26.3.17

Gerarchie letterarie. Campioni senza valore? (Alberto Asor Rosa 1984)

Goethe nel suo studio con il suo segretario
Dunque, secondo il referendum promosso da vari giornali e riviste europei (in Italia, da “Tuttolibri”, supplemento artistico e letterario de “La Stampa”), e già spiritosamente commentato da Luigi Malerba e Paolo Mauri su “la Repubblica” (5 giugno 1984), i quattro scrittori più famosi d' Europa, con vistoso distacco rispetto a tutti gli altri, sarebbero: Shakespeare, Goethe, Cervantes e Dante. Tralasciamo tutte le osservazioni che si potrebbero fare, e in parte si sono già fatte, sui limiti di tale gioco (non basta dichiarare a più riprese che di un gioco si tratta, per nobilitarne i tratti intellettuali), e ci limitiamo a segnalare questa curiosa coincidenza. Su “la Repubblica” dell'8 giugno 1984, Lucio Villari, nelle vesti d'improvvisato ma sapiente dantologo, c'informava che le letture preferite di Karl Marx, i suoi veri e propri livres de chevet, erano: Shakespeare, Goethe, Cervantes e Dante; e, quasi a togliere ogni ombra di dubbio sulla fondatezza di questa informazione, riportava una testimonianza di Wilhelm Liebknecht niente di meno che del 1896, secondo cui egli (Marx) "li aveva eletti a sommi maestri e li leggeva quasi ogni giorno".
Ohibò, qui c'è un indizio da approfondire. Si sono messi insieme dodicimila voti da ogni angolo d'Europa e si è spesa tanta fatica calcolatoria e combinatoria, per arrivare alla sconvolgente conclusione che i lettori medi europei dell'ultimo quarto del secolo ventesimo sembrerebbero rivelare le stesse preferenze letterarie di un genio della politica e dell'economia della metà del secolo scorso? Anche su questo si potrebbe fare facilmente dello spirito: è Karl Marx l'inconscio precursore del gusto letterario kitsch dell'età dei media? oppure sono i lettori dell'età dei media inconsciamente marxisti?
Nonostante l'aria idiota, che sempre spira intorno a referendum, sondaggi e inchieste di questo tipo, quei quattro nomi "balzati" là sulla vetta della classifica suggeriscono qualche spunto di riflessione in merito ad una questione, che la scienza letteraria ormai prudentemente accantona (dopo essersene troppe volte scottate le dita e insanguinato il naso) e che la spregiudicatezza referendaria della cultura di massa invece ci ributta sfrontatamente addosso: quella del valore dell'opera o, se si preferisce, della natura e statura dello scrittore. Il referendum, infatti, è la versione rozza e al tempo stesso l'ultima applicazione possibile di un bisogno profondo, proprio di tutta la nostra tradizione culturale, di stabilire tra i fatti non solo delle relazioni, ma anche delle gerarchie: un procedimento non dissimile è usato ancora in una moltitudine di testi critici e manualistici, da cui riemerge continuamente, implicita o esplicita, la distinzione tra scrittori massimi, maggiori, minimi, e così via. Poiché sempre più di rado s' incontra il critico, lo specialista, che abbia il coraggio di dire: "questo scrittore è un grande; quest' altro è da buttar via", c' è chi ha avuto l' idea di risolvere l'intricata questione nel modo in cui nelle società democratiche si risolvono (o dovrebbero risolversi) tutte le questioni, e cioè con il voto. Ma il voto sembra oggi sempre meno in grado di risolvere le questioni politiche, figuriamoci quelle letterarie.
Il fatto è che le gerarchie non possono in sè esaurire il problema del valore: se mai, possono darne una rappresentazione approssimativa e limitata nel tempo e nello spazio. Non è difficile infatti accorgersi che quei quattro scrittori stanno sulla cima fondamentalmente perché la cultura cui si ispirano sia Marx, sia i lettori mediamente colti dell'inchiesta, è quella del realismo romantico o, forse meglio, del romanticismo realista: una cultura - e questo potrebbe essere già un dato interessante della riflessione - dentro cui sorprendentemente ancora tutti siamo, se è vero, com'è vero, che dall'area culturale realistico-romantica a quella multimediale il salto è molto più breve che dall'area classica o dalle culture primitive o da quelle orientali. Prima del realismo romantico Dante era stato per secoli uno scrittore guardato con un diffidente rispetto, che di sicuro non gli avrebbe aperto la strada ad un buon piazzamento, e Shakespeare, salvo che in area inglese, passava, com'è noto, per "un barbaro non privo d' ingegno". Voglio dire che la parte seria di un ragionamento sulla gerarchizzazione dei valori letterari, ove non se ne vogliano presentare le conclusioni come assolute e definitive, consiste nel far riferimento ad un complesso di fattori culturali profondi, ad un insieme di convincimenti radicati nell'essere, ad una vera e propria antropologia dei fenomeni letterari, senza i quali anche soltanto provarsi a giudicare sarebbe impossibile.
Non si tratta, beninteso, di descrivere una specie di neutra trasmissione di comportamenti e di valori dalla sfera del sociale a quella culturale e poi di qui a quella letteraria: il campo, al contrario, è altamente conflittuale, aperto di volta in volta a non deterministiche soluzioni. Prova ne sia, per tornare alle classifiche da cui siamo partiti, che lo stesso orizzonte di gusto e di valori, che spinge così in alto quei quattro autori, respinge necessariamente in secondo piano l'arte di Boccaccio, Petrarca, Ariosto, Milton e fa sparire dalla scena fin quasi dalla prima selezione la poesia di Rimbaud, Mallarmè, Benn, Eliot, Montale, Walser e Roth...
Il guaio di queste classifiche, comunque formulate, è che, quanto più si sale, tanto più l'aria si rarefà e il rapporto con l'oggetto tende a diventare astratto, rituale: accanto a quelle quattro superstars si potrebbero mettere Omero e la Bibbia, Virgilio e Tolstoj; e il quadro sarebbe pressoché completo. Per un eccesso di valorizzazione, più nessun valore, ma la sacralizzazione, il mito: questi semidei si potrebbero anche non più leggere (è, del resto, il caso di Dante, è il caso di tanta parte di Goethe), il risultato del referendum resterebbe lo stesso. Il massimo dell'eccellenza coincide con l'ovvietà: Marx e il bancario milanese della fine del ventesimo secolo leggono e apprezzano le medesime opere, ma ciò non significa più nulla.
Temo non sia facile uscire da questa impasse, ormai veneranda e ampiamente sclerotizzata. La storia si era illusa di render più facile tutto: ripartendo dalle radici storiche dei fenomeni letterari, infatti, si pensava di mettersi in grado di cogliere in ognuno di essi l'elemento di autenticità, di originalità, che lo caratterizzava. Ma bisogna aver l'onestà di riconoscere che accanto a questo ha continuato a funzionare insopprimibile un altro meccanismo logico del tipo: non mi basta sapere come e perché, voglio sapere cosa mi rende un testo più amabile, più apprezzabile di mille altri. Questo interrogativo è sempre stato molto difficile, ma oggi è diventato quasi impossibile: io sono uno di quelli che pensano che una scienza della letteratura sia legittimissima e utilissima, ma mi rendo conto al tempo stesso che il lettore è un uomo sempre più solo in un universo comunicativo sempre più affollato.
Forse, invece di tentare sterili campagne per rovesciare questa tendenza, bisogna rassegnarsi a considerarla fatale e abituarsi a convivere con essa. Il valore c'è, e come; ma prima che un' estetica nuova riesca a sistemarlo in un nuovo quadro, non dimenticherei che esiste un livello profondo, insondabile e incomunicabile, della lettura, dentro cui un canto di Ariosto può darci maggiore soddisfazione di una tragedia shakespeariana e Campana può anche sembrarci maggior poeta di Montale. Mi accorgo che contrapporre ai voti di un pubblico referendum o alle consumazioni di massa del letterario l'originario spunto creativo proprio di ogni singolo lettore, corre il rischio di assumere una tonalità schiettamente reazionaria.
Potrei difendermi dichiarando che non ignoro i processi osmotici che si verificano tra i diversi livelli del letterario, e, quindi, anche tra quelli di una privatissima e oscurissima lettura e quelli di un universo multimediale (processi, di cui altre volte ho cercato di parlare su queste pagine); e precisando che anche il mondo oscuro, privato e profondo del singolo lettore, è in realtà una sintesi di molti fattori diversi, tra cui rientra anche il rapporto con una più complessiva antropologia (quella, ad esempio, per cui, per la grande maggioranza dei lettori comuni, Shakespeare, Goethe, Cervantes e Dante, sono effettivamente, come per un qualsiasi Marx, "i sommi scrittori e maestri"). Preferisco però restare, in questo momento, alla enunciazione drastica della mia affermazione: il riconoscimento e la persistenza del valore sono fondati innanzi tutto su di un "a tu per tu" con il testo, che si fa forte delle molteplici componenti di un' intera, singola e irripetibile esperienza esistenziale.
Il valore è ciò che nessuno può togliere all' individuo lettore che lo ha individuato e apprezzato. Ogni augurabile sistematizzazione futura del problema non può non tener fermo questo punto: se lo sopprime, meglio farne a meno.


la Repubblica, 21 giugno 1984  

Nessun commento:

statistiche