15.3.17

I due comandamenti di Nikita Krusciov (Aldo Natoli)

“Posto” per intero un articolo di cui avevo già ripreso il gustoso incipit. Anche il resto – mi pare – non è male, soprattutto la conclusione. (S.L.L.)

Alla fine del 1962 le fortune di Nikita Sergeevic Krusciov avevano già varcato lo zenit: il declino era già iniziato, anche se allora non appariva affatto chiaro. La sera del primo dicembre Krusciov si recò a visitare, alla mostra del Maneggio, una esposizione di pittori «non ufficiali»: così gli capitò di dare un'occhiata ad alcune sale dove erano esposte alcune opere di «arte astratta». Se ne andò indignato, dopo averle definite «scarabocchi imbrattati dalla coda di un asino». Subito dopo si incontrò con lo scultore Neizvestniy, al quale, dopo averne viste le opere, disse che «sbafava i soldi del popolo e produceva soltanto merda». Neizvestniy replicò tranquillamente che lui, Krusciov, «di arte non capiva proprio niente». Ne seguì un colloquio burrascoso che Krusciov concluse in un modo inatteso: «Lei», disse, «è una persona interessante. La gente così mi piace; dentro di lei ci sono contemporaneamente un angelo e un diavolo... Se vince l'angelo, la aiuteremo».
In realtà, fu Krusciov a chiedere aiuto a Neizvestniy. Lo fece molti anni dopo, quando da tempo non era che un pensionato qualunque e, in punto di morte, scrisse nel suo testamento di affidare a Neizvestniy l'incarico di scolpire il suo monumento funebre. Il quale si trova adesso nell'antico cimitero di Novodevici, lontano dalle mura del Cremlino; e l'episodio sta forse a dimostrare il bisogno di clemenza e di ricononciliazione che il vecchio Krusciov avvertiva negli ultimi anni della sua vita, quando, ormai lontano dal potere, era circondato solo dal silenzio.
Lo storico «dissidente» Roy Medvedev, assai noto in Italia per opere come Lo stalinismo e La democrazia socialista, ha raccontato questo episodio nel volume Ascesa e caduta di Nikita Chruscév (Editori Riuniti, pagg. 355, lire 15.000), una biografia che viene pubblicata «in esclusiva mondiale» e che, naturalmente, non sembra destinata a comparire in Unione Sovietica.
I diciotto anni che sono trascorsi dalla estromissione di Krusciov dal potere può sembrare ne abbiano sbiadito la personalità fino a cancellarla; e il suo retaggio politico può apparire superato e sommerso. In realtà non è affatto così; anzi mi sentirei di affermare che occorre rifarsi proprio all'opera di Krusciov per individuare alcuni dei fondamenti durevoli dell'epoca post-staliniana che stiamo vivendo.
È verissimo, e a tutti noto, che l'attività di Krusciov, nel periodo in cui restò al potere, fu improvvisata fino alla irresponsabilità e frenetica fino al caos. È verissimo che essa ha lasciato dietro di sé un cimitero di velleità inadempiute e di «riforme» fallite. Ed è verissimo che è perfino esagerato (nel senso della sopravvalutazione) definire «empirico» un modo di agire spesso dominato da umori imprevedibili. È altrettanto vero, però, malgrado l'accurato occultamento che ne viene fatto in Unione Sovietica, che a Krusciov dobbiamo i tentativi più audaci per affrontare due fra le questioni più minacciose per il futuro dell'umanità emerse nella seconda metà di questo secolo: la chiusura dell'epoca staliniana e i mutamenti intervenuti nei rapporti fra le grandi potenze in seguito alle diffusioni delle armi nucleari.
Intendiamoci bene: non credo affatto che Krusciov sia stato in grado di indicare soluzioni, anzi penso che ne sia rimasto lontano. Il suo merito (storico) è consistito nell'aver operato in modo che un'epoca (quella staliniana) non potesse più riprodursi (nell'Urss o altrove), nonché nell'aver indicato che si era aperta un'epoca nuova (quella nucleare) nella quale i comportamenti tradizionali delle potenze in guerra implicavano la distruzione della stessa umanità. Semplificando, si potrebbe dire che i messaggi lasciatici da Krusciov non sono altro che comandamenti negativi: «non potete più fare come Stalin» e «non potete più farvi la guerra come avete sempre fatto in passato».
Queste due verità fondamentali emergevano da un incredibile pasticcio, dentro il quale si mescolavano una totale incapacità di analisi dei processi economico-sociali (surrogata talora dalla piatta ripetizione di formule marxiste-leniniste), un gusto dell'aneddoto esaltato ad apologo esemplare, uno scatenamento del senso comune in fatali scorribande pseudoscientifiche; il tutto cementato da un impasto di furbizia e di ingenuità popolaresca, saldamente poggiato su un fondo di autoritarismo incruento, prolungamento di precorse pratiche staliniane. Mi riferisco, naturalmente, ai due «Rapporti»: quello politico, pubblico, e quello sui delitti di Stalin, segreto, pronunciati da Krusciov al XX congresso del Pcus (1956), nonché al suo rinnovato attacco a Stalin al XXII congresso (1961).
Nulla è più facile della critica all'impianto concettuale dei due discorsi contro Stalin: la futilità di voler tutto spiegare con il «culto della personalità», l'asserita incorruttibilità della società socialista (rimasta incontaminata sotto la valanga dei mostruosi delitti del terrore di massa), il ritorno rigeneratore alla purezza leninista e così via.
Reale e essenziale fu però, al di sotto di tante parole, la liquidazione del potere autonomo della polizia politica, strumento primario del terrore; la riabilitazione delle vittime; la liberazione e il ritorno di migliaia e migliaia di deportati; la lotta politica aperta e 1'emarginazione (senza condanne a morte) degli uomini dell'epoca staliniana riluttanti a considerarla chiusa (Molotov, Kaganovic etc).
Ovviamente tutto ciò non era sufficiente per aprire la strada al superamento dello stalinismo. Krusciov era lui stesso troppo impregnato della ideologia e della politica staliniana (e di questa e dei delitti, in parte, corresponsabile): era cresciuto in modo organico dentro quel sistema e non v'è dubbio che, per lui, quello era il socialismo. Voleva solo riformarlo, eliminarne deficienze ed errori, come l'eccessivo accentramento o lo sfruttamento sfrenato delle campagne. Aveva inoltre acquisito l'ingenua certezza che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe permesso di pervenire in breve tempo al comunismo attraverso l'abbondanza. Su questo punto Krusciov era un fedele allievo dell'economia politica di Stalin. Cominciò ad improvvisare una serie di riforme e tutte fallirono.
Il terrore era stato una componente costitutiva e necessaria del regime staliniano; poi era divenuto un elemento frenante delle possibilità di sviluppo del sistema. Venuto meno il potere personale di Stalin, il regime fu ricondotto dall'emergenza permanente alla sua normalità repressiva, pienamente incorporata al potere della burocrazia, in via di divenire assoluto. Il passaggio da Stalin a Breznev, attraverso Krusciov, doveva segnare la fine dell'autocrazia e l'identificazione di tutto il potere con la burocrazia dominante. Krusciov, che aveva ostinatamente lottato per pronunciare la parola fine, non fu assolutamente in grado di indicare un nuovo principio.
Anche il secondo, storico messaggio di Krusciov partì dalla tribuna del XX congresso, con la proclamazione che, sotto la minaccia della distruzione nucleare, la coesistenza pacifica fra le grandi potenze e in particolar modo fra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, era diventata un imperativo obbligato, una sorta di dimensione nuova e permanente dei rapporti internazionali a livello mondiale.
Medvedev ricorda l'incoerenza e la contraddittorietà con cui lo stesso Krusciov demolì il nuovo principio che aveva appena affermato: la sperimentazione affrettata di armi di eccezionale potenza, senza curarsi di rompere la moratoria proposta per le esplosioni nucleari nell'atmosfera; la sfida agli Stati Uniti con l'installazione di missili offensivi a Cuba; infine la moratoria monca firmata nel 1963 insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna, con la rinuncia gravissima (vero e proprio abbandono di principio) alla proibizione delle esplosioni sperimentali sotterranee. Paradossalmente, fu proprio quell'accordo che aprì la fase del riarmo nucleare indefinito, cui i trattati conclusi fra Urss e Usa dopo la caduta di Krusciov, dovevano porre solo il labile limite di un rapporto bilanciato.
Non è esagerato affermare che Krusciov distrusse così con le sue stesse mani il grande messaggio di pace che aveva lanciato nel 1956: circostanza che mi sembra sia sfuggita a Medvedev. Fu da quel momento che l'Urss perde ogni titolo specifico a porsi come potenza pacifica di fronte alla asserita aggressività dell'imperialismo (non si dimentichi che era ancora in corso la guerra nel Vietnam).
L'estromissione di Krusciov dal potere avvenne l'anno successivo; ma il suo astro era tramontato da tempo. Non fu un caso che quando venne sbattuto fuori senza complimenti, i voti furono unanimi e nell'Urss non vi fu alcuna protesta. Sembra che Krusciov, tornato a casa dopo quella terribile serata, abbia detto: «Forse la cosa più importante fra tutte quelle che ho fatto è che hanno potuto destituirmi con una semplice votazione, mentre Stalin li avrebbe fatti arrestare tutti». Non si è mai saputo se si rammaricasse o si congratulasse con se stesso.


“la Repubblica”, ritaglio senza data, ma 1982

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