4.3.17

Piemontesi in Sicilia. Sul pamphlet di Francesco Ingrao (Andrea Camilleri)

Mi è capitato più volte di dichiarare, e di scrivere, che non ho testa di storico e difatti appena mi trovo davanti a qualche vecchia carta che suscita il mio interesse, invece di tuffarmi in biblioteche e archivi per ricercare pezze d’appoggio, conferme e smentite, parto per una tangente d’invenzione e di fantasia che niente ha da spartire col doveroso rigore storico. Allora perché mi trovo a parlare, a modo mio s’intende, di Francesco Calogero Ingrao? In primo luogo perché egli appartiene a quei siciliani che tentarono di cambiare con lo scopo dichiarato di cambiare veramente tutto e non a quelli che dicevano di cambiare per non cambiare niente del tutto, secondo l’idea che il nipote Tancredi esprime al principe di Salina e che avrà fortuna mondiale.
A tentare di cambiare veramente non sono i nobili siciliani. Il loro tragicomico agire durante lo sbarco dei briganti garibaldini, rappresentando questi nobili il vero potere basato sulla ricchezza, farà si che la Sicilia uscirà quasi subito dal flusso della Storia. In quello splendido romanzo che è I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, una specie di summa della delusione storica e culturale post-risorgimentale in Sicilia (ma anche in Italia), viene narrato che il principe don Ippolito Laurentano, per attestare la sua fedeltà al Regno delle Due Sicilie, allo sbarco di Garibaldi s’asserraglia nel suo feudo di Colimbetra guardato da venticinque uomini in divisa borbonica comandati da un caporale promossosi capitano, Sciaralla. Quando questo Sciaralla usciva da Colimbetra a cavallo di una decrepita giumenta bianca, uno scapestrato giovane gli cantava dietro:
Sciarallino, Sciarallino,
dove vai con tanta boria
sul ventoso tuo ronzino?
Sei scappato dalla Storia,
Sciarallino, Sciarallino?

Ecco, su quella decrepita giumenta dalla Storia non scappava solo Sciaralla, ma scappavano tutti i principi, i marchesi, i duchi, i baroni siciliani, tutta la nobiltà scappava dalla Storia rifiutando di contribuire a ogni possibile sviluppo, a ogni possibile progresso. Quelli che non montarono sulla giumenta e disperatamente tentarono di cangiare lo stato delle cose non erano nobili, ma appartenevano qualche volta alla media e assai più spesso alla piccola borghesia, erano avvocati, medici, piccoli proprietari.
Essi si trovarono a combattere su più fronti. Contro i borbonici di sempre, contro i preti che perseguivano una loro costante e sotterranea politica antitaliana, contro i disillusi postunitari per le mancate attuazioni delle promesse di Garibaldi (Grotte, il paese di Francesco Ingrao, voleva cambiar nome e chiamarsi Garibaldi, ma il prefetto, o quello che era, non autorizzò), contro il governo e le sue forze dell’ordine, contro la dissennata politica economica del governo italiano, che nei riguardi della Sicilia si traduceva in un costante ampliamento della povertà da una parte e, dall’altra, politicamente, in un rigurgito di sentimenti antiunitari.
Il cahier des doléances non è un quaderno, ma un tomo alto e spesso, nel quale si può cogliere fior da fiore. Scegliamone qualcuno.
Il raddoppio dell’imposta fondiaria, appena cinque anni dopo l’Unità, dal 10 al 20%. Il che comportò, tanto per fare un esempio, che a Chiaromonte Gulfì, in un solo anno, andarono all’asta ben 129 medie e piccole proprietà e che a tutti i contadini insolventi anche per cifre inferiori a lire 5 vennero espropriati e messi all’asta i campicelli, gli orti che erano la loro unica fonte di sopravvivenza. Il dazio sui consumi, dopo appena un decennio, pesò sui cittadini dei comuni siciliani il 6,22% (in Lombardia si fermò al 2,88). La tassa di famiglia in Sicilia rese allo Stato, nel 1880, 1.528.000 lire. Dalla Lombardia invece vennero solo lire 637.000. La tassa sulle bestie da soma dalla Sicilia rese, nello stesso periodo, 653.000 lire. Dalla Lombardia lire 17.000 (sid). L’odiata tassa sul macinato, che Garibaldi si affrettò ad abolire appena messo piede a terra a Marsala, venne ripristinata la settimana appresso, riabolita, rimessa e aumentata. In meno di un decennio, gli oltre quattromila telai in funzione si ridussero a meno di un terzo.

Poi ci fu la faccenda gravissima dell’introduzione della leva obbligatoria, inesistente coi Borboni. La leva obbligatoria, dalla quale era esentato chi era in grado di corrispondere una congrua cifra e che durava anni, si risolveva sostanzialmente in un’altra gravosa tassa sulla povera gente e sul bracciantato agricolo. Alle famiglie venivano portate via braccia-lavoro preziosissime perché nel pieno delle forze. Un grafico riportato nella Storia economica della Sicilia di Di Stefano e Oddo, visibilmente dimostra lo spaventoso decremento delle nascite: non si facevano più figli perché tantose li pigliava lo Stato. I coscritti erano accompagnati al Distretto dai familiari vestiti a lutto come per un funerale.
Poi c’era la continua provocazione, non saprei come altrimenti chiamarla, dello stravolgimento delle leggi che potevano portare un minimo di beneficio ai contadini. Un esempio lampante ne è la legge preparata da Friscia in base alla quale i terreni di proprietà ecclesiastica, sui quali era stata applicata l’enfiteusi forzosa, venivano assegnati ai contadini in base al sorteggio. Nella discussione alla Camera, prevalsero invece le tesi di Ugdulena e di Corleo, siciliani si badi bene, i quali sostennero testualmente che la proprietà terriera non era buona per coloro che non avevano i mezzi per coltivarla e che non si poteva dar terreno a basso costo ai nullatenenti. E così il provvedimento, concepito come strumento popolare a favore dei contadini, si stracangiò in uno strumento borghese di arricchimento e di accumulazione.
Poi ancora c’era, e violenta, la repressione del cosiddetto brigantaggio. Non mi dilungo sull’argomento, ma uno specchietto del 1865, a cura del Comando di Capua, specifica la condizione sociale dei ‘briganti’ giudicati (degli oltre 1500 ammazzati non fa parola). Studenti ed esercenti arti liberali: condannati 19, assolti o rimessi ad altra giurisdizione 43. Operai: 73, 248. Negozianti: 18, 220. Contadini: 717, 2420. Possidenti: 93, 947. Cocchieri, facchini: 14, 62. Religiosi: 50, 5. Senza professione: 42, 465. Vi par proprio che sia 1 ideale composizione di bande di briganti? Va ripetuto che i cosiddetti briganti nella gran parte non arrivarono a giudizio, vennero fucilati prima senza processo, secondo l’ordine di Minghetti ai suoi generali di spargere nel Sud, e non solo in Sicilia, un «salutare terrore. E l'ordine del generale Dalla Chiesa (il nonno di Carlo Alberto Dalla Chiesa) ai suoi uomini è, su questa linea repressiva, illuminante: «Mettete a fuoco le case dei contadini, dentro vi troverete più fucili che pane».
Scrive e sintetizza così Pirandello, sempre ne I vecchi e i giovani, quello che capitò in Sicilia negli anni della ribellione e dell’attività cospirativa di Francesco Calogero Ingrao: “E qual rovinio era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed eran calati i continentali a incivilirli, calate le soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, l’ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di lui ad Aspromonte, e quell’altro tenentino savojardo Dupuy, l’incendiatore, calati tutti gli scarti della burocrazia, e liti e duelli e scene selvagge, e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi, questo il primo governo della Destra parlamentare!”.
Vorrei anche aggiungere che l’altro motivo che mi ha spinto a parlare di Francesco Ingrao è che il suo secondo nome è Calogero. Non è il caso di sorridere: anche il mio secondo nome è Calogero. San Calogero è, da tempo immemorabile, il santo più amato dalla povera gente, da quella miserrima, malata, senza speranza, in tutta la provincia di Agrigento (ai tempi di Francesco Calogero, Girgenti). Dare al proprio figlio, quale secondo il nome di san Calogero, significa per lo meno vocarlo a una particolare attenzione ai diseredati, agli umili, agli oppressi. Non mi dilungherò nell’a-giografia, vi dirò solo che dal 1946, al mio paese, Porto Empedocle, la statua del santo è tenuta non in Chiesa, ma nella Casa degli scaricatori portuali e da lì esce per essere portata in chiesa nel giorno d’inizio della sua tumultuosa, popolarissima festa. Nei primi anni del secondo dopoguerra il simulacro del santo, di pelle nera, stava tra due ritratti: quello di Stalin e quello di Giuseppe Di Vittorio.
§
Francesco Calogero Ingrao nasce nel gennaio 1843 da una famiglia borghese di idee «cautamente democratiche», come scrive Cantarano nel suo saggio introduttivo, a Grotte, in provincia dell’allora Girgenti. Grotte, con i limitrofi Comitini, Favara, Aragona, faceva parte, a metà dell’Ottocento, del più grande bacino zolfifero siciliano. Un’inchiesta di Vittorio Savorini sulle Condizioni economiche e morali dei lavoratori nelle miniere di zolfo, che risale a quando Ingrao è nel pieno della sua attività politica, ci dice che nelle 72 miniere prese in considerazione lavorano 69 capi-mastri, 110 tra catastieri, pesatori e scrivani, 956 picconieri, 2626 carusi, 114 donne. La media dei salari giornalieri era la seguente: capimastri lire 3, picconieri lire 2, donne 0,70 centesimi, carusi da 7 a 15 anni centesimi 0,85 (ma alcune miniere pagavano anche 0,35 centesimi o lire 1,25 oltre gli undici anni d’età).
I carusi erano bambini, in gran parte dai 7 ai 12 anni, che dalle profondità delle gallerie portavano a spalla fino all’aperto, al posto di fusione, i sacchi contenenti lo zolfo estratto. Essi erano uno strumento del picconatore (pirriaturi, in dialetto) alla stessa stregua del piccone e della pala. Questi bambini schiavi venivano ceduti dalle famiglie ai picconatori con un sistema detto «soccorso morto», consistente nell’anticipare al massimo cento o duecento lire alla famiglia avendone in cambio l’uso del bambino. Scrive Savorini: “È a causa di questo preesistente debito che il caruso non riceverà altro che acconti e quel che è peggio quasi sempre in natura, che sono tra gli zolfatai chiamati spesa, e consistono in farina di grano, in olio e spesso in solo pane. E questi generi, sempre di pessima qualità, sono poi conteggiati a un prezzo superiore.
Dal lavoro in miniera, il caruso resterà segnato per tutta la vita. Oltre a subire innumerevoli abusi sessuali non denunziati e violenze d’ogni tipo, lo schiavo caruso comincia a patire di malattie agli occhi, di rachitismo, di deviazione della colonna vertebrale. Riporto una tabella dal Savorini che riguarda la leva del 1875 nei quattro paesi che ho citato, Grotte, Favara, Comitini, Aragona. Iscritti alle liste: 482; zolfatai 203; Abili 81; Inabili (tutti appartenenti al distretto minerario): 6 per gracilità, 6 per deviazione della colonna vertebrale, 52 per rachitismo. Gli altri, rivedibili. Un altro specchietto interessante dello stesso periodo ci fa conoscere che a Grotte quelli che sanno leggere e scrivere anche rudimentalmente sono il 17,07%, a Favara il 22,06, a Comitini il 33,03 e ad Aragona il 14,09.
Questo il contesto nel quale opera l’impegno politico di Francesco Calogero Ingrao, mazziniano, massone, cospiratore. Nel 1863, ventenne, fonda col fratello e altri studenti liceali a Girgenti una società segreta massonica, «I Discepoli di Dante». Giustamente Cantarano sottolinea nel saggio introduttivo come nel documento costitutivo della società sia particolarmente sottolineata l’attenzione da riservare alle donne e ai fanciulli, «nonché — scrive Cantarano — al ruolo che l’educazione può svolgere per il progresso sociale e civile del popolo». E i fanciulli che Ingrao ha in mente sono certamente i carusi delle miniere. Non gli usciranno più dalla memoria, cercherà per loro ogni mezzo di riscatto. Ancora nel 1884 sottoscriverà una proposta lanciata da un giornale di Comitini, «La Sigaretta», per la costituzione di una banca privata che possa impedire la vendita dei carusi elargendo modeste somme alle famiglie, fatto l’obbligo, però, che questi fanciulli possano studiare, invogliati anche da piccoli premi in denaro.
Dunque il giovanissimo studente cospiratore pone al centro del suo interesse la promozione del ruolo della donna nella società e la fondamentale importanza dell’istruzione: due temi che, assieme al suffragio popolare tornano interi nel libro che scrive nel 1876, La bandiera degli elettori italiani, quando oramai non è più un rivoluzionario ricercato dalla polizia ma il sindaco riformista di Lenola, il paese dove ha messo su famiglia. Voglio dire, in altre parole, che lo sguardo di Francesco Calogero Ingrao è uno sguardo che non si limita al presente, ai problemi contingenti, ma spazia con lucidità e coerenza, al possibile futuro delle classi più povere. E non con modi astratti o utopistici. Francesco Calogero Ingrao, a differenza di altri, si muove con i piedi per terra. Cerca subito i collegamenti giusti, si lega d’amicizia col medico Saverio Friscia, figura prestigiosa della sezione siciliana dell’Internazionale e futuro deputato al Parlamento.
La vita di Ingrao sembra essersi svolta in due parti.
La prima contempla cospirazioni, latitanze, arresti, accuse anche gravi quali «congiurare la forma di governo ed eccitare i cittadini contro i poteri dello Stato» e di «omicidio volontario consumato e omicidio volontario mancato» per l’uccisione di un carabiniere e il ferimento di un altro. La seconda parte è una sorta di distacco dalla politica che non significa però disimpegno. Caduto Minghetti e andata al potere la sinistra, il neopresidente Depretis pronuncia il suo primo discorso e sembra accogliere quasi tutte le istanze di Ingrao: abolizione della tassa sul macinato, istruzione elementare gratuita, estensione del suffragio popolare, più ampia autonomia alle amministrazioni comunali. Talché l'Apostrofe alla Sinistra, che chiude La bandiera degli elettori italiani, oltre ad essere una sorta di intenso memorandum sui compiti che attendono la Sinistra, è una specie di passaggio del testimone. «Una calma è sottentrata negli animi agitati - scrive Ingrao - e ogni amico del progresso sente il dovere di attendere e sperare.»
Quanto sarà stata lunga l’attesa d’Ingrao? Quanto forte la speranza? Che accade intanto nella sua Sicilia dove continua a battere il suo cuore? Cito ancora Pirandello, da I vecchi e i giovani. “E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia, e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali, spese pazze, cortigianerie degradanti, l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori...”.
No, meglio proteggersi da nuove e forse non più sopportabili disillusioni, meglio non sentire che nella sua Grotte più di mille minatori hanno fatto sciopero, sono scesi in piazza, meglio far finta di non sapere che sempre nella sua Grotte si è costituito il Fascio dei lavoratori, il diciannovesimo tra i 177 Fasci siciliani. Meglio immergersi e perdersi nella concretezza quotidiana dell’amministrazione comunale, meglio, assai meglio, dare gratis ai bambini poveri di Lenola i libri di scuola perché, almeno loro, possano studiare, imparare, crescere, vivere da uomini.

“la rivista del manifesto”, n. 20, settembre 2001 - Il testo riproduce la presentazione del volume di Francesco Ingrao (La bandiera degli elettori italiani, Sellerio 2001) pronunciata da Andrea Camilleri, il 26 giugno 2001, alla Casa delle Letterature, in Roma.



Nessun commento:

statistiche