1.4.17

Asia Centrale. Dove rinasce il jihad (Antonio Talia)

Moschea a Dushanbe, capitale del Tagikistan, nel primo giorno di Ramadan (luglio 2017)
Negli ultimi mesi del 1991, mentre l’Unione Sovietica si sta definitivamente sgretolando e da ovest a est repubbliche e territori si autoproclamano indipendenti in una reazione a catena alla Dieci Piccoli Indiani, il “settimanale di resistenza umana” Cuore pubblica una buffa guida illustrata all’ex impero di Mosca con schede e vignette fulminanti, che mescolano nazioni appena nate a Paesi inventati: accanto alla Bielorussia (“Capitale: Bielomosca; Moneta: Bielorublo”), all’Ossezia del Sud e alla Gagauzia (sì; in qualche modo esistono entrambe), compaiono paesi da romanzo fantasy (“Ignazia”) che nell’assurdità del caos postsovietico potrebbero persino risultare verosimili.
Venticinque anni dopo, nelle ore successive all’attentato al Reina di Istanbul, si scatena la caccia a un sospetto centrasiatico; anzi, no, uiguro; anzi no, kirghiso; anzi, no, uzbeko; e lo sterminato territorio che si snoda appena a oriente di Istanbul fino alla Cina sembra ancora quello descritto dai redattori di Cuore: un gigantesco punto interrogativo nelle nostre mappe mentali, Terra Incognita, un Hic Sunt Leones dove, chissà, potrebbe persino esistere un’Ignazia popolata dagli Ignazi. Ma dietro i buffi nomi di nazioni in apparenza indistinguibili, l’Asia Centrale nasconde molto altro: dinastie e parentele in lotta tra loro con intrighi degni dei Borgia, enormi ricchezze, e soprattutto uno scontro tra dittature laiche e oppositori sempre più radicalizzati che sta fornendo all’Isis un serbatoio di guerriglieri che sembra inesauribile.
Una prima storia utile per capire il rapporto tra repubbliche centrasiatiche, Turchia e radicalismo islamista è quella di Abdullah Bukhari: 38 anni, cittadino uzbeko, questo imam vive dal 2002 a Istanbul, dove ha fondato cinque madrase conquistandosi un folto seguito tra la diaspora centrasiatica in Turchia. Bukhari è un predicatore molto attento a destreggiarsi tra i gruppi radicali, invoca il jihad contro Assad in Siria, Putin in Cecenia e soprattutto contro il presidente uzbeko Islam Karimov, e si muove su una linea molto sottile tra sostegno e critica allo Stato Islamico. La mattina del 10 dicembre 2014, mentre Bukhari sta camminando verso la sua madrasa nella zona europea di Istanbul, un uomo gli si avvicina alle spalle, estrae una pistola dotata di silenziatore e lo uccide piantandogli un proiettile calibro 9 alla schiena. Secondo la polizia i responsabili dell’esecuzione sono tre uzbeki e un russo-ceceno: i quattro agivano agli ordini di “Misha”, un agente dell’Snb, i servizi segreti uzbeki, nipoti del Kgb dei tempi della Guerra Fredda.
Con 22 milioni di abitanti, l’Uzbekistan è la nazione più popolosa della zona, governata dal 1991 senza interruzioni da Islam Karimov, ex funzionario del Partito comunista sovietico che ha represso le opposizioni laiche e religiose con la crudeltà di un despota delle Mille e una Notte. La valle di Fergana, a cavallo tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, è infestata da gruppi filotalebani fin dalla fine degli anni ’90, e nel clima post-11 Settembre Karimov si accredita come un importante interlocutore nella War on Terror: per le incursioni aeree in Afghanistan gli americani si appoggiano alla base uzbeka K2 e Karimov diventa il punto di riferimento per le extraordinary renditions della Cia in Centro Asia, bollando ogni dissidente come terrorista islamico. La caccia di Karimov agli estremisti immaginari genera un movimento estremista reale, l’Imu (Islamic Movement of Uzbekistan), i cui militanti combattono a fianco dei Talebani, si diffondono ovunque nella zona reclutando altri centrasiatici, e nel 2015 giurano fedeltà all’Isis. Nel frattempo, il satrapo uzbeko ha un ritorno di fiamma con Vladimir Putin e nel 2005 scaccia gli americani dalle sue basi militari, non prima di aver ucciso almeno 600 civili che protestavano per il rincaro dei prezzi nella piazza di Andijian, nel sud del Paese, in quello che costituisce uno dei massacri più sanguinosi degli ultimi anni a livello planetario. Nel settembre scorso Islam Karimov muore all’età di 78 anni, lasciando sul trono uzbeko l’enigmatico ex primo ministro Mirziyoyev.
Ancora Istanbul, qualche mese dopo l’omicidio Bukhari: Umarali Kuvatov è un imprenditore tagico che deve la sua fortuna a una società di fornitura di carburante alle truppe Nato in guerra in Afghanistan, costituita con il genero del presidente del Tajikistan Emomali Rakhmon agli inizi degli anni Duemila. Nel 2011 i rapporti tra Kuvatov e il governo tagico precipitano, l’imprenditore fonda il movimento di opposizione Gruppo24, fugge prima a Mosca, poi negli Emirati e infine in Turchia. La notte del 5 marzo 2015, di ritorno da una cena con la famiglia in casa di altri esuli, un sicario lo fredda con un colpo di pistola alla testa. Le indagini si concentrano su sicari legati al Tajikistan, ma i responsabili non saranno identificati. Il Tajikistan è il simbolo di come in Asia Centrale i confini assumano un significato molto più sfumato che altrove: circa un quarto della popolazione afghana è tagica, altri tagichi si trovano sparsi nelle altre repubbliche e circa 200 mila vivono addirittura in Cina. I tagichi sono l’unico grande gruppo etnico della zona di origine persiana, tanto che tra di loro si ritrova una folta minoranza sciita, e sono contrapposti agli uzbeki da una rivalità accesa: nel 1924 Stalin traccia i confini delle repubbliche centrasiatiche e assegna arbitrariamente agli uzbeki Bukhara e Samarcanda, da sempre cuore della cultura tagica, un affronto mai dimenticato.
Bukhari e Kuvatov, l’imam e l’imprenditore, il religioso e il laico, incarnano i due poli estremi dell’opposizione ai governi dell’Asia Centrale e i loro omicidi seminano il terrore tra la diaspora centrasiatica in Turchia, che solo a Istanbul conta almeno 140 mila esuli. Ma secondo il documentario Murder in Istanbul, prodotto da Bbc Arabic e trasmesso ai primi di gennaio, costituiscono solo la punta dell’iceberg, perché negli ultimi anni sono 12 le vittime di omicidi politici avvenuti nella metropoli turca, tutti riconducibili alla galassia centrasiatica.
A Istanbul vivono anche molti rifugiati kirghisi, una nazione spesso bullizzata dal potente vicino uzbeko, che nel 2005 ha lanciato diverse incursioni nel suo territorio per catturare i fuggitivi scampati al massacro di Andijian, e si è stabilita anche una vasta comunità turkmena, il Paese più chiuso di tutta l’area. Inoltre, sempre Istanbul ospita centinaia di esuli uiguri, tra i primi sospettati nelle ore successive alla strage di Capodanno: si tratta di una minoranza cinese turcofona e musulmana che il Partito comunista cerca di assimilare alle usanze di Pechino da oltre settant’anni. Queste politiche, secondo molto osservatori internazionali attuate in violazione dei diritti umani, hanno condotto consistenti gruppi di uiguri alla radicalizzazione e al reclutamento in vari gruppi terroristici internazionali. La rotta centrasiatica, attraverso la quale vanno a combattere in Siria, risulta compromessa a causa di un aumento dei controlli e negli ultimi anni molti di loro avrebbero raggiunto il Medio Oriente attraverso il Sudest asiatico: «All’inizio del 2014, dodici uiguri hanno raggiunto l’Indonesia per incontrarsi con il gruppo terroristico Mit, Mujahidin Indonesia Timur», racconta a pagina99 Sidney Jones, direttrice dell’Institute for Policy Analysis of Conflict di Jakarta, «e dopo la cattura uno di loro ha raccontato che il Tip, Turkestan Islamic Party, sta inviando militanti nel Sudest asiatico, dove possono addestrarsi e andare a combattere altrove o tornare in Cina a compiere attentati, ma non sappiamo se queste dichiarazioni siano genuine o se siano state estorte». Secondo l’analista è impossibile stabilire con esattezza quanti uiguri stiano combattendo in Siria, ma se alcune stime internazionali fissano il numero dei militanti intorno al centinaio il professor Li Lifan, docente dell’Accademia di Scienze Sociali di Shanghai e vicedirettore del gruppo di ricerca sull’Asia Centrale, aderisce alla posizione ufficiale cinese: «Secondo le ricerche pubblicate da International Crisis Group alla fine del 2015 erano almeno duemila i centrasiatici che combattevano in Medio Oriente. Tra loro, la maggioranza sono uzbeki e tagichi, ma ci sono anche 300 kazachi, ad esempio. Il punto è che molti militanti uiguri si sono nascosti in questi gruppi provenienti dall’Asia Centrale e dalla Turchia utilizzando documenti falsificati. Il governo cinese sta lavorando con le nazioni Asean (Sudest asiatico) e Csto (un’alleanza militare intergovernativa che comprende Russia e cinque Paesi dell’Asia Centrale) per gestire la minaccia di questi militanti che, una volta sconfitto lo Stato Islamico, potrebbero rientrare in Cina a commettere attentati». Li Lifan sottolinea che la Turchia ha ufficialmente confermato la sua volontà di entrare nella Sco (Shanghai Cooperation Organisation), un blocco politico e militare che riunisce Cina, Russia e tutti gli –Stan centrasiatici con l’eccezione del Turkmenistan, e che a molti analisti occidentali ricorda una versione aggiornata del Patto di Varsavia.
Come ha evidenziato la giornalista esperta di Turchia Marta Ottaviani in un recente articolo pubblicato sul sito “Formiche,” la politica con la quale Erdogan cercava di estendere la sua influenza nelle nazioni centrasiatiche aprendo agli esuli ha liberato molti geni che riposavano imprigionati in una bottiglia, e alcuni di essi si stanno rivelando demoni. Le contraddizioni dell’Asia Centrale sono approdate a Istanbul e tutti i confini diventano sempre più difficili da individuare, proprio come le differenze tra uzbeki, kirghisi, tagichi e uiguri: il confine tra perseguitato politico e militante islamista; il confine tra agenti operativi e assassini prezzolati. Perfino il confine tra nemico del terrorismo e regime autoritario sta sfumando in contorni sempre più indistinti.

Scheda: Uzbekistan
L’Uzbekistan è la nazione più popolosa della zona e ha tentato a lungo di conquistare l’egemonia sulle altre repubbliche ex sovietiche, ma la repressione del diritto di culto attuata dal dittatore Islam Karimov, morto nel settembre scorso, si sta rivelando un pericoloso boomerang: gli uzbeki impegnati in attività jihadiste in Siria e in Afghanistan sarebbero circa mille; tra loro, molti etnici uzbeki con passaporti di altre nazioni. Il principale gruppo jihadista uzbeko si chiama Imu (Islamic Movement of Uzbekistan), è nato nel 1998 per rovesciare Karimov e – dopo varie incarnazioni al fianco di Al Qaeda e dei Taliban – nel 2015 ha giurato fedeltà allo Stato Islamico, di cui si presenta come sezione regionale. Nel 2002 l’Imu ha subito una scissione con la nascita di Iju (Islamic Jihad Union), gruppo terrorista che rimane affiliato ad Al Qaeda e ai Talebani, si concentra quasi esclusivamente sull’Asia Centrale, ed è anche alleato con il Tim (Turkistan Islamic Movement). Nel novembre 2015 oltre 160 persone sono state arrestate con l’accusa di terrorismo e secondo diversi attivisti locali nelle prigioni uzbeke sono rinchiusi 12.800 presunti terroristi, di cui una percentuale rilevante è costituita tuttavia da oppositori politici privi di legami diretti con le organizzazioni radicali.

Scheda: Xinjiang
È un’immensa regione della Cina che confina con Kirghizistan, Tajikistan, Kazakistan, Afghanistan, Pakistan, Russia, Mongolia e India. La sua antica storia risale indietro di secoli e secoli ai tempi delle sanguinose guerre tra khanati, ed è stata brevemente indipendente nel 1933 e nel 1944 con il nome di Turkestan orientale. Il gruppo etnico principale è costituito dagli uiguri, di lingua turcofona e religione musulmana, ma dal 1949 Pechino ha attuato diverse politiche di incentivo al trasferimento per gli etnici cinesi con l’obiettivo di riequilibrare la composizione della popolazione. Lo Xinjiang è soggetto a periodici scoppi di violenza, con attacchi degli uiguri contro gli etnici cinesi. All’inizio degli anni Duemila l’Etim (East Turkestan Islamic Movement), un gruppo di guerrieri uiguri ha combattuto in Afghanistan al fianco di Al Qaeda, Imu e Talebani. Etnici uiguri sono presenti in diverse repubbliche dell’Asia Centrale, e gli uiguri hanno tradizionalmente un forte legame culturale con la Turchia. Nel 2009 Etim ha cambiato nome in Tim (Turkistan Islamic Movement), e dopo essere stato decimato si è ricostituito con la sezione Turkistan Islamic Party in Syria, alleata di Al Qaeda. Lo Stato Islamico compete con Tip e Al Qaeda per reclutare militanti uiguri.

Scheda: Kirghizistan
Con 6 milioni di abitanti, quattro cambi di presidente in circostanze traumatiche nell’arco di 25 anni e forti tensioni etniche tra la maggioranza kirghiza e la forte minoranza uzbeka (14% della popolazione), il Kirghizistan è uno dei Paesi più piccoli e più instabili dell’area. Secondo il ministero dell’Interno sono oltre 500 i kirghizi che stanno combattendo in Siria e Iraq, e nel Paese sono in corso 28 processi contro 44 foreign fighters rientrati in patria per commettere attentati.

Scheda: Turkmenistan.
È la meno popolosa e la più chiusa delle repubbliche centrasiatiche, e la sua popolazione è diffusa in altre nazioni come Iran, Iraq, Siria e Turchia. Secondo dati forniti da Icg (International Crises Group), i cittadini turkmeni arruolati dallo Stato Islamico sono circa 400, ma gli etnici turkmeni potrebbero essere di più.

Scheda: Kazakistan
Il Kazakistan è il paese più ricco e più importante dell’area. Governato con pugno di ferro dal presidente Nursultan Nazarbayev, il Kazakistan ha comunque forti problemi con l’islamismo radicale: secondo il ministero dell’Interno i cittadini kazachi a fianco dell’Isis sono circa 400 e almeno 15 sono rientrati in patria. Nel giugno scorso un attentato nella città di Aktobe ha provocato la morte di 26 persone, tra cui 18 terroristi, 3 militari e 5 civili. Le autorità kazache attribuiscono l’attacco all’Isis, ma sono l’unica fonte di informazione sulla vicenda.

Scheda: Tajikistan
Il presidente Emomali Rahmon ha espresso la sua preoccupazione per i cittadini tagichi che stanno combattendo con Isis, che sarebbero circa 1.300. 147 di loro sono rientrati e 50 hanno ottenuto un’amnistia consegnandosi spontaneamente alle autorità. Le preoccupazioni di Rahmon sono fondate: nel settembre 2015 il comandante delle forze speciali tagiche Colonnello Gulmurod Khalimov ha disertato e si è unito allo Stato Islamico giurando fedeltà ad Al-Baghdadi. Dotato di un eccellente addestramento, Khalimov è considerato uno dei leader militari dell’Isis.


Pagina 99, 14 gennaio 2017

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