23.4.17

Hammarkjold. Un idealista solitario a capo della macchina Onu (Gian Paolo Calchi Novati)

Dag Hammarskjòld
L'Onu è nata da una scelta ideologica ma è stata poi affidata alla politica e, per la gestione, a una burocrazia internazionale. Gli anni del segretariato di Dag Hammarskjòld, fra il 1953 e il 1961, con un idealista alla testa della macchina, furono il momento della verità sulla possibilità di far coincidere l’idealità con la pratica. È probabile che il fallimento dell’opera di Hammarskjòld sancito brutalmente dalla sua morte in circostanze che hanno sollevato più di un dubbio, abbia posto fine all’obiettivo di fare delle Nazioni Unite l’organizzazione dei piccoli paesi in lotta contro i soprusi dei Grandi perseguendo principi come la neutralità, la non-violenza e l’impegno.
Il libro di Susanna Pesenti (Dag Hammarskjold. La pace possibile, Francesco Brioschi Editore 2011), bello e sentito anche se non realizza a fondo le sue potenzialità per una carenza di metodo (fonti non sempre rivelate, nessun indice analitico, niente bibliografia), trova la sua chiave più efficace proprio nel tentativo di definire come l’intellettuale e politico svedese si sia caricato sulle spalle un compito impossibile in un mondo segnato dall’interdipendenza ma sovrastato dalla minaccia nucleare. Il fatto che tutte le potenze, per motivi diversi, gli si siano rivoltate contro (anche Kennedy trovò il modo di far sapere che era fuori di sé per non essere stato consultato sull’intenzione di muovere decisamente contro la secessione del Katanga) potrebbe essere una conferma della sua imparzialità e buona fede ma non nasconde del tutto gli errori commessi in un eccesso di solitudine e forse di egocentrismo. La pagina nerissima dell’impotenza dell’Onu davanti all’approssimarsi della morte di Patrice Lumumba non poteva certo essere riscattata dal coraggio fisico al limite dell’incoscienza con cui, preferendo la segretezza alla sicurezza Hammarskjòld si buttò nell’impresa di convincere Tshombe a rientrare nei ranghi aggirando i grandi interessi del sistema di potere occidentale variamente inteso.
Il Congo fu il momento atteso da Hammarskjold per conferire all’Onu una missione che andasse oltre il patteggiamento sterile fra le potenze detentrici del diritto di veto al Consiglio di sicurezza D’altra parte, il veto era stato l’ancoraggio «realistico» per compensare il troppo «idealismo» che ci poteva essere nell’idea di un «unico mondo» cara a Roosevelt. L’equivoco fu di pensare che il Terzo mondo fosse meno conflittuale dell’Europa, teatro deputato della guerra fredda. L’Africa rappresentava il domani e proprio nel domani - ormai lontani al clima pur contrastato della coalizione che aveva vinto la guerra - c’era da aspettarsi che la rivalità fra Usa e Urss e ancora di più fra i due diversi modelli di mondo, non più unico né unito, si evidenziasse senza esclusioni di colpi. Nelle aree ex-coloniali i punti fissi erano più labili e c’era dunque ampio spazio di manovra anticipando l’avversario. Dopo tutto l’Africa usciva dalla sfera di giurisdizione delle potenze coloniali e del capitalismo e l’Occidente credeva di avere il diritto di «difenderla».
Nel Congo non ci si fermò davanti a nulla. L’Urss dovette rinviare di quindici anni (l’Angola come rivincita della sconfitta in Congo) il suo progetto di metter piede in Africa. Nell’attivismo di Hammarskjòld non si distingueva più il personale dal pubblico. Scrive Pesenti: «Dal 30 giugno 1960 al 18 settembre 1961 gli avvenimenti politici si intrecciano con la biografia privata a un ritmo crescente di complessità e gravità, fino alla tragedia finale».
Hammarskjòld sapeva che l’Onu era una sede per la negoziazione e nello stesso tempo un organo esecutivo con il dovere di agire. Fu per le sue intuizioni che vennero delineate le prime operazioni di «pace», adottando formule attente a non scontrarsi con la linea di tensione Est-Ovest. Prima l’Unef per dividere Egitto e Israele dopo la guerra di Suez e quindi il Congo per rimediare alla secessione del Katanga. Tutto il suo impegno fu sempre rivolto a rinforzare il traballante prestigio dell’Onu. Da questo punto vista il clou fu il viaggio a Pechino nel 1955, senza nessuna rete di protezione, per sbloccare il caso dei prigionieri americani della guerra di Corea. Il fine supremo dell’Onu doveva essere: fissare una «presenza».

"il manifesto", 6 gennaio 2012

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