5.3.17

Il debito dei singoli e degli stati. Un furto in nome del libero mercato (Benedetto Vecchi)

Due libri:
«Debt» 
di David Graeber 
e «La fabbrica dell’uomo indebitato» 
di Maurizio Lazzarato, 
analisi e proposte per sovvertire 
la logica del debito 
imposta dal capitalismo
David Graeber è un antropologo che non ha mai nascosto il suo anarchismo politico. Attivista nei movimenti sociali ha passato gran parte dello scorso autunno a Zuccotti Park, partecipando attivamente all’esperienza di Occupy Wall Street. In quelle stesse settimane la Melville House Publishing ha pensato bene di mandare nelle librerie l’edizione economica del libro Debt, una rivisitazione del ruolo del debito nella storia umana. Testo ambizioso che aveva avuto delle anticipazioni negli articoli, saggi che l’antropologo aveva dedicato alle mobilitazioni degli studenti americani negli scorsi anni, quando è emerso con radicalità il tema dei debiti che vengono contratti dai giovani americani per pagare le rette dei campus. In quell’occasione, Graeber aveva sostenuto che era un debito da rigettare, perché impediva quel libero accesso al sapere che, in varia misura, è previsto dalla costituzione americana. 
Debt non nasconde le sue ambizioni teoriche e può essere considerato complementare a quello di Maurizio Lazzarato, ma con una significativa differenza teorica-politica. Mentre l’autore de La fabbrica dell'uomo indebitato sostiene che il debito, o meglio la gestione del debito individuale e degli stati sovrani è immanente al regime capitalistico contemporaneo, Graeber sostiene che il debito è un’«istituzione» preesistente al capitalismo, che regola semmai le relazioni sociali. I rapporti umani, sociali sono, per Graeber, scanditi da incontri, negoziazioni, impegni presi in una relazione di reciprocità ma anche di gratuità e di debiti accumulati e differiti nel tempo. L’antropologo statunitense colloca cioè la tematica del debito alla logica del dono, nella quale c’è dono, gratuità ma anche debiti accumulati nel segno della reciprocità che non devono tuttavia essere necessariamente onorati. 
È a questo debito a cui fa riferimento Graeber nell’indicare nell’«economia del dono» l’alternativa pragmatica al capitalismo neoliberista. Da qui l’invito, nell’ultima parte del volume, a sperimentare modelli di autorganizzazione sociale che colmino i vuoti creati dalla dismissione dello stato nel garantire servizi sociali degni di questo nome o per sfuggire alla morsa finanziaria delle imprese che li considerano solo merci produttrici di profitti. L’economia del dono avrebbe dunque il potere di costituire un’alternativa al neoliberismo. Da qui, quindi, la necessità di sottrarre il debito al significato dominante: il potere di controllo sulla vita esercitato dal capitale.
È indubbio il fascino esercitato da questa lunga esplorazione storico-antropologica del debito compiuta da David Graeber. Così come sono evidenti i suoi limiti, laddove individua nella società il luogo dove stabilire rapporti alla pari che sfuggano non a una indispensabile logica mercantile - l’economia del dono non è contro il mercato, ma è ostile alla sua forma capitalistica - bensì ai dispositivi di controllo sociale messi in campo affinché i debiti contratti abbiamo la forma monetaria che ipoteca il lavoro e la vita futura di uomini e donne.
Come spesso accade ai libri, quello di Graeber non è passato inosservato nei movimenti sociali, l'humus umano e politico dove è maturato. E le reazioni sono state positive. La sottrazione del debito alla sua funzione capitalistica è stato considerate la mossa obbligata per fronteggiare l’impoverimento generalizzato che la crisi economica ha provocato negli Stati Uniti. A Zuccotti Park, ma in molte delle città statunitensi che hanno visto esperienze simili, oltre agli infiniti happening, di occupazione di spazi pubblici, che sicuramente desterebbero l’interesse di Jean-Luc Nancy per queste temporanee comunità inoperose, nello scorso autunno e attualmente sono state sviluppate forme di mobilitazione che ricordano più la storia dei movimenti sociali europei o latinoamericani che non quelli statunitensi del secondo dopoguerra. Occupazioni di case, resistenza a sgomberi di case i cui proprietari non riuscivano a pagare i mutui alle banche, mercatini basati se non sul baratto su qualcosa di simile, mense popolari autogestite. E inoltre: scambio di beni con l’impegno a svolgere piccoli lavori di manutenzione. Insomma un’economia di sussistenza incardinate sulla logica del dono, dove il debito è ricondotto alla sua funzione originaria, cioè di essere un fattore costituente di relazioni sociali incentrate su una sostanziale eguaglianza, all’interno della quale i sentimenti di lealtà di rispetto, di reciprocità prevalgono sulla formazione sociale capitalista contemporanea.
Quando ci si trova di fronte ai movimenti sociali ogni rinvio alla coerenza teorica è vano. La sperimentazione è condizione necessaria e non sufficiente, perché i vincoli con cui fare i conti sono la composizione sociale dei movimenti stessi, i rapporti di forza nella società, quelle convenzioni socialmente necessarie che sono le cosiddette tradizioni culturali. E negli Stati Uniti questo significa fare i conti con una visione comunitaria da sempre in tensione critica con l’individualismo proprietario che regola i rapporti sociali. In fondo il fortunato slogan «noi il 99%, voi solo l’l%» non esprime solo una rappresentazione delle diseguaglianze di reddito che caratterizza la società americana, ma anche e soprattutto l’estraneità di quella piccola frazione della popolazione che si appropria della ricchezza che la comunità produce. Quello che è quindi accaduto negli anni volatili del neoliberismo non è dunque un ingestibile accumulo di debiti individuali o degli stati sovrani, ma l’esercizio sistematico di un furto ai danni della comunità. La produzione di esperienza di economie alternative a quelle dominanti non ha però nulla a che fare con la riappropriazione della ricchezza rubate, bensì con la sottrazione dai dispositivi che hanno legittimato un furto condotto in nome del libero mercato.
Questo cambiamento di segno al debito è certo affascinante ma conduce a percorrere strade piene di insidie, quasi che l’impoverimento e il «declassamento» del ceto medio, il mantra mediatico usato dal movimento da Occupy Wall Street per sottolineare che nessuno è immune alla crisi economica, fosse l’esito di un semplice disfunzione dell’economia capitalistica.
Uno sguardo meno episodico sulla composizione sociale dei movimenti contro la crisi illumina invece la dimensione strutturale del debito, elemento centrale nelle riflessioni di Maurizio Lazzarato. Non ci troviamo, infatti, alla crescita esponenziale del credito al consumo, ma uno strumento che regola i rapporti sociali, e di classe, nelle economie capitaliste.
Il debito non è solo un sofisticato strumento per «drenare» denaro verso il capitale finanziario, ma per regolare i rapporti tra capitale e lavoro. Per usare un lessico che molti vorrebbero dimenticare, il debito è appropriazione immediata del salario che verrà. Una riflessione critica sul debito non può infatti non contemplare la diffusione della precarietà anzi la sua trasformazione in regola dominante dei rapporti tra capitele e lavoro vivo.
La crescita esponenziale del debito individuale non dipende solo da un credito al consumo sfuggito di mano, bensì al fatto che negli ultimi 30 anni i salari, negli Usa e in Europa, sono rimasti al palo. E mentre in Europa il ridimensionamento del welfare state ha determinato un aumento delle spese individuali per fronteggiare la privatizzazione del welfare state, negli Stati Uniti la diffusione dei working poor ha visto crescere il debito individuale per garantire la semplice riproduzione della forza-lavoro. E se queste dinamiche hanno avuto una gestione «economicamente compatibile» fino a quando il lavoro vivo coinvolto era costituito da lavoratori e lavoratrici a tempo indeterminato, il debito è sfuggito di mano quando questa stessa dinamica ha trovato belli e pronti strumenti finanziari progettati per i temps, cioè i precari.
Maurizio Lazzarato nel suo volume offre spunti di riflessione che vanno ben al di là della dinamica economica. La fabbrica dell'uomo indebitato funziona infatti a pieno regime come dispositivo politico di controllo sulla cooperazione sociale e produttiva. Definisce cioè il campo in cui collocare comportamenti individuali, scelte nei consumi, assegnando proprio ai possessori del tuo debito il compito di controllare se ci sono violazioni dei confini, attraverso quel simulacro di astrazione reale che è appunto la solvibilità del debito. Ed è proprio il diritto all’insolvibilità il nuovo campo politico da arare. C’è da dissodarlo, liberarlo da opacità e aporie. Ma è l’unica possibilità data affinché la fabbrica dell’uomo indebitato giunga ben presto al suo fallimento.

“Alias il manifesto”, 31 marzo 2012

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