4.3.17

La morte di Roman Jakobson. Era l’ultimo Grande Vecchio (Umberto Eco)

E ora di restituire all’espressione ’’grande vecchio” il suo significato positivo: non di occulto manovratore di trame terroristiche, ma appunto di grande vegliardo la cui figura ha dominato il nostro secolo e gli ha dato una fisionomia. Di grandi vegliardi ne potremmo ricordare molti, dalla politica all’arte militare, dalla finanza alla religione. Ma qui si sta pensando ai grandi formatori dell’arte e del pensiero, a coloro che attraverso la loro opera creativa o le loro teorie ci hanno insegnato a guardare al mondo in modo diverso. E per essere definito un grande vecchio occorrono, ci pare, due caratteristiche: essere arrivato alla età più tarda, sempre attivo, sempre guardato come modello anche dai giovanissimi, mirabilmente sopravvivendo alla propria fama; ed avere influenzato i contemporanei al di là della propria attività specifica, da un lato esercitando una visione interdisciplinare, dall’altro avendo fatto qualcosa nel proprio campo che ha obbligato tutti, in ogni campo, a pensare diversamente.
Nella seconda metà di questo secolo abbiamo visto spegnersi molti di questi giganti: a partire da Einstein, per arrivare a Picasso, da Bertrand Russell a Strawinsky. Erano la coscienza di un’epoca, i protagonisti della civiltà contemporanea: dopo il loro passaggio non si poteva più pensare come prima. Vivi, erano la testimonianza di una grandezza e di una energia vitale difficile a spegnersi. Man mano che muoiono ci guardiamo intorno, scrutando nel volto i cinquantenni, i sessantenni, i settantenni di oggi, chiedendoci se in loro stia crescendo qualche grande vecchio di cui non indoviniamo ancora tutta la grandezza, col timore che la stirpe si sia estinta. Pochi giorni fa è morto uno degli ultimi grandi vecchi del secolo. Si chiamava Roman Jakobson, era nato a Mosca nel 1896. Era passato attraverso gli esperimenti delle scuole formaliste, dei circoli poetici moscoviti, aveva collaborato con Eisenstein, tra il periodo moscovita e quello praghese aveva contribuito a fondare una mezza dozzina di discipline che oggi si insegnano nelle università, dalla linguistica strutturale alla poetica, dagli studi etnologici alla nuova critica. Sottrattosi allo stalinismo, sfuggito per miracolo nel 1939 ai nazisti, emigrato in America, aveva intuito i legami tra scienza linguistica e teoria matematica dell’informazione, aveva dato idee a Levi-Strauss per la nuova antropologia strutturale, aveva affrontato dal punto di vista linguistico problemi di neurofisiologia (dai suoi studi magistrali sull'afasia ai recentissimi scritti sulle due metà del cervello umano). Aveva ispirato una nuova generazione di analisti della letteratura, aveva dato un impulso decisivo alla nascita della semiotica, aveva trovato l’anello mancante per congiungere la scienza dei segni così come si era formata nei secoli alle ricerche degli strutturalisti, da un lato, e al pensiero del grande logico e filosofo della seconda metà dell’Ottocento, Charles Sanders Peirce, dall’altro.
Non era famoso presso l’uomo della strada come Picasso o Einstein: ma apparteneva alla stessa razza. Tutti avevano imparato qualcosa da lui: e a ottantacinque anni cercava ancora di imparare qualcosa da tutti. Una sua bibliografia pubblicata dieci anni fa comprendeva seicentotrenta titoli, in tutte le lingue note e ignote: ciascuno di questi testi aveva fecondato un ramo delle scienze o delle arti. Innumerevoli le leggende che lo riguardano. Nel ’39, fortunosamente ospitato su un battello che fuggiva per il Mare del Nord, aveva occupato il periodo del viaggio, angosciato e fortunosissimo, ricostruendo la grammatica di non so più quale lingua minore. Interrogato perché l’avesse fatto, rispondeva: «E che altro potevo fare?». Anni fa un professore ormai celebre, suo antico studente (tra i ragazzini che hanno studiato con lui ci sono uomini come Chomsky) lo andò a trovare e in un momento di commozione gli disse: « Maestro, anche tra duecento anni molte delle vostre scoperte rimarranno fondamentali!». Jakobson ringraziò con modestia, rimase un momento sovrapensiero, poi domandò preoccupato: «Molte? Dove ho sbagliato?». Era l’ultimo dei grandi vecchi.


L’ESPRESSO - 15 AGOSTO 1982  

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