14.4.17

… come bere un bicchier d’acqua. “Madre d'inverno” di Vivian Lamarque (Gabriella Musetti)

Con Madre d’inverno (Mondadori, 2016) Vivian Lamarque ha vinto in febbraio il Premio Bagutta 2017. Una notizia che smentisce gli allarmi sullo stato della poesia in Italia. Il libro ripercorre le tappe dolorose di un distacco e insieme la ricomposizione di una memoria, perché rimanga lì, collocata in uno spazio preciso della mente – che poi è tutt’uno con il cuore, come ci dice Dickinson -, come il quadro della madre, dopo la sua morte, è ben presente nel salotto di casa e ancora interloquisce con la figlia. Lamarque ci ha abituati, nel tempo e nei precedenti libri, a queste sue levità di tratto poetico che sorvegliano e filtrano nella lingua una materia tutt’altro che leggera, come già ricordava Giovanni Raboni, grande estimatore della poetessa. Rossana Dedola, nella bella introduzione a Poesie. 1972-2002 (Oscar Mondadori, 2002), parla, a proposito della poetica dell’autrice, di un “corteggiamento della morte” che emerge a più riprese e si fa strada tra versi di natura più leggera e dal sapore fiabesco. E ripercorrendo la poesia di Lamarque nei diversi libri e nelle diverse stagioni di scrittura non si può non darle ragione.
Il tema della morte (della madre) in questo libro è centrale, e tuttavia è ancora una volta espresso con cadenze leggere, accennato, lasciato intravedere tra le parole, sospeso nell’attesa, nei rituali di affetto e di cura che la figlia presta alla madre in ospedale, nei piccoli gesti di amore e accudimento dell’ambiente (sia l’acqua per i fiori dei corridoi e della stanza, siano i dettagli ornamentali del Natale prossimo), nelle apprensioni e nelle confidenze sussurrate, perfino nel diffuso colore bianco circostante delle pareti, delle lenzuola, della neve, della camicia da notte da dove si sporge un ricamo come una margherita su un prato ancora dormiente. Un “congedo gentile”: sono parole chiave di questi versi, un accompagnamento amorevole in cui anche il colore luccicante rosa della flebo e il sacchetto d’oro dell’urina sono punti luminosi delle “posizioni del dolore” che scandiscono i momenti di una storia che si va a concludere nella sofferenza (“Dal centro del dolore/ mi hai fatto un sorriso/ come un sole”) e che nasconde come in un bosco misterioso le piccole incongruenze della vita, dall’amica che scambia un’altra paziente per la madre dell’autrice e si accorge dell’errore dopo molti discorsi (“si accorse che non eri tu, stesso corridoio/ stesso numero di camera aveva sbagliato/ piano, non eri tu, sbagliato letto!”), alla “ricerca” (tema caro alla fiaba) delle vene da bucare con la flebo, dell’infermiera per una necessità contingente, dei visitatori che si aggirano per i corridoi in cerca delle stanze dei propri cari. E la chiusa di questa sezione iniziale sulla morte della madre riporta una frase lapidaria di Szymborska sul tempo scaduto.
Una seconda parte, ancora incentrata sulla perdita, viene inaugurata da una immaginazione creatrice: la figura della madre ritratta in un quadro appeso alla parete della stanza in muto colloquio con la figlia; sul quadro alla parete riverberano, attraverso la finestra di fronte, i colori del cielo, le forme dell’albero sottostante e dei fiori del balcone, mutando continuamente l’immagine e la luce secondo le ore del giorno, sovrapponendosi ai tratti del volto figure diverse riflesse sul vetro, ornandosi di ombre, sprazzi di luce, brevi scintillii, nuovi colori. “O sei tu/ ora madre alberata quelle foglie,/ tu quel geranio rosa come/ il tuo nome, quel fiore/ che bagnavi da viva/ da severa regina del balcone?”. Un riverbero di luci e ombre che è anche un rispecchiamento, una trama colloquiale non finita in cui i ruoli della interlocuzione sembrano alternarsi, in cui il dopo lascia sbocchi e aperture imprevedibili, e la memoria diviene mobile, transitante tra stati differenti di esistenza e di tempo. Un colloquio che si anima di altre presenze, come quella del padre morto in giovane età, anche lui appeso in fotografia sul muro: “Uno sopra l’altra guardate davanti/ a voi lontano molto oltre/ questa me che vi guarda dal divano”. Ancora una volta l’ambiente esterno e i soggetti umani si interconnettono in profondità, e ciò che è fuori non è semplicemente un “contesto” estraneo, penetra nell’interiorità, ne muta i contorni. “Era ora, così si fa:/ d’inverno si nevica!/ Che fuori si nevichi dunque/ che dentro si guardi nevicare”.
Tutta la produzione poetica di Lamarque, si potrebbe dire, si ascrive a un autobiografismo proposto secondo moduli di racconto che appartengono a un immaginario bambino. Una lingua semplice, quotidiana, impreziosita qui e là da scelte lessicali alte, numerose inversioni, numerose iterazioni di parole (soprattutto aggettivi e avverbi) o di formule linguistiche specifiche come nel linguaggio delle fiabe o nelle filastrocche, come nell’uso frequente dei verbi all’imperfetto; molte rime, assonanze, consonanze e giochi fonici che ritmano e rendono mobile il tessuto del verso, creano sorprese fonico-semantiche, incuriosiscono, spiazzano il lettore; molte domande e interrogazioni alla ricerca delle risposte fondanti della vita, come di chi si affaccia nella prima adolescenza alla vita stessa, desidera comprenderla nella sua smisurata eterogeneità e complessità; molte citazioni da testi letterari, fiabe, canzoni, opere liriche, intercalati nel testo, dati in esergo alle diverse sezioni dei libri, trascritti mescolando le parole altrui alle proprie in una scrittura colta e comparativa, in certi tratti del suo lavoro. Questo mondo infantile in cui si muove Lamarque, che è anche traduttrice e apprezzata autrice di fiabe e narrazioni per bambini, non è un mondo ingenuo o lezioso: è improvvisamente scosso da lacerazioni e angosce profonde che si intuiscono, si intravedono tra le righe, o da spaccature aperte in modo imprevisto tra le parole. Partendo dal tema fondativo dell’assenza, dalla ferita originaria di esser figlia di una doppia maternità (la madre biologica che l’ha abbandonata a nove mesi e quella adottiva che l’ha allevata e amata, ed è dunque la madre), con una conseguente alterazione di rapporti con la realtà. “Dopo qualche decennio di Jung, / di Dott. B.M., ora ti chiamavo/ mamma come bere un bicchier/ d’acqua, prima mai, non me ne/ accorgevo che non ti chiamavo mai”.
Anche l’ironia appartiene all’autrice, e in questo libro della piena maturità sporge da numerosi testi che riprendono temi di sempre: “ Invece l’anima dove?/ anche lei in giro per casa?/ o clandestina in noi/ non avvistabile da tac?/ forse al riparo/ di un’orecchietta di cuore?/ particola?/ Sim?”. Oppure vengono riscritti in nuove versioni-inversioni: “Allora non è facile fare una poesia?/ non basta prendere un pezzo di carta/ e una matita? non è come per la terra/ fare un filo d’erba, una margherita?”, che rovescia in una diversa versione un testo presente con altro titolo in Poesie. 1972-2012, si interroga sulla scrittura di poesia e testimonia un continuum di temi e di scrittura da un libro all’altro, da una stagione di vita all’altra, con variazioni che rendano permeabile nei diversi tempi la realtà, la rendano dicibile in modi differenti. Niente è dato per definitivo, terminato, assoluto, finché si è in vita. Anche la morte pervade la vita, si insinua con inquietudine nell’animo dei viventi, confina e tocca la vita stessa come il cielo con la terra, controbilancia le attese e resta là, porta finale del vivere che tutti attraverseremo e solo allora, da quel momento, ci sarà veramente la parola fine, come ricorda in una poesia intitolata Post scriptum nel libro Poesie. 1972-2002: “Siamo poeti./ Vogliateci bene da vivi di più/ Da morti di meno/ Che tanto non lo sapremo”.
Questo doppio che costantemente attraversa la sua vicenda personale le fornisce uno sguardo ambivalente, capace di guardare più situazioni divergenti da diversi punti di osservazione, leggendone gli aspetti positivi e negativi, contraddittori, ma mai in maniera assoluta. Non c’è una mediazione forzosa oppure un facile desiderio di pacificazione delle alterità, è la vita stessa che è piena di piccole e grandi incongruenze, contraddizioni, e l’azione di cura del mondo in cui viviamo, che appartiene ai temi cari all’autrice, deve partire da una scelta di responsabilità consapevole. Così la poesia intitolata L’albero, anch’essa nuova versione e drastica riduzione di un testo assai lungo già presente nella raccolta del 2002, tocca alcuni punti nevralgici della sua scrittura. Quello che nella versione precedente era un matrimonio con l’albero ( “Se eri un pioppo/ ti sposavo ti salivo/ fin lassù”), qui è una presenza umana sull’alto dei rami, ma il colloquio con i morti lassù è il medesimo: “Morti ma come vi hanno messi?/ divisi per millennio? per secolo?/ per causa di decesso? per precocità?/ o siete tutti in disordine come stracci/ là? o siete polvere quieta come di mobili?”. La particolare dislocazione aerea permette di osservare e dialogare con quelli che stanno sopra, nel cielo (i morti) e la realtà sottostante, cui appartiene l’autrice e l’albero stesso: il mondo materiale, la vita comune degli esseri viventi, animali e vegetali compresi, e sopra e sotto il cielo le medesime questioni: “Anche il cielo/ era un sottosuolo come mancavano le belle sere/ d’estate le chiacchere le luci basterebbe anche solo/ un bar e dei fiori tipo margherite e viole e papaveri/ e non ti scordar di me// e di noi che aspettavamo un dio o un premier/ equo ma va là una febbre leggera febbricitava/ il mondo le sue gote, colline come rosse guance/ come d’autunno fard// certi giorni non amava nessuno/ solo il mondo intero nella sua sfericità”.
Un libro complesso, ricco di aperture e ridefinizioni, mobile nello stile (parlato, dialogico, lirico, narrativo) e pur riconoscibilissimo, che pone al centro la figura della madre, le madri, anche madri simboliche (Szymborska), e si chiude con una serie di testi sulla poesia “coinquilina poco prevedibile”.


dal sito della “Società delle letterate”

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