, non si sa come, la bella nave al suo porto. Il giovane capitano ha vinto la sua prova: ma questo gli costa essere andato ben al di là di quella impalpabile linea d'ombra, da cui pure era partito. “Dovete essere molto stanco”, gli dice il Genio Giles, responsabile in egual misura sia della sua fortuna sia della sua disgrazia. No, risponde il giovane capitano: “Non stanco. Ecco, capitano Giles, come mi sento: mi sento vecchio. E debbo esserlo diventato. Tutti voi, qui a terra, mi fate l'effetto di giovincelli spensierati che non hanno mai avuto preoccupazioni in vita loro...”. Ma il giovane capitano ha già sbarcato il suo equipaggio malato ed è pronto a riprendere subito, deluso ma non domo, il suo cammino con la sua bella e sfortunata nave.
Come il lettore avrà capito, La linea d'ombra è, innanzi tutto, uno straordinario racconto d'iniziazione. Ciò di cui si tratta è il conseguimento della maturità attraverso l'esperienza del destino. Ma, poiché Joseph Conrad (nonostante il suo esotismo) è totalmente posseduto dal demone della modernità, il senso della iniziazione non è qualcosa, ma è nulla; o, per meglio dire, è la conquista di un comportamento, che appare privo di scopo. Lo dice, con quel suo fare accattivante e apparentemente mediocre, che tanto fa irritare il giovane capitano, il Genio Giles proprio alla fine del racconto: “Ho ancora una cosa da dirvi: un uomo deve sapere affrontare la cattiva sorte, i propri errori, la propria coscienza. Del resto, con che altro mai si dovrebbe lottare?”; e ancora: “Imparerete presto anche a non scoraggiarvi. Un uomo deve imparare tutto. Ecco quel che i giovani non vogliono capire...”.
In questo, il giovane capitano di Conrad è fratello gemello del Tonio Kroger di Thomas Mann: il marinaio e l'artista incredibilmente si assomigliano; ambedue hanno per orizzonte un mare, che è in realtà una sconfinata prigione: sul quale, navigando o fantasticando, non si può cercare di ottenere nient'altro se non di essere fino in fondo se stessi. Non più di questo, nel migliore dei casi. Si tratta, dunque, di una storia di iniziazione inequivocabilmente, profondamente virile. Il giovane capitano rappresenta proprio perché trasferito nell' isolamento dell'esotismo orientale un campione insuperabile del maschio occidentale al tramonto storico della sua supremazia. Da questo punto di vista, non è per niente privo di significato che La linea d'ombra porti come sottotitolo:Una confessione, e sia stata scritta da un Conrad vecchio, a pochi anni di distanza dalla sua propria morte, come rendiconto estremo dell'intera sua opera. Il protagonista della Linea d'ombra è un Lord Jim arrivato a misurarsi con l'universo: e l'epica malinconica e struggente, di cui Conrad circonfonde discretamente la breve avventura del suo personaggio, ha il senso preciso dell'ultima ripresa d'una tradizione, la quale non può dirsi disperata solo perché, per essere disperata, le manca ormai il senso attivo di ogni possibile presa sul mondo.
Il sentimento del possesso, che coincide con l'amore (“Una nave! La mia nave! Mia, assolutamente mia, da possedere e curare più di ogni altra cosa al mondo, un oggetto di responsabilità e di devozione”), sfuma nell'indistinta contemplazione della morte, che circonda da ogni parte la quieta, responsabile, non gridata angoscia della nostra esistenza. Non resta che prender atto, come unica norma morale, di ciò che si è e rispettarne per quanto è possibile il codice astratto. A bordo di una nave si è marinai (come dentro una fortezza si è guerrieri), e marinaio è già una categoria decente, che può bastare, se non ce ne sono altre migliori a disposizione: “Lui ed io eravamo marinai. Questo era veramente un giusto richiamo: io non avevo altra famiglia...”; “L'istinto del marinaio sopravviveva solo, intatto nel dissolvimento morale...”; “In lui era risorto l'esperto marinaio. Non aveva bisogno di guida. Sapeva quel che doveva fare. Ogni sforzo, ogni movimento, era un atto di eroismo. Non stava a me sorvegliare un uomo talmente ispirato...”.
Mutatis mutandis, con la storia del giovane capitano e dei suoi marinai (così degni per sempre del suo rispetto), Conrad non fa che narrare l'ennesimo episodio di quella gigantesca storia a puntate che è l'infinita vicenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda, nella quale si condensa quanto di positivo (e di negativo) l'essere umano maschile ha creato, nel senso dell'eroismo, all'interno dell'immaginario della cultura occidentale: il sogno di una Grande Impresa, che si batte contro il Nulla e finisce nel Nulla.
In quanto racconto d' iniziazione, La linea d'ombra è anche, a modo suo, un racconto morale (come ben sapeva Calvino, così innamorato di Conrad). Ci sono uomini che non attraversano mai, in vita loro, la linea d'ombra. Sorridenti, pacifici, tranquilli, mansueti, soddisfatti oppure arroganti, cinici, prepotenti, isterici, persuasi di sé essi non conoscono la rivelazione del nulla, su cui la linea d'ombra schiude il suo misterioso orizzonte. Non conoscono la stanchezza del pensiero, il senso ironico-tragico dell'esistenza, la paradossale consolazione della malinconia, il fermento del dubbio, che mette in forse ogni certezza. Conrad individua biologicamente la linea d'ombra, come abbiamo ricordato, nella fase di passaggio tra la prima gioventù e quella seconda gioventù, che apre le porte alla maturità. Ma, da come lui stesso la descrive, c'è una linea d'ombra per ogni età della nostra esistenza: essa è il cerchio stesso dell'orizzonte, che si sposta davanti a noi man mano che ci sforziamo, vanamente ma testardamente, di raggiungerlo. Ci sono uomini che, in effetti, raggiungono e superano la loro linea d'ombra molto presto; e altri che invece la raggiungono più tardi, quando il rumore delle effervescenze giovanili si è da tempo placato. C'è chi passa la propria linea d'ombra quando lascia la responsabilità che aveva ricoperto, e c'è chi la passa quando l'assume. Ma in ogni uomo degno, almeno una volta nella vita, questa linea viene oltrepassata. E forse la oltrepassano anche i grandi gruppi collettivi, le nazioni, le etnìe, le religioni. Conrad, con gli strumenti semplici e possenti della sua immaginazione creatrice, ci dice: non c'è niente da raggiungere, e bisogna sforzarsi di saperlo; ma per sforzarsi di raggiungere il sapere del nulla, c'è bisogno di un grande sforzo, che rende un poco migliori. Solo chi è disposto a compierlo, è degno di rispetto.


“la Repubblica”, 22 marzo 1989  

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