4.3.17

Rossi e divisi. L'Internazionale operaia e socialista tra le due guerre (Nicola Tranfaglia)

Pietro Nenni
Un paradosso, a prima vista inspiegabile, caratterizza gli studi storici sul movimento operaio e internazionale tra le due guerre: dopo il 1945 si è accumulata un’immensa serie di studi e di ricerche sull'Internazionale comunista mentre ancora poco e male si conosce l’Internazionale operaia e socialista. Eppure oggi sono proprio i partiti socialisti, le socialdemocrazie di varia tendenza che dominano la scena in Occidente e contendono il potere ai partiti cattolici o conservatori, mentre i partiti comunisti — se si eccettua, almeno in parte, il caso italiano — attraversano una fase di declino, legata soprattutto all’incapacità di analizzare i mutamenti della società industriale e di adeguare ad essi la propria azione politica.
Sappiamo tutto, insomma, sulla Terza Internazionale, sciolta ormai da più di quarant’anni, e non possediamo che memorie e studi parziali sull'organizzazione dei partiti socialisti ancora viva e vittoriosa (almeno in Occidente) dopo la seconda guerra mondiale.

Il ruolo di Nenni
Le ragioni del paradosso ci sono spiegate da Enzo Collotti nelle pagine iniziali degli Annali Feltrinelli, dedicati appunto a L’Internazionale operaia e socialista tra le due guerre (pagg. 1240) quando afferma che «la capacità di mobilitazione politica di larghe masse, l’intensità del dibattito politico e ideologico che percorse la Terza Internazionale, la sua stessa capacità di espressione propagandistica ne fecero una protagonista di primo piano nella storia del movimento operaio internazionale, le cui vicende sono entrate a far parte della tradizione e della memoria dei partiti comunisti rafforzatisi nei movimenti di resistenza nel corso della seconda guerra mondiale o giunti al potere in conseguenza ai essa». Ma a queste ragioni occorre aggiungerne un’altra di pari importanza: ed è che la crisi del primo dopoguerra in Europa si era conclusa con vincitori e vinti e se i primi erano in alcuni paesi i fascisti e in altri i conservatori, gli sconfitti erano stati dovunque i socialisti, dall'Italia alla Germania, all’Inghilterra e alla Francia. I comunisti, invece, erano apparsi troppo tardi sulla scena perché si potesse attribuire loro il peso del crollo.
Di qui, ad ogni modo, una sproporzione impressionante nell’attenzione dedicata dagli storici alle vicende e ai personaggi di quel ventennio: lo stesso ampio volume curato da Collotti non si propone affatto di colmare le grandi lacune esistenti, bensì di costituire un solido punto di partenza per le ricerche che dovranno svilupparsi nei prossimi anni.
Un primo risultato interessante riguarda l’analisi del modello di socialismo cui guardarono negli anni Venti e Trenta i partiti socialisti europei. Di fronte al mito crescente e contraddittorio dell’Unione Sovietica come «patria del socialismo» - mito che non dominava soltanto i militanti comunisti, ma anche una serie di intellettuali d'ogni paese vicini alla sinistra (basti ricordare il libro famoso dei coniugi inglesi Webb sull’Urss, che ne diede un’ immagine idilliaca e inattendibile) - era difficile opporre singole esperienze riformatrici e amministrative, come quelle, appunto, che potevano vantare le varie socialdemocrazie.
Nacque così e si diffuse straordinariamente il mito della «Vienna rossa», della capitale austriaca governata, fino al colpo di Stato clerico-fascista del 1934, da una social-democrazia attiva e originale, intenta a costruire un modello alternativo rispetto a quello sovietico, se pure in dimensioni assolutamente non confrontabili. E alla «Vienna rossa», Enzo Collotti dedica negli Annali Feltrinelli una ricerca approfondita che chiarisce molti punti essenziali di quell'esperienza e lo conduce a conclusioni ancora problematiche: «Il successo della socialdemocrazia viennese», egli osserva, «viveva anche e si moltiplicava sulla base di quello che Vienna aveva già costruito. Il segnale che l'esperienza viennese lanciava significava che era possibile cambiare le cose, ma non era un segnale né sui tempi brevi né applicabile indiscriminatamente in ogni circostanza». Fu insomma un’esperienza strettamente legata alla storia della città e della prima repubblica austriaca, non un modello estensibile ad altri paesi.
Un altro capitolo significativo della vicenda dell’Internazionale operaia e socialista è quello dedicata al ruolo di Pietro Nenni e del Psi di fronte alla situazione intemazionale, ai riarmo e alla guerra che si avvicinava. In alcune ricerche (coordinate tra loro) di Bruno Tobia, Mario Mancini e Leonardo Rapone viene ricostruito con precisione il dibattito che si apre negli anni Venti e va avanti fino alla svolta dell’impresa d’Etiopia e della guerra civile di Spagna sul «che fare» di fronte alla politica dei paesi fascisti, Italia e Germania. Emerge così in modo assai netto l'esistenza nell'Intemazionale socialista di due tendenze contrapposte: l’una — che fa capo soprattutto al partito socialista francese e al Labour Party — appiattita sulla politica conservatrice di «appeasement»; l’altra, in cui ha gran parte Nenni, ma anche Otto Bauer, che fino alla metà degli anni Trenta cerca inutilmente di sottolineare la natura fatalmente aggressiva dei fascismi e la conseguente necessità di non cedere, di prepararsi a uno scontro decisivo per l’avvenire della democrazia.
Dalla ricostruzione di quegli anni si ricava la sensazione prepotente di un assedio cui le socialdemocrazie non riescono a far fronte. Da una parte c’è il mito del socialismo sovietico che tarda a rivelarsi per quello che è in una fase di intensa trasformazione industriale della Russia, che costa lacrime e sangue ma sembra andare nella direzione di un innegabile progresso economico-sociale; dall’altra l'ondata conservatrice che si impadronisce dell’Occidente e porta alla ribalta uomini deboli come Chamberlain, o disposti, in tutto e per tutto, a colludere con i fascisti, come il francese Daladier. Così i socialisti sono soli e si dividono: quello di Angelo Tasca e delle sue incertezze di fronte a Vichy è un caso estremo (non l’unico) che rivela una situazione di intenso disagio e difficoltà.

Domande irrisolte
Ma l’interesse del volume curato da Collotti sta anche nell’apertura di fronti nuovi alla ricerca sul socialismo internazionale. Penso ai saggi di Tony Judt e Patrizia Dogliani sulla struttura sociale dei partiti socialisti dopo la prima guerra mondiale (quello francese, in particolare) e sui quadri e sull’organizzazione dell’Internazionale. Penso, ancora, alla ricerca assai fine condotta da Alfredo Salsano sugli «ingegneri e il socialismo» negli anni Trenta, quando il «planismo» di de Man e il «taylorismo» sociale americano attraggono molti giovani dirigenti dei partiti socialisti presentandosi come una «terza via» tra il capitalismo liberista e la pianificazione rigida praticata dall'Urss.
Salsano osserva, a ragione, che è ancora in buona parte da ricostruire «la storia della risposta che ebbe il planismo nelle varie componenti del movimento socialista e operaio europeo» e che ancora oggi su ciò pesa negativamente il destino personale di de Man, divenuto collaborazionista dei nazisti. Ma proprio il suo lavoro dimostra che per rispondere a questa e ad altre domande ancora irrisolte è necessario dedicare meno spazio all'analisi del dibattito ideologico e più attenzione alle concrete esperienze di governo e di azione politica dei socialisti tra le due guerre mondiali.

"la Repubblica", ritaglio senza indicazione di data, ma 1983

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