12.3.17

Un risotto al curry con Renzo e Lucia (Nadia Terranova)

“Posto” con una certa commozione le pagine (tratte dal settimanale “Pagina 99”) di una scrittrice siciliana che – secondo i miei parametri – visto che ha l'età dei miei figli è giovane. Di lei avevo letto pochissimo, una o due recensioni nel domenicale de “Il Sole 24 Ore”, buone ma non memorabili. E invece questo reportage di un viaggio nel lecchese alla ricerca del Manzoni, che è anche un viaggio nel suo romanzo, un confronto con il suo monumento, una interrogazione sull'essere italiani e voler essere scrittori, mi è parso cosa assai pregevole, nel suo piccolo un capolavoro, che raccomando a tutti gli appassionati di belle lettere. (S.L.L.)
Villa Manzoni a Lecco
La cucina tipica di Lecco è indiana. O almeno è l’idea che me ne faccio quando, saltata giù a metà tragitto dal regionale che dal capoluogo lombardo arriva fino a Tirano, decisa a trascorrere una giornata sul ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, cerco su Tripadvisor i ristoranti consigliati. Altro che polenta e stufato, oggi Renzo e Lucia godrebbero insieme a me di un riso alle mandorle e curry, scambierebbero quattro chiacchiere con l’oste in turbante dai lunghi baffi all’insù e Tramaglino brinderebbe: «Al pane – pardon, al chapati – ci penserà la Provvidenza».
Gli entusiasti di internet non sbagliano: ceno dando le spalle al lago, annego nell’amaranto agrodolce della salsa, e intanto riavvolgo il nastro delle ultime ore passate a camminare dentro e fuori il romanzo che ha fondato l’Italia, mettendo in fila i luoghi da sempre immaginati e finalmente calpestati.
Il viaggio è cominciato così, chiedendo semplicemente dove fosse Villa Manzoni. Lecco è piccola, giro con la cartina fra le mani, sono certa di andare nella direzione giusta, ma ugualmente voglio domandare, interrogare la gente. Facce perplesse, qualche indicazione approssimativa e infine il consiglio migliore: chieda del centro commerciale, quello tutti sanno dov’è.
A quanto pare la casa paterna di don Lisander, come affettuosamente i lombardi chiamano Alessandro Manzoni, è di fronte all’attrattiva principale del luogo, la brutta costruzione moderna con le punte dritte al cielo per fare il verso alle Alpi: lì dentro famiglie e comitive trascorrono il tempo libero spingendo carrozzine, mangiando tacos, comprando scarpe nuove, proprio come in ogni parte d’Italia. Che ingenua sono stata a immaginare che la vita qui girasse intorno a un concittadino immortale, come se non venissi da Messina e non sapessi che anche lì il nome di Antonello non costituisce un’associazione immediata, come se i suoi quadri più importanti non li avessi visti io stessa in una mostra a Roma. Dico al cuore di stare a bada, di stare in pace, ché tutto quello che sa dei Promessi sposi non c’entra con l’urbanistica, «Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto», scriveva Manzoni e lo sapeva di nuovo Giorgio Bassani, che scelse queste righe, di poco precedenti l’Addio monti, come implacabile esergo del Giardino dei Finzi-Contini.
Ecco, la casa. Dopo essere passata sotto un ponte e aver calpestato un marciapiede troppo stretto per i pedoni, ne merito la visione: una villa dai muri scrostati e dal giardino anonimo, ripiegata su se stessa, quasi a scusarsi di essere sopravvissuta. Avrei dovuto prenotare la visita ma ho sfidato la Provvidenza e ho vinto: niente oceano di scolaresche, niente fila, niente spintoni, non devo tirare fuori un libro per ingannare l’attesa, non c’è nessuno né prima né dopo di me. Pago cinque euro in cambio dell’avvertenza che, nonostante il prezzo pieno, la mia visita sarà monca, la pinacoteca è in ristrutturazione, non potrò salire al primo piano per visitarla; intanto al pianterreno un senso di vuoto, di scomposta dismissione disturba ogni stanza. A prendersi l’attenzione è soprattutto la culla del neonato Alessandro.
Secondo il volantino, fra queste mura il futuro scrittore trascorse gli anni della nascita, dell’infanzia e dell’adolescenza. In realtà, stando a quel dovizioso scrigno di pettegolezzi che è La famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg, il bambino passava insieme al padre solo poche giornate estive, in pausa da soggiorni più lunghi come quelli, molto frequenti, nella casa contadina della balia a Malgrate, nei dintorni.
Qui invece siamo in città, come mostra il plastico dell’epoca (non c’era quasi nulla sul lago, solo campi su campi, ma la storica dimora dei Manzoni sembra incastonata lì da sempre); per la precisione, ci troviamo nel quartiere Caleotto, Caleòt in dialetto, la residenza festiva del conte Pietro Manzoni.
Cesare Beccaria, insieme all’amico Pietro Verri, individuò in lui, nobiluccio di campagna, il marito ideale per la figlia Giulia. Pietro Manzoni aveva quarantasei anni, era vedovo, senza figli, un gentiluomo minore, naturalmente noioso agli occhi di un’indomabile rampolla di città cresciuta in mezzo alla cultura pulsante dell’epoca, invaghita di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro, che non poté sposare perché non abbastanza ricca, perché un matrimonio fra le due famiglie, pure molto amiche, era improbabile. Con il conte Pietro nulla funzionò mai, neppure all’inizio, nessuna illusione dorata neanche per cinque minuti: Giulia Beccaria era troppo giovane, troppo irrisolta e troppo disattenta ai bisogni di lui, incapace di essere madre e amare il loro unico figlio, come rivela il ritratto di Andrea Appiani in cui non le sfugge il minimo istinto di tenerezza per il piccolo Alessandro che tiene sulle ginocchia, guarda altrove, verso una felicità che non coincide neanche per un attimo con gli obblighi familiari.
A Giulia servirono vent’anni per riconciliarsi con il figlio, il tempo di rifarsi una vita all’estero e soprattutto il tempo che quel bambino crescesse, non più peso da accudire ma giovane uomo da portare in società, maritare bene e coinvolgere nella conversazione brillante. Giulia, regina dei salotti illuministi, amava l’arte e l’Europa, odiava sia la casa umida del marito sui Navigli che la residenza campagnola di Lecco, e odiò il padre per averle rifilato quel Pietro, tanto diverso da lei. Lo lasciò per andare a vivere a Parigi col suo nuovo uomo, Carlo Imbonati, bello, ricco e anticonformista; il padre Cesare, con cui aveva sempre avuto un rapporto difficile, morì all’improvviso lasciandole in eredità un cognome e un libro osannato, Dei delitti e delle pene, così che la sua indubbia intelligenza potesse godere di un inattaccabile biglietto da visita per la società francese che tanto le piaceva.
Intanto, in Lombardia, l’ingrigito conte Manzoni subiva la fine di un’epoca: quella del suo secondo matrimonio, ma anche quella di una città assediata, ormai confusa e decadente. Si rifugiava sempre più spesso nella casa di campagna al Caleòt, dove raramente godeva della compagnia del figlio che veniva a trovarlo dal collegio: un bambino non utile ai genitori, una zavorra che ricordava a entrambi l’unione improbabile che li aveva resi infelici. Mi sembra di vedere quel figlio imbronciato e solo, tra le stanze paterne, alla ricerca di uno spazio che gli somigli un po’.

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Non basterebbe quest’immagine a rendere più simpatico agli studenti del secondo superiore, oggi, l’autore del romanzo che sono costretti a studiare? Mille anni prima di diventare il cattolico conservatore di mezza età che li guarda da un ritratto distante, c’era un figlio di separati, un ragazzino goffo e male amato, a caccia di ribellioni che avrebbero potuto aiutarlo a trovare la propria identità all’interno di una variegata famiglia ingombrante. A scuola, dai preti, Alessandro si rifiutava di scrivere con la lettera maiuscola le parole «papa» e «re», era il suo modo di dichiararsi contro, di manifestare un entusiastico illuminismo, ma anche di attirare l’attenzione di genitori distanti fra loro e da lui, presi da sé stessi, una ragazza insoddisfatta che cercava disperatamente di essere felice e un uomo col complesso di mediocrità barricato dentro un piccolo mondo al tramonto.
Le notizie che arrivavano dal collegio suonavano minacciose e amare, impensierivano il padre sulla sorte e la disciplina del suo unico erede, finché, tagliandosi all’improvviso il codino, Alessandro contrariò Pietro definitivamente: se penso al conte che riceve la notizia dagli insegnanti costernati del collegio non posso fare a meno di sovrapporgli l’espressione di mia madre quando, negli anni Novanta, tornai da Londra con il piercing al naso.

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Se neppure le disubbidienze e i dolori del giovane Alessandro convincono i riottosi quindicenni di oggi che l’incubo scolastico per eccellenza è stato uno di loro, bisognerà provare con le parole che Umberto Eco scriveva nel 1983: «C’è di che riconciliarsi con I promessi sposi. Quel signore era forse poco simpatico, malgrado i buoni uffici di Natalia Ginzburg. Ma il libro di quel signore, che bello! Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il professore parla d’altro. Vi invito a una lettura clandestina di Manzoni, come se fosse un libro proibito. Forse lo amerete». Eco chiude così l’analisi del primo capitolo, un’ampia panoramica con carrellata, una discesa a volo d’uccello dai monti al lago con gli occhi di una telecamera d’eccezione: la Provvidenza. Manzoni sta facendo del cinema, insiste il professore per spiegare il motivo di paragrafi tanto lunghi. Capito, ragazzi? Non è sfoggio sintattico buttato lì per appesantirvi con l’analisi del periodo, è la scena iniziale di un colossal.
Ho voglia di godermela quella scena, ora che posso farlo dal vivo, ho voglia di comprare i popcorn camminando di fronte e dentro lo schermo tridimensionale del romanzo, mentre fuggo dalla triste dimora di Pietro, la lascio alle spalle per andare incontro all’acqua lacustre, al ponte Azzone Visconti, il ponte «che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni».
È una tiepida giornata di primavera, c’è la luce nitida e ossidata dei pomeriggi che vengono dopo un accenno di pioggia; le case e i posti che turisti, studenti, professori di lettere e beniculturalisti chiamano «i luoghi manzoniani» mi si snodano intorno in un continuo gioco fra ciò che è reale e ciò che bisogna indovinare, come la “presunta” casa di Lucia. Le presunte case in realtà sono due: una nella frazione di Olate e l’altra in quella di Acquate. Lucia, però, non abita più qui: un personaggio talmente poco contemporaneo che è impossibile rintracciarlo oggi negli sguardi maliziosi e già adulti delle adolescenti. Una ragazza mi dà le indicazioni per Pescarenico, ha la pelle nera e un forte accento lombardo. Ringrazio e mi incammino verso quello che Manzoni descrive come un borgo di pescatori per vedere dal vivo quel che resta di un luogo per qualche tempo sparito, il convento dei Cappuccini nato alla fine del Cinquecento, soppresso nell’Ottocento e da poco restaurato. La chiesa è intitolata ai santi Materno e Lucia, quest’ultima probabilmente aggiunta in omaggio a Manzoni: non trovandosi più Lucie sul territorio, si invocò la santa. Qui stavano i frati Cristoforo e Galdino, alle spalle del monte Resegone; in piazza («piazza Fra’ Cristoforo») un ossario ricorda i francescani morti di peste nel Seicento. Prima che faccia buio, torno verso il centro; lungo i nuovi golfi e seni dell’Adda, gli abitanti di una benestante cittadina lombarda vanno a correre per tenersi in forma dopo il lavoro, o portano i cani a fare i bisogni.

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Alberto Arbasino, che sui Promessi sposi ha scritto una brillante e precisa critica alla mancata carica erotica del romanzo dando a Rodrigo dell’imbranato e a Lucia della grulla, in Lombardia fantasma racconta le coste lecchesi come i luoghi che diedero i natali a Plinio il Vecchio, «quell’inverosimile Borges dell’antichità», nato a Como nel 23 d.C.
Arbasino condensa in poche righe la geografia lacustre con il suo carico di natura e cultura: «Comincia forse da quelle remote Follies pliniane, ai margini dei boschi appena percorsi da Norme e da Druidi, quel freddo delirio barocco settentrionale che inventerà la botanica frenetica della vigna di Renzo e il donchisciottismo bibliografico di Don Ferrante, fra i tanti mulini a vento sventolanti spagnolissimi entro la cerchia dei Navigli; e il riciclaggio della pestilenza in sottoprodotti edificanti all’ombra del nasone di San Carlo Borromeo; e la mnemotecnica penitenziale dei Sacri Monti arredati come Viae Crucis nazional-popolari ai confini della Riforma, con raccordi e svincoli di Passione & Morte e belvedere con pic-nic rustico sul Calvario…».

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In quell’ora in cui l’acqua si fa grigia e i monti si incupiscono, mi muovo fra campanili e alpi scoscese con le ultime promesse di neve in cima; la proverbiale depressione lacustre è amplificata dall’incontro con la depressione di provincia, ben visibile dietro i sorrisi, le borse dello shopping, i tacchi alti al pomeriggio, le passeggiate veloci lungo l’unico rettilineo del corso.
I luoghi manzoniani, a parte le funeree stanze di Villa Manzoni, sono tutti esterni: facciate, profili, prospetti di case private, il contrasto tra il palazzotto di Don Rodrigo e il castello dell’Innominato, ovvero il castello di Samasca. Quest’ultimo, fuori città, sovrasta il lago, mentre il primo ci si nasconde in mezzo; la differenza emblematica fra i due proprietari viene fuori fin dai nomi, il «castellaccio» e il «palazzotto» («castellotto» in Fermo e Lucia, a rimarcarne la cuginanza), l’imponenza principesca e la feudalità rurale. Alessandro Manzoni non descrive mai niente per uno scopo decorativo, sconosce l’ornamento statico dello stile, rappresenta per narrare un’azione, un distacco o un sentimento, così nel raccontare le due dimore ci spiega che Rodrigo si mischia col popolo per far pesare la sua superiorità, è un prepotente e un ostentatore, mentre l’Innominato fugge la folla per bearsi della solitudine che solo la ricchezza può dargli. Rodrigo è un provinciale, l’Innominato un vero uomo di potere. Eppure com’è umano quel provinciale grezzo, dai desideri capricciosi, che si invaghisce di una donna senza avere il coraggio di andarsela a prendere, né l’ossessione che lo porterebbe a tormentarla di persona, preferendo delegare ogni mossa a un’altra strada, al bivio dei Bravi, a minacciare un parroco senza arte né parte (e ha ragione Arbasino a sottolineare che il suo comportamento non è per nulla erotico, né romantico).

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Nell’aria nebbiosa della sera, avviandomi verso il ristorante indiano, resta il rimpianto degli interni che posso solo immaginare. Secondo Italo Calvino, I promessi sposi, il romanzo degli illetterati, ha una trama sottotestuale molto forte tutta incentrata sulle biblioteche. La parola scritta è minacciosa e negativa, la cultura è corruzione, saper leggere e scrivere rimane il modo migliore per imbrogliare: Azzecca-garbugli parla difficile per intimorire i clienti e truffare la legge, la biblioteca di don Ferrante è il museo della falsa scienza, mentre è un po’ più aperta l’Ambrosiana fondata da Federigo Borromeo. Calda, seppur limitata, la biblioteca del sarto che ospita Lucia dopo la conversione dell’Innominato, esempio di casa popolare dove l’editoria ha bussato per lasciare solo tre libri, i best seller dell’epoca: il Leggendario dei santi, il Guerrin Meschino e i Reali di Francia.
Allora devio, rubo altro tempo e faccio un giro per le librerie di Lecco, me ne piacciono soprattutto due: la sezione dell’usato in una di catena, dove mi carico a dismisura di classici e non resisto a un cd di Paolo Poli che legge I promessi sposi (lo sto ascoltando anche adesso mentre scrivo), e la bellissima neonata libreria Volante, fondata da due trentenni, Serena e Andrea. Fuori dalla porta ci sono libri appesi per la collottola, volanti per l’appunto, la libreria si trova in una piccola strada secondaria e mi sembra un ottimo trucco per incuriosire i passanti; dentro, Serena ha creato uno scaffale per l’Italian Book Challenge, la sfida dei lettori che in un anno vogliono leggere cinquanta libri che rispondano a cinquanta categorie diverse, alcune più banali (un libro pubblicato nel 2016, uno che ti faccia ridere) e altre più creative (uno in cui il protagonista faccia il tuo stesso lavoro, uno che racconta un fallimento). Ogni lettore sceglie per sé, ma Serena ha avuto l’idea di suggerire cinquanta titoli diversi tra cui pescare, che immagino modifichi di settimana in settimana con i nuovi arrivi.
Ce ne sono molti, e interessanti, ma il romanzo di quel signore concittadino non c’è, continua a dover essere letto di nascosto, a scontare la colpa di essere studiato ogni anno per volontà ministeriale. Eppure è talmente versatile che potrebbe stare in molte di quelle categorie: è scritto da più di cento anni, fa ridere, parla di libri, racconta un viaggio, ne è stato tratto un film, è ambientato nella tua regione… Tutti i lettori lecchesi che hanno più di quindici anni potrebbero usarlo per partecipare al gioco proposto dai librai, e invece niente. L’anatema dell’imposizione scolastica colpisce ancora, non si riesce proprio a liberarlo dal ruolo, a considerarlo un libro come gli altri. Un po’ perché non lo è, come non lo sono Ivanohe e Don Chisciotte. Voglio dire, non puoi inventare il romanzo moderno e poi cercare di mimetizzarti: resterai il totem monumentale che i giovani scrittori vogliono abbattere, convinti che la tradizione non contenga eroi sufficientemente ribelli con cui identificarsi.
Forse solo il libro Cuore di De Amicis si è preso più invettive dei Promessi sposi, chissà don Lisander che direbbe del paragone, chissà che direbbe di questo fatto curioso, di aver scritto il romanzo più importante degli ultimi secoli, quello da cui non si può prescindere e che quindi nessuno ha voglia di nominare. A parte, s’intende, qualche coraggioso come l’ingegner Gadda, che ne era ossessionato. Racconta Pietro Citati che in punto di morte gli chiese di leggergli e rileggergli l’ottavo capitolo, la notte degli imbrogli in cui succede tutto, i cattivi tramano e i buoni anche, si consuma il distacco dal paese natio, si prova l’intera gamma dei sentimenti dalla paura al dolore. È facile immaginare che, mentre stava per lasciare questo mondo, Gadda per rimanerci attaccato chiedesse aiuto al sussulto dei colpi di scena, all’ansia divoratrice che ti fa chiedere soltanto come va a finire la storia quando non vuoi pensare a come va a finire la vita. Mangio indiano e penso che una giornata è poco, è nulla per capire Lecco, figuriamoci per ripensare la geografia di un monumento come I promessi sposi, domani devo ripartire presto, prima o poi voglio prendermi un altro giorno per tornarci con calma. Il punto, con don Lisander, è che questo giorno dura da più di vent’anni, periodicamente riapro il suo romanzo e torno a farci i conti, l’ultima me lo sono portato dietro sulla Salerno-Reggio Calabria, sbirciandolo sul sedile posteriore di una macchina accanto a mia cugina quindicenne. Che, ovviamente, leggeva un best seller contemporaneo e mi guardava inorridita.
Quando mi chiedono perplessi, increduli, ma davvero quel libro ti piace tanto?, quando mi guardano come se li stessi prendendo in giro, quando mi confessano per l’ennesima volta di averlo subito a scuola e averne avuto rigetto, di aver provato a rileggerlo da soli e non averci trovato nulla di speciale, confesso di essere stata fortunata, per averlo scoperto e amato presto, da sola.

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Oggi si classificano gli scrittori dividendoli fra quelli che preferiscono la trama e quelli che scelgono la lingua, e spesso lo si fa sottintendendo che una è a discapito dell’altra, come se a un narratore corresse l’obbligo di impoverire il linguaggio e un devoto dello stile potesse permettersi di fare a meno di far capitare nella sua storia eventi che seducano l’attenzione del lettore. Quando si afferma che uno scrittore inventa una lingua, di solito è una banalità: tutti i libri ne inventano una o più d’una, bisogna vedere quanto poi saranno condivise al di là dei loro venticinque lettori. Alessandro Manzoni l’italiano l’ha inventato per davvero, e inventandolo sceglieva di scrivere per tutti, distanziandosi dai dialetti per finire ovunque, anche nella biblioteca di un piccolo sarto di Lecco, senza rinunciare a costruire un grande romanzo storico e insieme d’amore, di formazione e d’avventura, dove trovano posto l’etica e la poesia, l’ironia e la compassione.
L’estate prima del mio quinto ginnasio trovai in casa una copia dei Promessi sposi non commentata, scritta in corpo piccolissimo e anche bruttina. Ero spaventata all’idea che mi sarei annoiata a leggere un solo romanzo, che per altro non mi ispirava affatto, e che quel tedio mi avrebbe tenuta occupata per tutto un lunghissimo anno tenendomi lontana dai miei fumetti e dalle riviste per adolescenti che mi piacevano, così decisi di prendere il programma scolastico in contropiede attaccandolo da sola, con la segreta e secchiona speranza di portarmi avanti con lo studio. Quattro giorni dopo ero ancora sul divano, incollata a quelle pagine. Lo lessi come leggevo i romanzi per ragazzi, come avevo letto L’isola del tesoro, La figlia del capitano e i primi gialli di Agatha Christie. Lo lessi di nascosto, clandestinamente, senza interrogazioni e senza apparato critico, e forse è troppo tardi per dire al professor Eco che aveva ragione da vendere: funziona lo stesso, anzi di più.
L’autrice
Nadia Terranova è nata a Messina nel 1978 e vive a Roma. Con il romanzo Gli anni al contrario (Einaudi Stile Libero, 2015; premio Bagutta Opera Prima, premio Brancati, premio Grotte della Gurfa, premio Fiesole) ha narrato la storia di Giovanni e Aurora, una coppia che, dopo aver attraversato la stagione dei movimenti degli anni Settanta nel cuore della provincia meridionale, non riesce a sopravvivere agli anni del riflusso.
Giovanni e Aurora non riescono a oltrepassare insieme gli anni Ottanta, non sapendo trovare un nuovo equilibrio nella loro relazione, né potendo elaborare un rapporto diverso con la propria città, Messina, e il mondo circostante.
Nadia Terranova è anche autrice di libri per ragazzi: Caro diario ti scrivo (Sonda, 2011), Storia d’agosto, di Agata e d’inchiostro (Sonda, 2012), Le mille e una notte (La Nuova Frontiera Junior, 2013) e Le nuvole per terra (Einaudi Ragazzi, 2015), in cui gli adolescenti scoprono a tentoni i propri sentimenti, non trovando più negli adulti un modello in grado di spiegare loro come e perché ci si innamora.
Con Bruno il bambino che imparò a volare (Orecchio Acerbo, 2012, illustrazioni di Ofra Amit; premio Napoli, premio Laura Orvieto), ha raccontato l’infanzia dello scrittore ebreo Bruno Schulz, autore di Le botteghe color cannella, ucciso nel 1942 dalla Gestapo.
Ha tradotto dall’inglese tutti gli adattamenti a fumetti dei romanzi di Jane Austen per la Marvel, e ha scritto la prefazione dell’edizione Oscar Mondadori Junior di Orgoglio e pregiudizio.
Il romanzo Gli anni al contrario è in corso di traduzione in Francia, mentre Bruno il bambino che imparò a volare è stato tradotto in Spagna, Messico, Lituania e Polonia.
Tiene regolarmente laboratori di scrittura nelle scuole e nelle biblioteche. Collabora con diverse riviste, tra cui IL Magazine, il mensile del Sole24ore, Internazionale, Rivista Studio.

"Pagina 99", 30 aprile 2016


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